Gli HotSpots made in UE, zone franche del diritto?
In questo documento made in UE si può trovare la logica del provvedimento adottato:
“Il sostegno operativo fornito con il metodo basato sui Hotspots si concentrerà su registrazione, identificazione e rilevamento delle impronte digitali e debriefing dei richiedenti asilo, e sulle operazioni di rimpatrio. Le richieste di asilo trattate più velocemente possibile con l’aiuto delle squadre di supporto dell’EASO. Frontex aiuterà gli Stati membri coordinando il rimpatrio dei migranti irregolari che non necessitano di protezione internazionale.
Nonostante il nulla di fatto finora, alcune dimensioni riguardanti questi HotSpots vengono a galla in questi giorni: all’insegna di una sostanziale negazione dello stato di diritto, i centri saranno di fatto – anche sfruttando l’emergenza terrorismo post 13 novembre parigino – destinati ad un controllo capillare dei migranti in sostanziali zone franche di frontiera.
Al momento è stato inaugurato solo l’hotspot greco di Lesvos, che come vedete dalla foto ha poco dell’accoglienza e molto della prigione, mentre tra le ipotesi messe sul tavolo da parte del governo italiano ci sono l’estensione della durata del trattenimento per l’identificazione dalle attuali 12-24 ore fino a 7 giorni; la previsione del rilevamento forzoso delle impronte digitali; la previsione del trattenimento fino a 30 giorni del migrante che rifiuti di sottoporsi al rilevamento.
I migranti negli hotspots potranno così non solo essere sottoposti ad identificazione coatta, ma rischieranno l’allontanamento in caso di rifiuto di sottoporsi a qualunque cosa venga chiesta loro dalle autorità, anche se in contrasto con le disposizioni minime sui diritti umani. Ma del resto, è bastata l’attribuzione di un passaporto siriano – poi dimostratosi falso – ad uno degli attentatori parigini per poter riproporre a gran voce, tramite i media, l’opzione reazionaria della chiusura e del controllo delle frontiere e soprattutto delle espulsioni di massa.
Qualunque migrante non appartenente alla categoria del “rifugiato politico” rischierà infatti il rimpatrio immediato, in un’implementazione de facto della distinzione tra migrante economico e migrante politico tutta ad uso e consumo degli interessi degli stati riceventi, che selezioneranno in base alle esigenze delle proprie economie.
Il tutto è giustificato dalla necessità di “nuovi controlli” per respingere la minaccia terroristica che così viene immediatamente identificata e sovrapposta a quella migratoria, in un ulteriore momento di utilizzo della tragedia parigina per giustificare la denigrazione del movimento migrante e l’imposizione di nuove forme di controllo sociale all’interno dei singoli paesi.
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