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Una prospettiva sulle mobilitazioni contro il Green Pass a Trieste (seconda parte)

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Riceviamo e pubblichiamo…

(Credit: Andrea Vivoda)

Dopo i tumultuosi eventi delle ultime due settimane, sentiamo l’urgenza di riprendere il filo dei discorsi che avevamo interrotto alla vigilia del blocco del porto di Trieste [1]. Lo facciamo per condividere elementi e cronache in modo da far emergere le dinamiche che forse potrebbero riproporsi in altri luoghi.

Come avevamo annunciato in quel testo, quello a cui stavamo assistendo era un processo assolutamente grezzo di ricomposizione politica attorno all’opposizione al green pass, non per via culturale (sulla base di schemi e codici prestabiliti), ma per via sociale, con tutte le contraddizioni del caso che stavano venendo alla luce. 

I fatti del Porto hanno da una parte arricchito questo movimento e dall’altra gli hanno impresso una direzione particolare, determinata da una serie di fattori esterni alla realtà triestina che vorremmo provare a ricostruire. 

Prima di tutto, però, alcune considerazioni, anche di metodo:

a) La violenza dispiegata dalle forze dell’ordine durante lo sgombero del presidio permanente al varco 4 del Porto Nuovo di Trieste sono un fatto inedito, almeno in anni recenti, nella storia di Trieste. Uso di idranti, piogge di lacrimogeni ad altezza uomo (finendo tutti i candelotti disponibili entro il tardo pomeriggio), spinte e manganellate su un ponte: la cifra dell’operazione poliziesca, con un dispiegamento di mezzi e uomini enorme, è la dimostrazione dell’alto valore, non solo simbolico, della piazza triestina, diventata il fronte più avanzato dell’opposizione al green pass (con buona pace di Roma), crediamo per ragioni non casuali e profondamente intrecciate all’evoluzione del movimento triestino. 

I commentatori salottieri che ne fanno un teatrino, abituati evidentemente a ben altre forme di conflitto, non sanno quello che dicono: la resistenza di questo popolo strambo è stata tenace, forte (3 ore ci hanno messo per sgomberare 300 metri di varco). Mai come in quest’occasione, alla pioggia di lacrimogeni, la piazza ha reagito con determinazione, senza fuggi fuggi, ricacciando indietro i candelotti e rallentando con fermezza la celere nei momenti in cui iniziava a caricare a fondo (sì, anche con l’uso di barricate di fortuna). In quelle piazze si mescolavano persone

inorridite dalla violenza della polizia e militanti di diverse origini, più preparate/i a tale violenza, ma, in termini di determinazione nella risposta, non vi era alcuna differenza. È una lezione che ci portiamo a casa: laddove c’è conflitto reale, c’è anche resistenza reale, e non solo rappresentata. 

b) Nei giorni successivi la città è caduta sotto una strana luce, quasi carnevalesca: ne parleremo fra poco. A questa, però, si è aggiunto il ruolo delle istituzioni che hanno militarizzato un’intera città. Abbiamo assistito a colonne di mezzi blindati che si aggiravano ovunque e ad un dispositivo serrato di controllo dei mezzi in entrata a Trieste, con filtri nei principali punti di accesso (attenzione, non controlli casuali, ma rallentamento di tutte le auto e identificazione dei sospetti). Il risultato, che abbiamo appreso dalla stampa, è stata l’esecuzione di 12 fogli di via per 2 compagne di area anarchica e per 10 fascisti (8 di Casapound). Al di là dell’evidente disprezzo che proviamo per questi ultimi, vogliamo dire con chiarezza che riteniamo tutto questo inaccettabile: la preventiva espulsione dal territorio di una città per motivi di semplice appartenenza ad un’area politica è una misura fascista anche quando colpisce fascisti. È grave e segna una volta di più la natura tecno fascista degli apparati di stato. 

c) Visto che il punto precedente farà inorridire i salottieri che ci tocca ascoltare continuamente, teniamo a dire che l’antifascismo lo si può praticare anche stando all’interno di questi processi di natura spuria. Starci al suo interno non è stare spalla a spalla con il mostro, ma fare presenza, contendere quegli spazi, provare ad allontanare – sulla base di valutazioni della fase di quel processo – gli elementi peggiori, portare discorsi nostri non come volantini distribuiti da un piedistallo, ma dall’interno, quindi veicolati con cognizione di causa e ascoltati con fiducia e rispetto. 

Praticare l’antifascismo dove serve: ovvero, anche e soprattutto, nella pancia del tessuto sociale, dove sappiamo che negli ultimi anni si sono innervate anche parole d’ordine che ci fanno inorridire. Mantenere la barra là dentro è complicato, e ogni tanto sfugge: non è un buon motivo per non provarci. È ridicolo soprattutto pensare che l’antifascismo sia l’appello cartonato che unisce la Cgil al governo del banchiere Draghi, ancora di più quando cresce il malcontento verso questo governo ed i lavoratori stanno stracciando le tessere dei sindacati confederali ricercandone altri più rappresentativi dei loro interessi. Anche su questo torneremo dopo.

d) Nel precedente testo abbiamo cercato di ricostruire la nostra verità di parte rispetto a quanto stava accadendo a Trieste. Lo abbiamo fatto evitando di trascurare elementi a noi sfavorevoli, raccontando con chiarezza le contraddizioni e le possibili derive di quella che ci pareva e ci pare una sollevazione popolare inedita, per composizione e sviluppo. Uno strano conato di rivolta che sarebbe andato avanti con o senza di noi, che ci ha imposto perciò la scelta binaria di esserci (con diverse modalità possibili) o non esserci (e stare a guardare da lontano). 

