I lavoratori tech si organizzano, ma cosa vogliono?
Negli ultimi anni, politici e imprenditori hanno più volte affermato che, per realizzare la digitalizzazione delle imprese auspicata dal Governo e dall’Unione europea, ci sarà bisogno di molte più persone di quelle che sono attualmente formate per lavorare nel cosiddetto settore ICT. Molto più raramente, però, ci si sofferma ad analizzare le rivendicazioni e le critiche di chi nel settore, in Italia, lavora già.
di Viola Stefanello da Guerre di Rete
Immagine in evidenza: Google Walkout nel 2018
Secondo i dati ISTAT, in Italia le persone che lavoravano nel settore delle tecnologie dell’informazione e comunicazione nel 2021 erano poco più di 662 mila, ma il numero cambia considerevolmente a seconda dei ruoli che si fanno rientrare o meno nella categoria di “tech worker”.
In Italia, storicamente quasi tutti i sindacati riuniscono diversi tech worker, ma non si dedicano specificatamente alle rivendicazioni nel settore tecnologico.
Negli ultimi anni a livello internazionale è emerso un nuovo soggetto, la Tech Workers Coalition, un gruppo che si batte per i diritti dei lavoratori dell’industria tecnologica e che include nella propria definizione i tecnici veri e propri, ovvero chi crea, aggiorna e mantiene direttamente il software e l’infrastruttura, ma anche i data worker che etichettano, puliscono o analizzano i dati, gli operatori logistici che lavorano per le aziende tecnologiche, i creativi che lavorano nel web design, come social media manager o nel settore dei videogiochi, e chiunque svolga il proprio lavoro attraverso una piattaforma digitale – come i rider – o come supporto alle altre categorie, incluso il personale delle pulizie o della mensa di queste aziende.
L’inclusione di quest’ultima categoria di lavoratori, normalmente esclusi quando si pensa a chi è impiegato nel settore, è centrale nella storia di Tech Workers Coalition, perché permette di superare divisioni tradizionali e amplificare l’impatto delle campagne. La coalizione è nata informalmente nel 2014 nella Silicon Valley dagli sforzi di Rachel Melendes, un’impiegata della cafeteria aziendale divenuta sindacalista, e di Matt Schaefer, ingegnere.
Dal 2014 ad oggi, il movimento si è allargato moltissimo, soprattutto negli Stati Uniti: nel 2020 anche il sindacato Communication Workers of America ha lanciato una campagna di sindacalizzazione dei lavoratori tech, ispirando la fondazione di una sezione interna ad Alphabet che da sola conta oltre 700 membri. I temi su cui si sono mobilitati negli ultimi anni vanno dal miglioramento delle condizioni contrattuali alla lotta ad abusi, molestie sessuali, ritorsioni e discriminazioni, ma anche l’atteggiamento permissivo delle piattaforme nei confronti dell’incitamento all’odio, la disinformazione e la collaborazione con le forze dell’ordine.
Col tempo questo movimento, fortemente americano nella sua origine, ha dato vita a sezioni locali anche in Europa, in particolare a Londra, Dublino, Berlino e in Italia. Il chapter italiano – Tech Workers Coalition Italia – porta avanti rivendicazioni specifiche legate alle caratteristiche del mercato del lavoro italiano. Guerre di Rete le ha passate in rassegna sentendo uno dei suoi coordinatori nazionali.
Il body rental
Se le questioni legate al lavoro per piattaforme come Glovo, Deliveroo o Amazon anche in Italia sono ben note e discusse regolarmente nella stampa sia nazionale che internazionale (abbiamo scritto di rider e algoritmi in uno degli articoli di lancio del nostro sito), chi lavora come programmatore è generalmente visto come un privilegiato, e inserito in un settore in cui sarebbe molto più facile trovare lavoro a salari mediamente più alti rispetto al mediocre standard italiano.
Ciò non significa che non siano presenti storture strutturali che rendono la vita di molti tech worker più difficile. A partire dal body rental. In base a questa pratica, endemica nel settore ICT italiano ma difficile da misurare – denuncia la Tech Workers Coalition Italia – il lavoratore viene assunto da un’azienda che svolge un ruolo di intermediazione comparabile a quello di un’agenzia interinale non a norma di legge, “prestando” il lavoratore ad aziende committenti per dei progetti specifici a breve termine.
Così, il lavoratore si trova in una situazione di precarietà in cui è esposto costantemente non solo alla possibilità di licenziamento, ma anche a ritmi di lavoro insostenibili, che accelerano lo stress e il burnout e fanno sì che nessuno si senta responsabile della formazione e del benessere del lavoratore. “Quando finisci il progetto non vedi più le persone con cui avevi lavorato fino al giorno prima, e questo crea delle grosse difficoltà a organizzarsi con i colleghi per ottenere condizioni lavorative migliori, anche solo in maniera informale”, commenta a Guerre di Rete Simone Robutti, che coordina la sezione italiana di Tech Workers Coalition.
Le agenzie che praticano il body rental sfruttano gli informatici più giovani e inesperti, reclutandoli quando sono ancora all’università oppure contattandoli direttamente su LinkedIn. Con conseguenze tangibili: a livello sistemico, si ritiene che questo sistema squisitamente italiano influisca negativamente sulla qualità del software che viene prodotto, anche all’interno di progetti su cui sono stati fatti grossi investimenti. “Se ci lavori soltanto per pochi mesi, non sviluppi mai una competenza specifica e avanzata su un determinato linguaggio o sistema. E questo è un problema per il lavoratore, ma anche per il Paese”, sostiene Robutti.
