Amnistia e indulto: perchè sì
È questo uno dei passaggi più significativi di Non mi avrete mai (Einaudi, 2013), libro autobiografico in cui Gaetano Di Vaio, affermato produttore del cinema indipendente italiano con un lungo passato criminale alle spalle. Un passato che lo ha portato a trascorrere diversi periodi di tempo come “ospite” tanto del carcere di Poggioreale quanto della comunità di recupero per tossicodipendenti di San Patrignano: una realtà, quest’ultima, che descrive come di gran lunga peggiore e più disumanizzante di quella della prigione. Nato alla fine degli anni ’60 a Piscinola, una quartiere della periferia a nord di Napoli vicinissimo a Scampia, Di Vaio racconta un’infanzia fatta di povertà, di privazioni, di brevi occupazioni di edifici vuoti per fuggire all’insano alloggio sito in un basso. Una povertà da cui esce attraverso un veloce cursus honorum fatto di furtarelli, scippi, rapine fino alla gestione di una «piazza di spaccio» da tremila dosi al giorno, una delle più grandi d’Europa. Si badi bene: nel racconto di Di Vaio non c’è alcun determinismo, non si afferma – neanche tra le righe – che la scelta criminale sia il risultato obbligato e necessario di una vita fatta di privazioni. Anzi, l’autore tiene a specificare che «sti guaglioni […] sono mariuoli e basta… sò delinquenti… perché se no tutti quelli che sò poveri che fanno? Si drogano e fanno i delinquenti? Pure mio padre era povero però è stato sempre onesto e ncopp’ a dieci fratelli io sò l’unico che è uscito delinquente» (pp. 213-4).
L’interesse principale del racconto di Di Vaio risiede, però, nella descrizione del carcere: della sua composizione sociale, delle sue gerarchie, delle violenze che i detenuti subiscono da parte di squadrette di secondini picchiatori. Nella parole di Di Vaio – e l’autore l’ha specificato anche nella presentazione del libro di qualche settimana fa alla Mensa occupata di Napoli – non c’è alcuna retorica della «mela marcia»: anzi, secondo lui, è il sistema sociale in cui viviamo che vuole che le carceri siano così e, laddove si incontri un secondino un po’ meno disumano, è questo a essere l’unica «mela buona» in un cesto di mele marce.
Partiamo dal libro di Di Vaio – di cui consigliamo vivamente la lettura – per parlare di amnistia e del dibattito che intorno all’eventualità di alcuni provvedimenti che la riguardino si è aperto negli ultimi giorni. Un dibattito che in pochi giorni ha portato, sicuramente sull’onda delle necessità di rispondere alla richiesta della Corte europea dei diritti dell’uomo di porre fine al sovraffollamento carcerario entro il maggio 2014 e di trovare una soluzione alla personale situazione di Berlusconi, prima Giorgio Napolitano a chiedere in un messaggio alle Camere un provvedimento di amnistia e indulto (leggi) e poi il Parlamento a calendarizzare le proposte di legge con questo contenuto presentate negli ultimi mesi da diversi senatori e deputati, sia di centrosinistra sia di centrodestra, dopo anni in cui hanno fatto a gara sui temi della repressione e della sicurezza (leggi). Alcuni parlamentari del Pdl hanno, anzi, colto la palla al balzo per presentare nuove proposte di legge che possano riguardare anche Berlusconi (leggi): proprio tra le file del Pdl, ovviamente, i più entusiasti sostenitori di questi provvedimenti, dopo anni di politiche di carcerazione, con cui sperano di salvare il loro leader carismatico.
Se non stupisce la posizione del Pdl, lascia almeno perplessi la posizione espressa da molti di coloro che chiudono le porte a questa proposta, affermando che se ne gioverebbe Berlusconi o, magari, che il sovraffollamento non è un vero problema. Spesso, essi sono posti anche a sinistra, dimenticando che la richiesta di amnistia e indulto fa parte della storia del movimento operaio e comunista e, dunque, del patrimonio storico, politico e morale di tutti coloro che si richiamano a questa tradizione. Al limite, quello di cui dovremmo dispiacerci, è che la parola d’ordine dell’amnistia e, più in generale, la riflessione sul carcere e la sua funzione sia troppo spesso dimenticata dai compagni. Richieste, quelle dell’amnistia e dell’indulto, che dovrebbero provenire con forza da noi, prima che dal Pdl e da Napolitano.
Ma perché pensiamo che non si possa che essere favorevoli alle proposte di amnistia e indulto? Chi sono coloro che sono rinchiusi nelle carceri italiane?
Il «boom carcerario»: le politiche penali in Italia negli ultimi 25 anni
Gaetano Di Vaio entrò nel carcere di Poggioreale nei primi anni ’90, cioè dopo l’ultimo provvedimento di amnistia (concessa nel 1990 per i reati con pena reclusiva fino ai 4 anni non finanziari) e della promulgazione della legge Martelli sui flussi migratori (direttamente legata agli impegni assunti dall’Italia all’interno degli accordi di Schengen, nello stesso anno) e della legge Craxi-Iervolino-Vassalli sulle tossicodipendenze, che, equiparando la detenzione e lo spaccio di stupefacenti, in soli due anni fece raddoppiare il numero di tossicodipendenti detenuti.