Ci siamo stati con passione e determinazione non perché l’orizzonte fosse limpido, ma al contrario perché profondamente incerto. L’ambivalenza è stata la cifra di quanto accaduto, e di quanto accade ancora. Se qualche uccello del malaugurio ha trovato conferme a quanto andava dicendo (“sono fasci…”, “sono reazionari…”, “finirà male…”), dimostra solo che la posizione astratta di chi giudica è irrilevante e basata esclusivamente su qualche scenetta parziale pompata dai media. Anche su questa triade andrà detto qualcosa: fenomeno da baraccone, media mainstream e commentatore asettico convergono tutti sull’immagine di una madonna in piazza, su un discorso delirante o su una citazione sbavata, facendo scomparire lo sfondo in cui queste cose avvengono. Questa strana saldatura di interesse (del fenomeno di mettersi in mostra, del media di trovare lo scoop, del commentatore che non si sporca le mani di trovare conferma alla sua inazione) è una delle forze che hanno agito per trasfigurare la rappresentazione di questo movimento.

Gli eventi 

Ripartiamo dunque dagli eventi degli ultimi giorni. Venerdì 15 ottobre, dalla mattina presto, inizia l’occupazione/presidio del Varco 4 del Porto di Trieste, in solidarietà con i portuali in sciopero contro il green pass. Le mobilitazioni triestine hanno deciso di convergere su questa iniziativa, per rafforzarne il carattere di solidarietà e per innalzare il livello delle mobilitazioni sul piano dell’economia. Quello che era stato preannunciato come un blocco totale del porto, si è in realtà trasformato in uno sciopero ad oltranza sostenuto da un presidio. Tale decisione viene comunicata la notte prima, con un comunicato del CLPT in seguito all’assemblea dei lavoratori portuali. Veniamo a sapere, solo in seguito, che in realtà non tutti i portuali avevano la stessa consapevolezza e determinazione riguardo alla giornata del 15. Così, mentre nelle assemblee cittadine, a seguito degli interventi di qualcuno di questi, si discuteva di come mettere in atto un blocco e ci si preparava psicologicamente (e collettivamente) anche all’eventualità di uno sgombero, ad alcuni portuali veniva girata la sola richiesta di partecipare almeno ad una giornata di sciopero.  

Le presenze durante la prima giornata al Varco sono migliaia, con diversi lavoratori e lavoratrici accorsi in solidarietà all’iniziativa. L’adesione allo sciopero dei portuali è altissima (al 90% stando alle loro fonti) e il porto alle nostre spalle rimane effettivamente fermo. Su richiesta degli stessi portuali, chi ha voluto entrare a lavorare è stato effettivamente lasciato entrare, ma nei fatti – per l’afflusso enorme di gente e i lavoratori che hanno incrociato le braccia – la prima giornata si risolve in un blocco indiretto delle attività portuali, come era stato annunciato. 

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(Credit: Andrea Vivoda)

Fin dai primi momenti, al Varco si respira un’aria di comunità solidale: ci sono diversi punti di distribuzione di cibo e bevande gratuite, uno proprio sotto il varco, altri organizzati da lavoratori autorganizzati sul ponte ed un altro vicino alle camionette sulla strada. Le donazioni di cibo e bevande sono costanti, come anche quelle di coperte per la notte o di camper, messi a disposizione per riposarsi e lavarsi. Se da un lato c’è l’imbarazzo per un clima festoso in quella che si pensava come un’azione politica difficile e dura, dall’altro c’è l’entusiasmo per questa spiccata solidarietà e generosità diffusa. Si creano gruppi di balli, gruppi di meditazione, laboratori per bambini e gruppi non-stop di percussionisti. 

In questa fase, però, qualcosa inizia a modificarsi. L’altissima mediatizzazione dei fatti triestini contribuisce infatti a mitizzare il ruolo dei portuali e del loro leader Stefano Puzzer, diventati il riferimento simbolico per tutti i movimenti contro il green pass del paese. Leaderismo e mito diventano sempre più evidenti quando i partecipanti da fuori confluiscono in gran numero: ogni passaggio visibile di Stefano Puzzer, che per alcuni di noi era stato, fino a quel momento, un compagno di assemblee saltuario ma determinato, lo vedeva assalito da abbracci, baci, regali, e, talvolta, crisi isteriche, suppliche e pianti. 

Inoltre, il numero sproporzionato di telecamere e giornalisti ha iniziato a rappresentare la mobilitazione in corso secondo i suoi schemi canonici e scandalistici. Personaggi del calibro di Tuiach (pugile neonazista e invasato, ma anche lavoratore portuale) hanno iniziato a sguazzare in questa situazione, prendendosi le telecamere con discorsi deliranti; lo stesso è avvenuto per i gruppuscoli fascisti, accorsi anche da fuori città per far numero insieme ai camerati locali, a cui i media hanno iniziato a dar risalto senza accorgersi che nel contesto triestino non avevano alcuna rilevanza. Questo ha permesso, ancora una volta, a tanti commentatori e commentatrici che guardavano da lontano, di “confermare” le loro ipotesi (“Lo dicevo io che erano tutti dei fascisti!!!”). 

