Altro che ‘rivolta dello shopping’: il saccheggio è fame di giustizia
Saccheggiatori, teppisti, vandali, “hooligans”: «Non sono ribelli, sono delinquenti, criminali». Rimpiazzato dal mondo politico e da buona parte della stampa, il governo britannico pensa indubbiamente di avere trovato la formula perfetta per scaricare il malessere sociale e politico provocato da quattro giorni di sommosse impressionanti quanto inattese. Le “rivolte dello shopping” hanno conquistato molti sociologi. E così ci sentiamo rassicurati.
Una rivolta non è mai gratuita. Costa o può costare molto cara a coloro che vi partecipano. Non ci stancheremo mai di ripetere quanto questo “passaggio all’atto” comporti la messa in pericolo di se stessi, della propria integrità fisica e del proprio futuro rapporto con la giustizia. Questo oblìo del rischio, tipico di tutte le grandi sommosse, rappresenta un salto soggettivo molto forte. C’entra la collera, ma è soprattutto l’esasperazione, l’impossibilità di comunicare in altro modo, il fallimento delle parole e dei discorsi che ne sono all’origine, visto che le rivolte conservano la certezza pressoché totale di perdere.
In queste condizioni sono le azioni a contare, e le azioni diventano il linguaggio della rivolta. Se non vengono accompagnate da rivendicazioni o slogan, sono le azioni a rimpiazzarli, “parlando per se stesse”. Ancora una volta occorre darsi la pena di vedere e leggere questi atti per quello che sono. E il saccheggio è uno di questi atti.
È vero, già agli inizi dell’Ottocento i grandi movimenti sociali e specialmente il movimento operaio avevano tracciato la propria legittimità attraverso il rifiuto del ricorso al saccheggio. Nel novembre del 1931, durante la celebre rivolta dei Canuts, operai che lavoravano la seta a Lione, i rivoltosi avevano deciso accuratamente di evitarlo. Ma non possiamo dimenticare che il saccheggio fa parte del repertorio ordinario delle grandi sommosse popolari: le ribellioni degli schiavi nell’antichità, le insurrezioni del Medioevo e fino al XVIII secolo, le rivolte popolari del XIX e quelle di Santo Domingo nel 1804.
Più recentemente, i moti causati dalla fame in Argentina nel 1989, la rivolta indonesiana del 1998, quelle degli operai in Bangladesh nel 2006 e in Madagascar nel 2009 hanno conosciuto episodi di saccheggio, e così in Burkina Faso e in Malawi nelle insurrezioni avvenute in aprile e luglio di quest’anno. E molte altre. Abbiamo già cancellato le scene di saccheggio ad Hammamet lo scorso gennaio, in piena rivoluzione tunisina?
Il saccheggio interviene laddove la profonda diseguaglianza sociale diventa insopportabile, dove l’opulenza si mostra senza vergogna agli occhi della miseria. Naturalmente i saccheggiatori di Londra, Manchester e Birmingham non sono esperti in economia e storia sociale. Tuttavia ci dicono, a loro modo, quello che gli studiosi sanno benissimo ma che si guardano bene dal proclamarlo ai quattro venti: con la finanziarizzazione dell’economia, le disuguaglianze sociali in Europa e nell’America del Nord hanno ritrovato l’ampiezza che avevano uno o due secoli or sono. Ovvero al tempo delle grandi insurrezioni… Le merci e il lusso fanno bella mostra mentre i budget sociali conoscono oscuri tagli. I profitti bancari si gonfiano al ritmo dello strangolamento dei cittadini a causa di politiche austere.
Qualche, rara, parola è uscita da queste sommosse, parole scritte sui muri. Tra quelle parole, una acquista qui tutto il suo senso: “giustizia”.
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