25 aprile: c’è ancora tanto da fare!
E’ uno stanco anniversario quello che ci apprestiamo a commemorare questo 25 aprile, una data oggi poco più che simbolica per una buona parte della popolazione italiana e mai come in questi ultimi anni strumentalizzata, abusata e, allo stesso tempo, svilita da una classe politica troppo inetta per poterne raccogliere l’eredità e infastidita ma succube dell’alto valore immaginativo e culturale che questa ricorrenza è ancora in grado di suscitare. Una classe politica che, al netto delle strumentalizzazioni e delle belle parole, preferirebbe che quel 25 aprile di settant’anni fa venisse relegato nello sgabuzzino delle celebrazioni di rito per potersi liberare – una volta per tutte – di una parentesi di storia che ancora oggi è in grado di provocare dibattito e di scoprire i nervi più sensibili e contraddittori della società in cui viviamo.
Questo perché parlare di Resistenza oggi significa innanzitutto parlare di antifascismo (sebbene, tanto per fare un esempio, la parola non venga pronunciata nemmeno una volta negli accorati appelli del presidente Mattarella che invitano ad “unirsi nel nome della Costituzione”) e parlare di antifascismo significa in primo luogo riportare una pratica politica, culturale e sociale viva ed estremamente contingente con l’attualità.
Uno degli errori più difficilmente riparabili commessi negli ultimi 30 anni da coloro che si arrogano la libertà di straparlare anno dopo anno di Resistenza e lotta di liberazione è stato infatti quello relativo allo sdoganamento di riletture più o meno “revisioniste”. Il danno più grave però non riguarda i rituali sfoghi degli storici (o presunti tali) “à la Pansa” che della Resistenza rileggono esclusivamente la parentesi di “guerra civile” con lo scopo di equiparare in maniera forzosa (e il più delle volte a-storica e non verificabile) i morti repubblichini con i partigiani, ma ci viene soprattutto da quell’opinione pubblica “sinceramente democratica” pronta a lanciare proclami “partigiani” in nome dell’Assemblea Costituente salvo poi dimenticarsi dei resistenti e delle resistenti di oggi.
Commemorare la Resistenza, infatti, significa raccogliere l’esempio di tutti coloro che hanno lottato, e lottano tuttora, per costruire un avvenire migliore mettendo in pratica azioni di lotta nella quotidianità e costruendo percorsi di autonomia che impongano una rottura radicale dell’esistente. I mesi che ci stiamo lasciando alle spalle ci parlano della forte necessità di proporre e mettere in atto pratiche che siano antifasciste nel senso più ampio possibile del termine, e che sopratutto affondino le radici nelle contraddizioni più vive della società così da essere sviluppate in senso concretamente antagonista.
Questo inizio 2015 porta con sé un messaggio inequivocabile: a parlare sono i fatti, e i fatti si costruiscono con le pratiche di lotta. Ce lo dimostra la grande giornata antifascista del 24 gennaio a Cremona, che rimette sul tavolo la necessità quantomai attuale di riportare l’ago della bilancia verso un conflitto sociale che si rappresenti come tale e che nella realizzazione di obiettivi espliciti trovi la concretizzazione di una prassi troppo spesso delegata a rituali stanchi e incomprensibili ai più. Il portato di quella giornata – alla quale il teatrino della politica ha saputo rispondere con il solito schema del biasimo e della condanna unito ad una repentina risposta repressiva (alla faccia del 25 aprile e dei valori dell’antifascismo!) – è tanto più efficace se lo si legge in continuità con le risposte determinate e collettive che diverse esperienze territoriali hanno espresso in opposizione alla propaganda della Lega Nord di Matteo Salvini.
E’ ancora troppo presto per parlare di una reale spinta ricompositiva che ponga in maniera definitiva le pratiche dell’antifascismo al centro del dibattito nazionale, ma è anche vero che troppo spesso ci si è lasciati cullare nella supposta presunzione che l’opposizione ai vari rigurgiti razzisti e neofascisti del nostro paese dovesse essere delegata ad un’enclave di “addetti ai lavori”. Viviamo una fase in cui il tentativo di ristrutturazione – economica, politica e sociale – rischia di spingere i movimenti sociali in una sterile difesa degli anfratti in cui essi tendono a ripararsi, ma oggi è più che mai necessario ripensarne l’agire in funzione di attacco e rivendicazione.
Nel deserto (quasi) totale nel quale andranno a svolgersi le celebrazioni del settantesimo della Liberazione resta soltanto lo spazio per le polemiche gratuite e le strumentalizzazioni dei soliti noti provocatori. Agli insulti gratuiti cui ci hanno abituato i sempreverdi rimasugli di chi si proclama erede del ventennio mussoliniano, si è aggiunta quest’anno la velleità della Brigata ebraica – nota per gli episodi di intolleranza e squadrismo degli scorsi anni – di non volere permettere alle organizzazioni filopalestinesi di sfilare al tradizionale corteo del 25 aprile romano. Ad una timida risposta dell’Anpi nazionale, che ha chiesto alle delegazioni straniere di tenere lontane le proprie bandiere dai simboli della Liberazione (che il monito fosse dovuto alla presenza di bandiere israeliane piuttosto che a quelle palestinesi non è esplicitato, ennesima mancata occasione di esprimersi in senso netto contro uno stato razzista e oppressore…) è seguita la risposta sdegnata della Brigata ebraica (ma sarebbe meglio chiamarla sionista) che ha ugualmente deciso di manifestare spostando però la partecipazione al corteo di Milano. L’appello delle organizzazioni filopalestinesi è dunque quello di ritrovarsi nella stessa piazza per contestare la sgradita presenza sionista e rivendicare una volta per tutte il 25 aprile come festa della liberazione dei popoli oppressi contro l’arroganza di vecchi e nuovi invasori e guerrafondai.
Ci ricolleghiamo alla narrazione di questi episodi per estendere quindi l’invito affinché questo anniversario diventi un’occasione in più per rilanciare la costruzione di conflitto e legare all’esempio che ci viene tramandato nella memoria di chi ha pagato il prezzo più alto per la libertà alla pratica quotidiana e costante della lotta. Affinché l’antifascismo non rimanga un semplice orpello di cui ornarsi quando più fa comodo ma divenga pratica reale, esercizio costante e atteggiamento condiviso. Ora e sempre Resistenza!
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