Ma più di tutto, visto anche il contesto in cui avveniva il blocco (cioè la casa dei portuali), è il ruolo mediatico assunto da Puzzer ad aver catalizzato tutte le attenzioni: le sue parole sono diventate man mano la voce ufficiale della mobilitazione, sulla base non di un riconoscimento di fatto ma di un’investitura mediatica già iniziata nella settimana precedente. Le conferenze stampa periodiche dal blocco/sciopero erano state pensate fin dai giorni prima, e vi dovevano partecipare rappresentanti di ogni categoria lavorativa in lotta e del Coordinamento No Green Pass. Si era pensato a questa soluzione per evitare una centralizzazione sui portuali, che avrebbe comportato oneri e potere di contrattazione su una sola categoria. Forse per la mancanza di chiarezza interna ed esterna, forse per l’arrivo eccessivo di fan dei portuali da fuori, forse per la pressione dei media, forse per le contingenze, fin dalla prima conferenza stampa, non è andata così. Anche quando, per cercare di far riportare dai media la natura effettiva di quella piazza, al di là delle macchiette e dei vampiri da telecamere, Puzzer passava il microfono della conferenza ad una portavoce del Coordinamento No Green Pass che descriveva quella battaglia nei termini in cui si era generata e stava progredendo, i media tagliavano la scena. Lo slogan che ormai dominava era quello dei portuali, nella loro forza di gruppo compatto e unito da un forte legame lavorativo: “La gente come noi non molla mai”. 

Questo processo di trasfigurazione della piazza triestina ha raggiunto il suo apice con il giorno successivo: calati da fuori sono giunti a Trieste alcuni personaggi legati agli ambienti complottisti e spiccatamente novax (e riduzionisti del virus), come l’attore Enrico Montesano, l’ex giornalista e politico Gianluigi Paragone o l’ex generale macchiettistico Pappalardo. Gli sforzi del Coordinamento No Green Pass di Trieste di gestire la situazione non sono stati sempre efficaci: se Paragone e Pappalardo hanno dovuto accontentarsi delle interviste e di qualche intervento al megafono, Montesano è stato invece accolto a braccia aperte e ha potuto intervenire dall’impianto

principale del presidio (paradosso, tra l’altro, del suo intervento è che ha dovuto ammettere la natura di classe di quanto stava avvenendo). 

Sul microfono e i media va chiarito un ulteriore punto. Sempre il secondo giorno, il pugile fascista Tuiach, dopo che gli è stato negato, oltretutto con gentilezza, di poter parlare al microfono poiché non compatibile con le regole che ci si era dati (era un politico ed avrebbe fatto interventi discriminatori), ha sferrato un sinistro ad un membro, dichiaratamente comunista, del Coordinameno No Green Pass, lanciandolo su un vetro e stendendolo. I portuali, la cui compattezza è basata sul “no alla politica”, hanno però immediatamente preso posizione: Puzzer ha subito preso il microfono ed ha dichiarato, davanti alle telecamere, che i portuali si dissociavano da quella persona e che si prendevano la piena responsabilità che Tuiach non sarebbe mai più entrato in quel presidio. Questo è forse l’unico intervento di Puzzer che i media si sono dimenticati di riportare. Al contrario, hanno propugnato una ricostruzione di comodo, secondo cui la rissa era avvenuta tra un gruppo di antagonisti di sinistra e Tuiach che difendeva i portuali. Quest’ultimo è poi tornato ripetutamente in porto ed in piazza, lanciandosi su ogni telecamera dei media mainstream che ne hanno fatto “il portavoce dei portuali”. I portuali, dal canto loro, hanno provato diverse volte ad allontanarlo, senza riuscirci la maggior parte di queste, e dichiarandosi infine inermi (ed intimoriti per le minacce) davanti a quello che, a detta loro, è un “cervello di gallina”. 

La situazione in queste fasi ha quindi iniziato a compromettersi. Il Coordinamento No Green Pass di Trieste, la realtà locale che aveva cominciato e lavorato nelle mobilitazioni di massa dell’ultimo mese e mezzo, è in assemblea permanente nel tentativo di gestire la situazione in evoluzione. Anche perché dal sabato ha iniziato ad affluire in porto un popolo da fuori (con parole d’ordine e linguaggi estranei alle piazze triestine) che lentamente ha modificato le istanze e la rappresentazione della mobilitazione triestina contro il green pass.  

In questa situazione anche il fronte dei portuali ha iniziato a diversificarsi. Con un colpo improvviso il CLPT (il sindacato autonomo dei portuali che aveva avuto un ruolo di avanguardia nei portuali insieme al suo rappresentante Puzzer) nella giornata di sabato emette un comunicato in cui sostanzialmente, anche se con linguaggio ambiguo, dichiara esaurita l’esperienza del presidio e il rientro al lavoro. La reazione dei presenti, ma anche del Coordinamento No Green Pass di Trieste, è immediata: non può passare la resa. Dopo un’assemblea fiume, arriva il dietrofront di Puzzer, che però in questo modo incrina i rapporti all’interno del CLPT, da cui infatti il giorno dopo si dimette per sollevare il sindacato da qualsiasi responsabilità.  

