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Per Martina e per tutte le ragazze uccise dalla violenza patriarcale.

Riceviamo e pubblichiamo da Collettivo Universitario Autonomo e Kollettivo Studentesco Autorganizzato (Torino).

Contro la violenza patriarcale sempre più diffusa tra i giovani.

Martina era scomparsa da lunedì 26 e l’ultima persona che aveva visto era il suo ex ragazzo. L’abbiamo aspettata e abbiamo sperato ma in fondo lo sapevamo. Ce l’aspettavamo. La notte tra il 27 e il 28 maggio il corpo di Martina, 14 anni, è stato ritrovato abbandonato in uno stabilimento ad Afragola. Non è una “tragedia” ma l’ennesimo caso di femminicidio. Martina aveva lasciato il suo ragazzo che ha rifiutato tale scelta, voleva tornarci assieme e ha deciso volontariamente di non ascoltarla. Di avere l’ultima parola. Ha percepito la sua volontà come più importante di quella di Martina.

Assistiamo ad un progressivo ed impressionante abbassamento dell’età di chi compie femminicidi. Responsabile è il continuo rafforzamento della cultura patriarcale che trova sempre più spazio di estremizzazione e diffusione sui social media, raggiungendo persone sempre più piccole.

Dinamiche di genere si perpetuano nel tempo, sempre uguali, e ci vengono raccontate dai media come casi singoli e peculiari, demonizzando l’assassino o forzando una identificazione causa-effetto tra immigrazione e i casi di violenza, da un lato per giustificare politiche di segregazione e repressione razzista, dall’altro per sviare l’attenzione pubblica dalla causa sistemica della violenza di genere: il dominio patriarcale.

Questo è evidente non solo nei giornali ma anche, ad esempio, nell’appena conclusosi Salone del Libro dove nello stand della Regione Piemonte, con l’appoggio dell’assessore Marrone, il gruppo di estrema destra francese Némésis, proclamatosi “femminista”, è stato invitato a parlare delle violenze sulle donne come un fenomeno causato dall’immigrazione, legittimando una narrazione altamente razzista e propagandistica: «Perché dobbiamo importare con l’immigrazione una violenza di paesi ultrapatriarcali?», «Francesi e italiani non sono patriarcali, noi abbiamo codici e una cultura giusti», «Le Pen e Meloni sono femministe perché provano a difendere la sicurezza nazionale contro le derive patriarcali africane».

Forse bisognerebbe ricordare come la violenza patriarcale sia stata un’arma non solo per assoggettare i popoli durante il colonialismo, ma anche per spazzare via intere culture non in linea con l’idea di “pudore” cattolico e occidentale. Con queste premesse, ci sembra fuorviante rappresentare gli Stati europei come custodi della libertà delle donne. Sarebbe più corretto identificarli come custodi della libertà delle donne a patto che siano bianche e che la violenza non sia portata avanti da un uomo bianco (in quelcaso la narrazione si ribalta improvvisamente a favore di chi agisce violenza). Inoltre, la narrazione che riguarda in generale i crimini commessi da persone immigrate ha come effetto quello di percepire questi ultimi come pericolosi e di legittimare ogni tipo di violenza, come arresti, detenzioni amministrative e, come si sta normalizzando sempre più, uccisioni.

L’intento di rendere il caso isolato e tenere, come sempre, la questione su un piano superficiale e moralistico evitando in tutti modi un’analisi approfondita materiale e strutturale della problematica e delle sue radici non ci sorprende affatto.

C’è poco da aspettarsi in termini di risposta alla violenza da parte di istituzioni statali e governative che legittimano una società basata sullo sfruttamento, la violenza e la sopraffazione sulle linee della discriminazione di genere, di razza, di classe.

Il ministro Nordio ha dichiarato, riferendosi alla poca efficienza del braccialetto elettronico, come tale dispositivo «dà un’allerta alla vittima» e che «le donne devono rifugiarsi in luoghi sicuri» o «trovare delle forme di autodifesa, magari rifugiandosi in una chiesa o in una farmacia». I luoghi sicuri non esistono, o meglio, non esistono nel modo in cui li concepiscono tali istituzioni. La dichiarazione di Nordio non solo evidenzia come le istituzioni e i ministri vogliano sciacquarsi le mani dalla questione femminicidi che ora più che mai è all’ordine del giorno, ma preoccupa perchè alimenta l’idea che la donna debba solo e unicamente cavarsela da sola e non debba aspettarsi nulla dalle istituzioni. Beh, questo ci era chiaro dal momento che alimentano culture del possesso, dello stupro, e normalizzano la violenza di genere portando giovanissimi ad assorbirla durante il percorso scolastico prima e ad agirla poi.

Un esempio è il ministro dell’istruzione e del merito Valditara secondo il quale il patriarcato «è finito nel 1975» con la Riforma del diritto di famiglia e la sostituzione della famiglia fondata sulla gerarchia con quella sull’eguaglianza.

Piacerebbe molto anche a noi che fosse così semplice, ma è ovvio (evidentemente non per tutti) che la nostra è tuttora una società patriarcale basata su un forte sessissimo istituzionalizzato e interiorizzato, e che per mutarla non è bastata e non basterà una riforma di legge. Il cambiamento infatti, deve partire dalla formazione, dove va portata sin dalla primaria un’educazione sessuale, all’affettività e al consenso, che sradichi il maschilismo interiorizzato, debilitando quel senso di vergogna che rende qualunque cosa legata alla sessualità e alle relazioni un tabù, oppure un feticcio, per tacitare intenzionalmente le discussioni a riguardo. Non è realistico affidarsi unicamente alle famiglie a cui, a detta di Valditara, spetterebbe «il diritto e il dovere di formare i propri figli», poiché non tutte aventi gli stessi strumenti, risorse e possibilità.

Per far sì che ciò accada, oltre alle buone intenzioni, che non sono comunque scontate, servono ovviamente i fondi, stranamente sempre carenti… eppure quando l’Europa aveva stanziato mezzo milione per un piano di educazione sessuale scolastico non si era esitati a dirottarlo subito a quello “per l’incentivazione alla fertilità”: è ben più proficuo riprodurre forza lavoro piuttosto che preoccuparsi concretamente del benessere di essa.

Cosa fare allora?

Sono anni che, alla notizia del femminicidio più brutale o più mediatizzato, centinaia di migliaia di donne e soggettività riempiono le piazze di tutta l’Italia spinte dalla rabbia derivante dal riconoscersi come un soggetto collettivo che è stufo di accettare a testa bassa il trattamento che questo sistema gli riserva. Il problema è che l’unica autodifesa possibile è organizzarsi, darsi prospettiva e continuità. Ci sembra di poter leggere le possibilità per costruire collettivamente una prospettiva che vada verso l’uscita dalla debolezza introiettata di cui la violenza maschile si serve per tenerci a bada. Per diventare indomabili e praticare insieme l’indicazione dei movimenti transfemministi “se ci fermiamo noi si ferma il mondo”. Tutte coloro che sono nel bersaglio della discriminazione di genere sono la colonna portante della riproduzione della società, usiamo questo potere per creare le basi per una fuoriuscita reale e concreta dalla violenza.

Tutte coloro che sono nel bersaglio della discriminazione di genere sono la colonna portante della riproduzione della società, usiamo questo potere per creare le basi per una fuoriuscita reale e concreta dalla violenza.

Le lacrime non bastano più, crediamo nella trasformazione possibile perché siamo noi stesse ad incarnarla.

Per Martina, per ogni sorella uccisa

Che bruci la paura!

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pubblicato il in Intersezionalitàdi redazioneTag correlati:

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