Il 1990 costituì, dunque, un vero e proprio momento di svolta per le politiche criminali e di controllo sociale in Italia: in questo anno si toccò il minimo storico, dopo anni di calo, delle carcerazioni degli ingressi e delle presenze giornaliere in carcere. Da allora, cominciarono a crescere in modo vertiginoso, dimostrando l’utopia delle favolistiche previsioni di Michel Foucault, che negli anni ’70 aveva affermato che nelle società del controllo che si stavano affermando il carcere era destinato all’estinzione.
Il sistema produttivo penale italiano, dal 1990 ad oggi, si è infatti molto accresciuto, sia sul versante degli apparati di polizia (si denuncia e si arresta di più) sia nell’attività giudicante (si condanna di più): i volumi di carcerazione sono dunque aumentati, sia per gli italiani sia per gli stranieri. Se nel 1990 i detenuti presenti erano infatti 25.931, essi erano diventati 46.908 nel 1995, 53.165 nel 2000, 59.523 nel 2005, 67.961 nel 2010. Al 30 giugno scorso, risultavano essere 66.028 (vedi dati). Questa crescita si è accompagnata a un aumento parallelo del numero di concessioni delle misure alternative al carcere (nel 2004 superarono le 50mila unità), almeno fino al 2006 quando – in seguito al provvedimento di indulto che ha, di fatto, esaurito la pena della maggior parte di coloro che ne potevano usufruire – hanno subito un crollo drastico, per poi ricominciare lentamente a salire (vedi il rapporto Istat Detenuti nelle carceri italiane 2011 , pp. 5-6). L’aumento contemporaneo tanto delle persone in carcere quanto di quelle soggette a misure alternative fa capire quanto siano velleitarie (per quanto non saremo certo noi a rifiutarle) le proposte che mirano soltanto a una maggiore concessione di misure alternative alla carcerazione: la questione del carcere e della pena è molto più profonda.
Allo stesso tempo, negli anni ’90 la composizione sociale del carcere cominciò a mutare: sempre maggiori furono, infatti, le presenze di extracomunitari (i nemici esterni) – cresciute poi ulteriormente con le leggi Turco-Napolitano, Bossi-Fini e i loro corollari, che hanno reso reati l’inosservanza di un ordine di espulsione o la clandestinità – e tossicodipendenti (i nemici interni) dietro le sbarre, non tanto (o non soprattutto) per un aumento dei reati da loro commessi, quanto per l’affermazione di senso comune che mirava (e mira) a criminalizzarli e di una legislazione che tendeva (e tende) a punire più duramente il loro status.
Ciò avvenne in un contesto di diffusione, anche in Italia, di un sistema di informazione basato sui sentimenti di paura e di allarme e di retoriche basate sulla sicurezza, sulla legalità, sulla tolleranza zero, sulla guerra alla droga (che, in realtà, si trasforma in una guerra contro i consumatori più che contro gli interessi dello spaccio), sulla broken window theory, sulla richiesta di law and order e di certezza della pena, sul crescente allargamento dei comportamenti illeciti, sulla criminalizzazione di comportamenti sociali che sono considerati indesiderabili (accattonaggio, vivere senza fissa dimora, essere clandestino, ecc.), sull’inasprimento delle pene per i reati di microcriminalità.
Dal ’90 in poi – in Italia come anche nel resto d’Europa e negli Usa, che agirono da vero e proprio apripista – si è assistito a quello che è stato definito come «boom penitenziario» o «grande internamento»: si tratta di una tendenza che ha delle motivazioni legate alle scelte politiche, penali e penitenziarie dei governi, tanto più alla luce dell’inesistenza di un nesso pena-delitto, come la teoria marxista ha abbondantemente dimostrato. Molte più persone sono finite in carcere dall’inizio degli anni ’90 rispetto al periodo precedente, a fronte di lunghi periodi di calo dei reati, come mostrano i dati del ministero dell’Interno: il numero di omicidi e tentati omicidi, dopo essere aumentato dagli anni ’70 agli anni ’90, ha infatti raggiunto un picco nel 1991 e poi è cominciato a scendere costantemente; la stessa tendenza si è registrata anche per i furti e per le rapine, ma si è interrotta tra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei duemila, quando il numero dei reati predatori è ricominciato a salire per poi continuare con un andamento instabile.