Il Coordinamento No green Pass fa uscire subito un comunicato in cui conferma la protesta a oltranza [2] e il giorno dopo ribadisce il suo posizionamento, in una conferenza stampa in cui cerca di far emergere la presenza di diverse categorie lavorative auto-organizzate le quali si spartiscono l’onere e la responsabilità di quel presidio, fino a quel momento oscurate dalla presenza altamente mediatizzata dei portuali.  

L’operazione, concordata anche con Puzzer – che rilancia lo stesso messaggio dal microfono -, riesce solo in parte, anche perché ormai la trasfigurazione del presidio al porto è avvenuta, e la partita si gioca su un piano complesso, schiacciato tra media e ordine pubblico, dove far emergere altre istanze è questione quasi impossibile. Tale conferenza viene presa dai media per alimentare una confusione, poi amplificata nei giorni seguenti, secondo cui sono in atto divisioni intestine e ambizioni di intestarsi la riuscita del presidio. 

Dopo l’ultima notte in porto (quella di domenica), nonostante le rassicurazioni di alcuni portuali (a loro volta rassicurati da polizia e digos), il mattino di lunedì avviene lo sgombero. La situazione è abbastanza surreale, perché di fatto il varco è aperto all’ingresso dei lavoratori e nelle prime ore della giornata il presidio conta poche centinaia di persone che non impediscono lo svolgimento

delle attività portuali. Il primo camion in arrivo, come i pochi successivi, vengono lasciati passare, anche se ironicamente si genera una piccola coda poiché, ci viene detto, il primo autista è sprovvisto di green pass. 

Tuttavia il segnale dell’autorità portuale e delle istituzioni – mandato con l’arrivo di una decina di furgoni della polizia e ben due mezzi con idranti – è forte ed inequivocabile: sgomberare a tutti i costi il porto. Le forze di polizia si presentano dall’interno del porto, dopo essere entrate da un altro varco. Iniziano nel frattempo ad accorrere diverse persone in supporto ai presidianti. I portuali creano un cordone fra la polizia e i presidianti, e cercano di convincerli – invano – di continuare il presidio nel parcheggio vicino (lasciando quindi libera l’entrata al porto). 

Lo sgombero viene effettuato prima con gli idranti, poi con le cariche e infine con i lacrimogeni: dura diverse ore, con la strenua resistenza dei manifestanti. Gli idranti vengono sparati anche in volto, causando danni al timpano di un portuale e ribaltando diversi presenti. Il tutto avviene su un ponte: i rischi di tale manovra assillano i portuali, i quali si sentono responsabili dell’incolumità dei presenti. I lacrimogeni vengono dapprima lanciati dall’alto (la superstrada che passa sopra il ponte) poi, molti, in aria e ad altezza uomo. Le cariche sono leggere anche se causano diverse lesioni. 

L’operazione dà anche il via a degli strani movimenti intorno alla figura di Puzzer, iniziati almeno dal giorno prima. Elementi fino a quel momento marginali blindano la sua figura, mettendo in scena la santificazione del portavoce: giocano alle guardie del corpo, ma in realtà contribuiscono a creare un entourage di soggetti che hanno l’obiettivo di assumere la guida del movimento. Lo capiamo solo strada facendo, si tratta di un’infiltrazione dall’alto di chi forse aveva già capito che non ce l’avrebbe fatta dal basso. Alcuni di questi personaggi si erano già avvicinati al Coordinamento No Green Pass di Trieste, cercando di assumersi ruoli di rilevanza. Al porto tentano di prendere in mano la gestione delle cucine vicine alle camionette, chiamando addirittura una raccolta fondi online a sostegno dei portuali (che viene subito cassata dal Coordinamento e smentita da Puzzer). 

La piazza nel frattempo reagisce in maniera diversificata all’operazione poliziesca. Dopo le cariche che liberano definitivamente il varco 4, il grosso dei manifestanti viene sospinto in direzione del centro città. A seguito di una prima resistenza, parte un determinato corteo selvaggio di migliaia di persone. Un’altra parte, più esigua, si assesta in direzione Campi Elisi, erigendo una barricata; un’altra ancora, di qualche centinaio di persone, si ferma davanti al porto presidiando la strada seduta per terra e un’altra ancora si ferma nel parcheggio del porto. La giornata diventa caotica, ma anche estremamente densa. 

