Askatasuna, No Tav e le nuove frontiere della repressione
Riprendiamo questo articolo di Luigi Ferrajoli pubblicato su Volere La Luna e apparso contestualmente sul Manifesto con il titolo Lo stato odierno, in Italia, della libertà di dissenso.
Ha senso supporre che un gruppo di 16 persone, accomunato da anni di battaglie di protesta nel movimento No Tav e, a Torino, nel centro sociale Askatasuna, decida di dar vita a una specifica associazione finalizzata a compiere atti di violenza e resistenza a pubblici ufficiali? È questa l’accusa singolare ad esse rivolta dalla Procura di Torino, ovviamente in aggiunta alle imputazioni di violenza e resistenza ai medesimi pubblici ufficiali. Sarebbe accaduto, secondo la pubblica accusa, che queste persone, “in Torino e altrove dal 2009” in poi, si sarebbero associate “allo scopo” non già di esprimere le loro proteste, bensì di opporre resistenza ai pubblici ufficiali che quelle espressioni di dissenso avessero ostacolato. Di qui l’ulteriore imputazione, contro la logica e il buon senso, di associazione a delinquere.
A queste accuse l’Avvocatura di Stato, costituitasi in giudizio per conto della Presidenza del Consiglio dei ministri, del Ministero dell’interno e del Ministero della difesa, ha aggiunto una spaventosa richiesta di risarcimento dei danni, quantificandoli in svariati milioni di euro: 3.595.047 euro a titolo di danno patrimoniale in favore del Ministero dell’interno per il “costo dell’attività investigativa svolta ai fini dell’individuazione dei responsabili degli illeciti, nonché con riferimento alla spesa sostenuta a titolo di straordinari, indennità accessorie ed indennità di ordine pubblico corrisposte al personale impiegato per contenere e limitare i manifestanti e i danni”; altri 3.208.230 euro a titolo di danno non patrimoniale, in favore del Ministero dell’interno, del Ministero della difesa e della Presidenza del consiglio per il danno alla loro “immagine” e precisamente al loro “prestigio” e alla loro “credibilità”.
È lecito domandarsi, di fronte a una simile furia persecutoria, quale altro senso, se non la volontà di infierire sugli imputati, abbia l’aggiunta, alle accuse di violenza e resistenza a pubblici ufficiali, di queste ulteriori richieste del Pubblico ministero e dell’Avvocatura dello Stato. L’associazione a delinquere “finalizzata” a commettere la resistenza è semplicemente un non senso. Il danno patrimoniale consistente nel costo delle indagini è un’assoluta novità, dato che dovrebbe ravvisarsi in qualunque reato. Quanto al danno d’immagine alla Pubblica amministrazione lamentato dall’Avvocatura, non si capisce in che cosa consista. Semmai un danno d’immagine proviene proprio da questa abnorme richiesta risarcitoria.
Purtroppo questa vicenda ci dice che la libertà di riunione in Italia non ha mai conosciuto, in ottanta anni dalla Liberazione, un momento altrettanto buio. È precisamente contro le manifestazioni pubbliche del dissenso che questo Governo si è maggiormente accanito con il disegno di legge S.1236, cosiddetto “di sicurezza”, già approvato dalla Camera e in discussione al Senato: dal blocco stradale punito, se commesso da più persone, con la reclusione da sei mesi a due anni, all’aggravante dei reati di violenza e resistenza se commessi “al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica”, come per esempio il Tav in Val di Susa o il ponte sullo Stretto; dalle norme sulle rivolte negli istituti penitenziari o nei centri di detenzione dei migranti, che qualificano come “atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva”, fino all’aumento delle pene per i reati di resistenza o lesioni in danno di agenti di polizia nell’esercizio delle loro funzioni.
È triste che taluni magistrati partecipino, con successo, a questa gara con il Governo nell’aggressione alle libertà fondamentali. I magistrati, quando procedono per violenza o resistenza nel corso di pubbliche manifestazioni, non dovrebbero mai dimenticare che questi reati sono stati commessi simultaneamente all’esercizio dei diritti di libertà garantiti dalla Costituzione. Queste manifestazioni di piazza, infatti, consistono nell’esercizio non solo della libertà di riunione ma anche della libertà di manifestazione del pensiero. Giacché la riunione e la pubblica manifestazione sono il solo medium di cui dispongono i comuni cittadini – che non pubblicano libri, non vanno in televisione e non scrivono sui giornali – per esprimere il loro pensiero e il loro dissenso. Sta invece accadendo un fenomeno di gravissima irresponsabilità civile e politica. Giornalisti e perfino esponenti delle istituzioni hanno associato queste manifestazioni di protesta all’eversione e al terrorismo. Hanno confuso le lotte sociali con la lotta armata, l’impegno collettivo e le battaglie civili in difesa dei più deboli con la sovversione, la cittadinanza attiva con la violenza arbitraria. Stanno costruendo nemici, identificandoli con i dissenzienti. Come avviene in tutti i regimi autoritari.
È un capovolgimento della realtà. Contro il quale non dobbiamo stancarci di ripetere che le formazioni sociali e le manifestazioni del dissenso devono sempre essere considerate un valore, soprattutto da parte di chi, magistrato o poliziotto, è chiamato ad applicare il diritto e a difendere i diritti dei cittadini costituzionalmente stabiliti. Per questo la contestazione dei reati di violenza e resistenza commessi in occasione di manifestazioni di piazza dovrebbe sempre essere accompagnata da una specifica circostanza attenuante – l’aver agito, dice il codice penale, per un motivo “di particolare valore morale” quale è appunto la manifestazione del dissenso – e dalla valutazione della sua prevalenza sulle circostanze aggravanti. Almeno se ancora si ritiene che i principi costituzionali abbiano maggior valore del codice fascista Rocco.
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