Un settore stretto tra piccole aziende e grande consulenza
I datori di lavoro si dividono in un nugolo di piccole e medie aziende da una parte, e dalla grande consulenza soprattutto estera, che si occupa dei sistemi informatici di clienti quali banche, assicurazioni, grande industria e pubblica amministrazione dall’altra. “Le briciole della torta se le spartiscono le piccole aziende di prodotto e le startup tecnologiche, che però negli ultimi anni sono in crescita”, riassume Robutti.
Proprio il mondo della grande consulenza viene accusato dalla Tech Workers Coalition Italia di assorbire competenze, bandi e appalti. Le principali società di consulenza attive nel settore dell’informatica in Italia sono Accenture, Capgemini, IBM e KPMG. Chi ci lavora, normalmente, fornisce consigli e competenze alle imprese per aiutarle a raggiungere specifici obiettivi aziendali, anche progettando, implementando e amministrando software o sistemi informatici o di telecomunicazione.
Poco aggiornamento e lavoro da remoto
Una delle critiche principali, per quanto riguarda i lavoratori, è la mancanza di tempo e di risorse per formarsi e fare il salto verso una maggiore specializzazione. Gli effetti collaterali sarebbero scarse possibilità di aggiornamento, salari più bassi dei colleghi regolarmente assunti, assegnazione di mansioni ripetitive e che impediscono lo sviluppo di una professionalità a tutto tondo, precarietà e pessime condizioni di salute mentale.
A livello individuale, Tech Workers Coalition Italia segnala che ci sono diversi temi che preoccupano particolarmente i lavoratori del settore italiano. Dopo la pandemia, la difficoltà a ottenere il diritto al lavoro da remoto è al primo posto: “Si tratta sicuramente del tema che più scalda gli animi, anche se magari non è quello che porta il maggior numero di problemi materiali o che fa i danni più grossi. Sicuramente raccoglie consensi molto trasversali”, afferma Robutti.
Chi ne vuole usufruire si sta mobilitando attivamente: nel 2020, ad esempio, è nata Smart Workers Union, “il primo sindacato “smart” in Italia, senza sedi fisiche”, il cui principale scopo è “favorire e diffondere la cultura del lavoro digitale, remotizzabile e tramite piattaforme telematiche e la tutela ed assistenza di tutti i lavoratori che svolgono la loro prestazione lavorativa con queste modalità”. Le persone a cui si rivolge non sono solo tech worker: il gruppo vuole includere tutte le categorie di lavoro privato e pubblico che possano voler raggiungere accordi con i datori di lavoro per passare ad un regime lavorativo di “smart working”. Tra i motivi a favore del lavoro remotizzabile, annoverano non solo la maggiore flessibilità del lavoratore ma anche il minore impatto ambientale e una diminuzione delle ore spese nel traffico: “una società dove il lavoratore migliora la qualità della propria vita e acquista un’autonomia organizzativa del lavoro che può svolgere ovunque”.
Orari eccessivi e poco spazio alle figure specialistiche
Oltre al lavoro da remoto, Robutti dice che i temi più ricorrenti sono orari di lavoro eccessivi, straordinari non pagati e un’ingerenza del lavoro nella vita privata. Molti criticano la cultura manageriale italiana, in cui imperversa il micromanagement, ovvero la tendenza ad osservare da vicino e controllare strettamente il lavoro dei propri subordinati, fornendo loro feedback costanti e lasciando poco spazio alla flessibilità nell’approcciarsi a un progetto, anche quando il manager conosce poco la tecnologia. Al contrario di molti altri Paesi, dove è possibile per le figure tecniche fare lunghe carriere in cui si viene premiati per il grado di specializzazione, in Italia si tende a puntare su chi vuole diventare manager, lasciando stagnare i salari e la formazione degli altri.
Vita da freelance
Per cercare di liberarsi dal micromanagement e dall’erosione delle commesse – e, più raramente, per cercare di ottenere clienti esteri disposti a pagare di più, per progetti più interessanti – alcuni decidono di mettersi in proprio, finendo principalmente a sviluppare i siti web di piccole e medie imprese che vogliono fare e-commerce. Chi lo fa spesso si ritrova comunque a lavorare molte ore al giorno e a rincorrere i clienti per assicurarsi che paghino le fatture. Inoltre, i freelance in generale non godono di molti benefit che vengono invece assicurati ai lavoratori dipendenti, come i giorni di vacanza previsti da contratto o le assenze pagate per malattia. E lavorare per l’estero, a meno di essere specializzati su linguaggi o settori particolarmente richiesti o di nicchia, si rivela essere più complesso del previsto, dato che nella stessa fascia oraria ci sono anche i Paesi dell’Est Europa, i cui tech worker tendono a parlare meglio inglese e a chiedere meno soldi.
Startup e cooperative
Cosa rimane, allora, come opzione per chi vuole lavorare nel settore ma vuole proteggere la propria salute mentale e il proprio tempo libero? “Alcune startup offrono condizioni di lavoro buone, perché fanno crescere i dipendenti e hanno necessità di competenze rare, ma a volte offrono dei benefit proprio per tenerti in ufficio il più a lungo possibile”, sintetizza Robutti.
Un modello a cui Tech Workers Coalition guarda piuttosto con favore è quello delle cooperative: “Sono gruppi di lavoro autonomo in cui vieni assunto come dipendente ma ti procuri da solo i progetti, magari condividendoli con i colleghi. Viene trattenuta una percentuale per coprire i costi burocratici, ma in generale vieni pagato per ciò che produci, senza l’intermediazione di un manager. Sono aziende che seguono un modello molto più democratico, sia per quanto riguarda la suddivisione del lavoro che per il processo decisionale”. In Italia ci sono esempi come Hypernova a Verona, Indici Opponibili a Bologna e Diciannove a Genova, ma nel mondo ne esistono a decine.
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