Il corteo selvaggio dopo un lungo giro per la città, approda in Piazza Unità. In sostanza il presidio permanente, composto principalmente da persone venute da tutta Italia in sostegno a quella che è ormai la lotta dei portuali, si radica qui. Chi rimane al porto chiede solidarietà, ma Puzzer ribadisce che tutti devono stare seduti in Piazza Unità. Puzzer e altre persone decidono di incontrare il prefetto, che promette un incontro con una delegazione governativa nei giorni successivi. Qui avviene anche l’ennesimo colpo di scena: viene costituito il Coordinamento 15 Ottobre (nome, da quello che ci viene riferito, suggerito dalla digos) che, intestandosi la protesta, diviene anche l’interlocutore con le istituzioni. Entrano a farne parte, oltre a Puzzer e a due persone legate all’ambiente triestino delle proteste contro il lasciapassare, altri due personaggi ambigui calati dall’esterno: Roberto Perga (del Coordinamento Interforze OSA, mai visto o sentito prima a Trieste) e Dario Giacomini (medico vicentino esponente di primo piano dell’Associazione ContiamoCi e candidato alle elezioni politiche del 2013 con Casapound). Sembra che tutto accada perché queste persone si trovano al posto giusto nel momento giusto. Si tratta di un torbido tentativo di prendere il controllo della piazza e soprattutto manovrarla, viste le pressioni sempre più forti da parte istituzionale. Pare proprio che quello che stia accadendo, ormai decisamente fuori controllo, spaventi un po’ tutti.

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(Credit: Tommaso Vaccarezza) 

Anche perché quella giornata non si esaurisce nella centrale Piazza Unità. Il fronte del porto è ancora caldo. Dopo lo sgombero del mattino, le forze di polizia si sono assestate a centro strada, di fronte al Varco. Campi Elisi è chiusa al traffico, come anche le rive cittadine di fronte a Piazza Unità. Da una parte e dell’altra del blocco di polizia (che sigilla il varco) sono in corso due presidi. Uno, sul lato verso il centro città, è composto da gruppi veneti e altri elementi sparsi, ed è assolutamente tranquillo anche se determinato a non mollare il simbolo della protesta, il porto. Dall’altra parte si assesta un gruppo con forti infiltrazioni neofasciste: qui il blocco è duro, con barricate e risposte che tengono a distanza la polizia.  

La situazione è insostenibile, perché il varco di fatto è ancora bloccato e i camion, fatti scendere dall’autoporto di Fernetti, non possono muoversi: si snoda una fila interminabile di Tir in direzione Valmaura e tangenziale.  

La polizia decide dunque di rompere questa sorta di assedio caricando a lacrimogeni prima il fronte più tranquillo. Le cariche, sporadiche, proseguiranno tutto il pomeriggio per allontanare le persone di ogni genere che a piccoli gruppi affluiscono in quella direzione. Dall’altra parte, qualche tempo dopo, si decide lo stesso: qua gli scontri si fanno duri fino a tarda sera, con la brutalità della polizia che entra direttamente nelle viuzze delle zone popolari di Campi Elisi.

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(Credit: Tommaso Vaccarezza) 

Diversi altri tafferugli si verificheranno nella zona del varco 4, fino a quando la polizia non si assesterà in difesa del varco (che verrà riaperto solo il giorno dopo) anche per i giorni a seguire, istituendo di fatto una zona rossa off-limit ai pedoni per un tratto di strada con check-point di entrata ed uscita. 

In Piazza Unità, invece, il presidio permanente improvvisato ha contorni abbastanza surreali. Dominano i gruppi ultracattolici provenienti dal Veneto (che – approfondendo – sono alla testa dei movimenti contro il green pass in quella regione) e vari altri soggetti accorsi da fuori a Trieste alla rinfusa: ci raccontano di aver raccattato una zaino ed essere semplicemente partiti per quello che ritengono il fronte della protesta, senza alcuna organizzazione alle spalle. Questa composizione mai vista a Trieste trova il suo culmine il giorno successivo, il 19 ottobre, quando viene montato un palco non autorizzato che diventa teatro di discorsi di ogni tipo, tra cui preghiere e invocazioni alla madonna. Un fenomeno anche abbastanza farsesco, nella durezza del momento. Sembra che la volontà di chi aveva montato quel palco fosse quella che vi parlassero le persone che avevano agito sul territorio nei mesi precedenti, ma queste si trovavano in una delle molte assemblee di quei giorni, cercando di capire cosa fosse il Coordinamento 15 Ottobre, come evitare che i media parlassero esclusivamente di burocrazia e divisioni e sulla prosecuzione delle mobilitazioni. 

Il Coordinamento No Green Pass di Trieste stenta a stare nella situazione. È provato dalle giornate al porto, ha subito cariche violente e fa fatica a trovare lucidità, anche perché emergono polemiche, distanziamenti e personalismi nella dinamica generale. Il 20 ottobre, però, raccogliendo le forze, riesce nuovamente a imporre alcune delle sue parole d’ordine, organizzando in Piazza Unità una conferenza stampa e diversi comizi che riportano al centro le istanze che avevano dominato le mobilitazioni triestine. 

Nel frattempo il Coordinamento 15 Ottobre, anche per riconoscimento mediatico-istituzionale, media con la prefettura la presenza del presidio permanente, che tollera con difficoltà. È lo stesso neonato coordinamento a chiederne lo scioglimento, anche se i presenti decidono di non mollarlo: l’investimento anche simbolico che hanno riversato su questa presenza a oltranza non permette un rientro nelle proprie piazze, come invece Puzzer e gli altri richiedono sempre più apertamente. 

L’incontro del Coordinamento 15 ottobre con la delegazione governativa (composta, nonostante le richieste, dal solo ministro triestino Patuanelli, competente tra l’altro sulle politiche agricole) è fissato per sabato. Per il giorno prima e lo stesso sabato vengono annunciati rispettivamente un grande corteo e un presidio statico. La mediatizzazione di quei giorni, tuttavia, è al suo apice: inizia

la narrazione sulle possibili infiltrazioni dei black bloc, voci messe in circolo già a partire lunedì 18 e che si fanno sempre più consistenti. In questo clima di caccia alle streghe, di sparate giornalistiche senza precedenti [3], la città si blinda, i padroni tirano giù le saracinesche in modo spontaneo (paradigmatico il caso di Eataly), il Comune mette in smartworking i dipendenti per le due giornate, biblioteche, musei e lo stesso municipio sospendono parzialmente o completamente l’attività. 

Tutto ciò presta il fianco all’annullamento delle manifestazioni da parte del Coordinamento 15 Ottobre, che a dire il vero non aveva realmente l’intenzione di assumersi la responsabilità di quelle piazze. 

È solo l’ultimo colpo di scena di quelle giornate: dopo aver evocato l’entità mitica dei portuali e aver di conseguenza provocato l’afflusso verso la città di Trieste di centinaia di persone, la piazza triestina viene di fatto smobilitata. Il potere catartico nelle mani di Puzzer gli permette di far retrocedere il fronte triestino all’ormai paradossale grido di “La gente come noi non molla mai”. 

Per il Coordinamento No Green Pass di Trieste, nonostante la volontà di far presenza anche in una piazza ormai irriconoscibile e nonostante i ripetuti incontri, poco chiarificatori, con diversi membri del neonato Coordinamento 15 Ottobre, è invece urgente riprendere il filo delle proprie mobilitazioni. Nel comunicato del 22 ottobre [4] dichiara apertamente di non poter proferire parola sul perché esista il Coordinamento 15 Ottobre, sul motivo della presenza di due personaggi da fuori, né sul perché siano state lanciate e annullate le piazze. Per il coordinamento triestino c’è ormai l’ansia che si concluda la settimana per poter tornare alla propria dimensione locale e di massa. È lo stesso anche per la componente più agguerrita dei portuali che, allontanatosi da Puzzer (anche se a lui sempre legato per motivi di fratellanza), dichiara apertamente di non voler far parte dei posizionamenti politici e organizzativi in corso e di voler semplicemente tornare in piazza come categoria tra le altre.  

L’incontro del sabato con il ministro Patuanelli si conclude con il tiepido accordo che verranno riferite le istanze della protesta al Consiglio dei Ministri (come tutti un po’ si aspettavano). Il mattino stesso di nuovo si forma un presidio spontaneo di migliaia di persone, con una riconoscibile presenza anche di lavoratori portuali (e la significativa presenza di delegazioni di altri porti). 

La settimana si conclude con il terzo atto del No Paura Day (quelle piazze informative che a Trieste, agli albori della protesta, ci avevano colpito per presenze e discorsi, e ci avevano fatto intravedere sviluppi promettenti nella lotta contro il green pass). Una piazza di nuovo gremita, rientrata attraverso una forma familiare dopo le improvvise accelerazioni delle settimane recenti. Probabilmente anche così la piazza di Trieste ha provato a uscire dal vicolo cieco in cui si era messa (e che meglio sarebbe dire “in cui è stata messa” da un gioco di forze e soggettività alle volte estranee se non ostili). In quella piazza, tuttavia, spesso “generalista” per contenuti e trasversalità, campeggiava ancora – tra gli altri -lo striscione del “Comitato autoferrotranvieri Trieste”. 

Mentre la piazza triestina provava a rialzarsi dopo il raffreddamento della sua carica, in giro per l’Italia riprendeva una grossa ondata di proteste. Nella vicina Udine un grosso corteo si mette in strada nella giornata di venerdì: tra loro, di nuovo, abbiamo notato la presenza di striscioni di lavoratori auto-organizzati contro la tessera verde. Un altro segnale che qualcosa si è depositato dopo gli eventi tumultuosi che hanno acceso i riflettori su Trieste. Se la dimensione di classe che avevamo intravisto costituirsi negli ultimi tempi, con innumerevoli striscioni di categoria l’11 ottobre, è venuta in parte a mancare, è sicuro che abbia lasciato dei segni, ponendoci la questione di come ravvivarli e generalizzarli. 

Il Coordinamento No Green Pass decide quindi di chiamare un corteo (nell’ambito di una giornata di astensione dal lavoro tramite non presentazione del green pass) per il 28 ottobre ed una piazza di

assemblee tra categorie lavorative per il 30 ottobre. Nel mentre, il Coordinamento 15 Ottobre inizia a vivere diversi drammi e catarsi: se dapprima ci comunicano di volersi sciogliere terminato il weekend, poi rimangono e cambiano nome due volte nel tentativo di estromettere i due personaggi venuti da fuori ma pur sempre all’interno di un generale equilibrisimo. La grande diffusione mediatica del Coordinamento 15 Ottobre (con un canale Telegram partecipatissimo) è infatti in mano a Giacomini, che si deduce non voglia mollare la presa e che pare ora ne terrà le redini per formare un nuovo Comitato Tecnico Scientifico “ombra”. Il neonato gruppo “La gente come noi – FVG” di Puzzer, invece, rimane un fenomeno con diffusione e legittimazione prevalentemente fuori dai confini regionali, in esso non vi partecipa nessuno che non sia di Trieste (ed in questa regione l’identità di diverse zone della regione è forte) e non vi partecipa il Coordinamento No Green Pass di Trieste. 

Una parte dei portuali legata a Puzzer chiama quindi un corteo in anticipo, per il 29 ottobre, e Puzzer stesso, da lì, chiama una seconda giornata di non presentazione del green pass per il giorno seguente al “no green pass day” chiamato dal Coordinamento No Green Pass. 

Il corteo dei portuali si propone come obiettivo simbolico di finire in porto e di passare davanti alla SIOT, oleodotto fondamentale nell’economia del porto di Trieste, luogo di interesse strategico e protezione antiterroristica a seguito degli attacchi di Settembre Nero. Alla fine, la manifestazione non passa né davanti alla SIOT né si conclude in porto e vede un nuovo corteo, di circa 1500 persone, incentrato sulla figura di Puzzer, a cui mancano molti portuali presenti nelle giornate al porto. È un corteo che in nome dell’unione tra categorie lavorative viene rilanciato anche dal coordinamento no green pass. 

Il giorno seguente, al corteo cittadino, ritorna in piazza quella parte di Trieste che si era mobilitata in settembre e ottobre. Si è di nuovo in circa ottomila persone, con striscioni di categoria e un significativo passaggio davanti alla sede dell’azienda locale di trasporto pubblico, dove i lavoratori autorganizzati fanno un intervento. Non viene autorizzato l’arrivo in Piazza Unità, ma i manifestanti, una volta fermatosi il furgone di testa, aggirano tranquillamente il blocco della polizia e giungono nella piazza simbolo. Gli interventi sono tanti, “nelle fabbriche, nelle scuole, nelle università il tesserino verde non passerà” si sente dal microfono. Il corteo inizia con una presa di posizione chiara: respingere la nuova campagna denigratoria iniziata dai media, quella che vede le manifestazioni di Trieste come l’origine dei nuovi focolai. Se il tracciamento dei contagi era noto non stesse funzionando in regione, con famiglie che dovevano richiedere esplicitamente di mettere in quarantena i figli o i mariti, il responsabile della task force sul contact tracing si è permesso di fare dichiarazioni a mezzo stampa sul tracciamento dei contagi, con tanto di idee politiche, lavoro e decisioni sanitarie dei contagiati, creando una narrazione ad hoc che potesse fare da sponda per impedire nuove manifestazioni.

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Il corteo passa inoltre per il rione che aveva visto gli scontri delle giornate al porto, ricordando agli abitanti ciò che avevano visto e vissuto (lacrimogeni nei bar e nelle scuole, idranti sulle case) e la solidarietà che avevano portato. Nel corteo l’ambiente è sereno, non si vedono più i fascisti dei primi cortei e veniamo sorpresi da tre interventi, di persone venute da fuori, per annusare l’aria di trieste. Un torinese, che collega la lotta in Valsusa con quella in questa città, finendo con un “A sarà düra!”; un siciliano No Muos, collegandosi alla lotta alle antenne militari ed una sarda, ricollegandosi alle nocività che inquinano acqua e terra in Sardegna attraverso le basi militari. 

Valutazioni e prospettive 

Nei frangenti più caldi di questo ciclo di mobilitazione abbiamo visto emergere frammenti di classe fermamente contrari al green pass, ma anche solidali con i propri colleghi non vaccinati. L’assenza più vistosa è stata tuttavia quella dei sindacati, anche più conflittuali, che hanno lasciato il campo libero a organizzazioni ambigue come la FISI (con forti infiltrazioni neofasciste), il cui sciopero intercategoriale (proclamato dal 15 al 20 ottobre, poi dal 21 al 30, adesso dal primo al 15 novembre) è sotto procedimento disciplinare da parte del comitato di garanzia (e coloro che si sono affidati a questo sindacato fantoccio, cosa dovrebbero fare ora?). La FISI è stata l’unica organizzazione ad offrire una copertura sindacale alla mobilitazioni contro l’estensione del lasciapassare a partire dal 15 ottobre. La messa a disposizione di strumenti sindacali come l’assemblea, lo sciopero e altre pratiche avrebbe probabilmente consentito lo sviluppo anche maggiore di una mobilitazione sui luoghi di lavoro. Un caso va segnalato: nella locale azienda Flex, in virtù di un delegato piuttosto aperto, è stata la RSU Fiom a indire uno sciopero aziendale nella giornata del 15 ottobre, che ha permesso poi ai lavoratori/trici di raggiungere il presidio al porto. È un’indicazione possibile, in una prospettiva generale che ormai esula dalle organizzazioni sindacali classiche. Quello a cui assistiamo è infatti l’auto-organizzazione dei lavoratori con mezzi di fortuna (incontri tra colleghi nei parcheggi, chat, chiamate…) e soprattutto il formidabile strumento dell’esibizione del green pass: fino al 31 dicembre, infatti, è lo stesso decreto ad offrire la possibilità di non esibire il green pass ed essere dunque segnati in assenza ingiustificata, senza tuttavia incorrere in sanzioni. È una possibilità, offerta dalla stessa legge, di scioperare senza dover sottostare alle rigide maglie della regolamentazione sugli scioperi, anche in chiave solidale. 

Il problema è capire come riconnettere e generalizzare la lotta di questi settori lavorativi. Un primo abbozzo in questa direzione è stata il tentativo del Coordinamento No Green Pass di promuovere assemblee di lavoratori e lavoratici per categoria lavorativa. I ragionamenti sono stati molteplici, ma hanno iniziato a porre sul piatto delle mobilitazioni questioni come la costituzione di comitati autonomi, l’arma dello sciopero, il coinvolgimento di altri colleghi finora non toccati dalle mobilitazioni, l’uso politico delle non presentazione del green pass, iniziative di sensibilizzazione. È un fenomeno che da una parte ci restituisce la poca dimestichezza con questi strumenti da parte dei lavoratori e delle lavoratrici, ma dall’altra mostra anche la strada di un rinnovato protagonismo della classe lavoratrice. Chi si interroga su perché questo processo di mobilitazione dei lavoratori e delle lavoratrici avvenga solo ora (dopo aver lasciato passare jobs act, aumento dell’età pensionabile, sblocco dei licenziamenti), probabilmente deve ricercare la risposta nell’estesa attivazione sociale che si è verificata con l’introduzione del green pass dopo un anno e mezzo di gestione pandemica calata dall’alto. Non è il contesto perfetto tanto atteso dalle sinistre, ma è la mobilitazioni reale che si è data nell’accumulo di tensioni sociali degli ultimi anni: è questo il dato non aggirabile di questa ondata di mobilitazioni, che non può essere deciso o modificato a tavolino. 

Un altro elemento che andrebbe affrontato è quello dei settori sociali che rappresentano la base popolare di questa mobilitazione. A Trieste – proprio quando si alzava la canea mediatica di istituzioni e commercianti che invocavano un ritorno alla normalità e la fine delle proteste – ci siamo accorti che quasi inconsapevolmente le mobilitazioni si stavano dislocando. Dopo il presidio al porto, infatti, i due cortei che si sono mossi in città hanno toccato principalmente i quartieri

popolari e industriali della periferia. Domio, Valmaura, Campi Elisi: là dentro, i cortei hanno trovato una risposta di grande solidarietà da parte della popolazione. Commercianti solidali, abitanti dei caseggiati popolari che partecipavano alla proteste dai loro balconi, baretti rionali che diventavano i centri sociali della mobilitazione. Quello che avviene è tutt’altro che interclassista, come amano ripetere dai salotti buoni, e c’è una differenza abissale tra il piccolo commerciante rionale e il grosso proprietario di locali nel centro storico. Questa lotta che avevamo definito popolare (in senso trasversale) assume sempre più su di sé la valenza di lotta delle classi popolari, prima contro il green pass poi – per estensione – contro il governo. 

Risulterebbe comunque frettoloso e non corretto leggere questa mobilitazione come una pura espressione sociale in opposizione al green pass. Gli elementi complottisti o marcatamente novax sono una componente che non va sottovalutata o abbellita. Esiste ed è parte in causa in questo processo. Tuttavia, nelle sue varianti più leggere (quelle che non arrivano a contemplare “la bontà” di Putin e Trump), è una delle poche componenti che, anche a partire da premesse false, è stata per lungo tempo in grado di mettere in discussione le politiche governative. Indagare questo immaginario, questa cultura che si è diffusa per lungo tempo tramite chat, web tv, siti di controinformazione, ci potrebbe permettere di far emergere alcuni noccioli di grande interesse. 

Esserci, stringere vincoli di fiducia e dibattere fuori da quei canali di contro-informazione, spesso intrisi di sovranismo o cospirazionismo, permette di trovare punti in comune e contribuisce a cambiare i presupposti del discorso ed i termini dell’analisi. Che si chiami “Stato di emergenza” invece di “grande complotto”, che si chiami “Capitalismo della sorveglianza” invece che “controllo di massa”, che si chiami “Piano nazionale di ripresa e resilienza” invece di “grande reset”, che si chiami “nocività del capitalismo” invece di “avvelenamento”, che si chiami “geopolitica” invece di “cospirazione mondiale” dipende da chi vuole esserci, dibattere e contribuire. In ogni caso, le conseguenze sul “cosa facciamo e come ci organizziamo” risultano spesso trovare enormi spazi di intersezione; “verso quale mondo vogliamo andare”, invece, dipende dalle analisi e dalle pratiche che si mettono in campo strada facendo. 

NOTE 

[1] https://ilrovescio.info/2021/10/14/un-prospettiva-sulle-mobilitazioni-contro-il-green-pass-a trieste/  

https://www.infoaut.org/precariato-sociale/una-prospettiva-sulle-mobilitazioni-contro-il-green-pass a-trieste 

[2] https://nogreenpasstrieste.org/2021/10/16/la-protesta-continua/ 

[3] https://www.triesteprima.it/cronaca/no-green-pass-coisp-preoccupazione.html [4] https://nogreenpasstrieste.org/2021/10/22/comunicato-22-ottobre/

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