Secondo alcuni studiosi di impianto marxista, i processi di carcerazione di tossicodipenti e immigrati sono solo una parte di un più generale processo di carcerazione che ha colpito sempre più, dagli anni ’90, i giovani disoccupati, coloro che sono stati definiti come facenti parte del «sottoproletariato giovanile metropolitano» che ha sostituito una popolazione carceraria composta di «sottoproletariato bracciantile, adulto e meridionale». Come ha scritto Salvatore Verde nel suo volume Massima sicurezza (Odradek, 2002),
le inchieste della Procura di Milano sulla corruzione e quelle dei pool siciliani sulla mafia, sono il portato di un’affermazione radicale del principio di legalità esistente. Per questa ragione il prodotto finale di questo originale movimento sociale è costituito dalla massa di tossicodipendenti, immigrati, poveri, malati, persone con sofferenze mentali e in difficoltà che riempie oggi le nostre prigioni. Il peso che in questo tempo ha assunto la repressione nella costruzione mediatica del consenso è enorme. […] All’ombra di queste due grandi emergenze criminali [Tangentopoli e la lotta contro la mafia] si è consumato il più spettacolare processo di carcerazione che questo paese ha vissuto negli ultimi cinquant’anni, un processo che si è abbattuto prevalentemente sulle vecchie e sulle nuove aree della marginalità e del disagio sociale, alimentate dagli indirizzi neoliberisti delle politica economiche. La costruzione mediatica delle figure criminali del tangentista e del mafioso ha nascosto una penalità materiale che ha colpito con mano pesante una specifica area sociale della marginalità, in prevalenza insediata nei contesti metropolitani, che occupa le fasce più precarie e deboli del mercato del lavoro criminale, che nelle sue scelte di criminalità riproduce semplicemente la sua posizione sociale di partenza. (p. 173)
Queste parole sono tanto più vere alla luce del fatto che per tutte le inchieste relative a Tangentopoli “solo” 4mila persone hanno varcato le soglie del carcere, spesso per pochissime ore, e che anche i condannati per organizzazione mafiosa sono “solo” qualche migliaia: una percentuale ultraminoritaria della popolazione carceraria. Come ha scritto anche Lucia Re in Carcere e globalizzazione (Laterza, 2006), infatti, in Italia le politiche delle sicurezza hanno costantemente identificato alcune categorie (i rapinatori negli anni ’60, i «terroristi» negli anni ’70, i tossicodipendenti e gli spacciatori negli anni ’80, i mafiosi tra gli anni ’80 e gli anni ’90, i «politici corrotti» nei primi anni ’90, gli immigrati negli anni ’90-2000 e, in particolar modo, gli islamici nella fase successiva) come pericolose, ma
in ognuno dei periodi storici considerati, l’individuazione di specifiche classi di criminali come bersagli delle politiche penali ha condotto a una più generale criminalizzazione della popolazione. Fatta eccezione per i migranti e per i tossicodipendenti, i gruppi criminali oggetto della repressione penale non hanno contribuito in modo decisivo all’incremento della detenzione. [p. 115]
Alla luce di queste scelte politiche, in termini numerici, quale composizione del carcere si è dunque data?
La popolazione carceraria in Italia oggi
Secondo i dati aggiornati al 31 agosto 2013, in Italia ci sono 64.835 detenuti (di cui 894 in semilibertà): il 95,6% sono uomini. La capienza regolamentare totale delle carceri italiane è di 47.703 posti: l’esubero è, quindi, di 17mila detenuti rispetto ai posti disponibili. Il dato andrebbe però letto carcere per carcere: in alcune il sovraffollamento, infatti, fa vivere i detenuti in condizioni ancora più inumane di quelle che già la loro condizione prevede. La condizione tragica in cui vengono fatti vivere e morire costituisce, in realtà, una sorta di surplus di pena.
Dei 66.028 detenuti presenti al giugno 2013 (la lieve diminuzione negli ultimi mesi è forse legata al cosiddetto decreto svuotacerceri), 23.927 (36,2%) erano stranieri (alla fine di agosto erano, 22.878, pari al 35,3%), a fronte di una loro presenza in Italia pari a circa l’8-9% della popolazione (leggi): essi costituiscono una quota della popolazione carceraria in crescita (nel 1991 erano circa il 15%). Dalle regioni meridionali e dalle isole (Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia, Sardegna) provenivano invece 31.142 di questi 66mila detenuti (vedi dati), pari al 47% del totale e al 72,8% dei detenuti italiani (a fronte di una popolazione di queste regioni pari al 34,5% di quella italiana). Di tutti i detenuti presenti nelle carceri italiane, solo a 6.758 (il 10,2% del totale dei detenuti) è ascritto il reato di associazione mafiosa (vedi): la presenza di così tanti meridionali (che, del resto, è una costante storica in Italia), dunque, è difficilmente imputabile in via prioritaria alla presenza di criminalità organizzata nelle loro regioni. Meridionali e immigrati – coloro che provengono, cioè, dai contesti economicamente e socialmente più svantaggiati – costituiscono dunque oltre l’83% della popolazione carceraria.
Degli oltre 64mila detenuti totali, inoltre, 11.785 (18,2%) sono in attesa del primo giudizio e 12.226 (18,8%) non sono condannati in via definitiva: il 37% dei detenuti, quindi, è imputato e non è ancora stato ritenuto colpevole dalla legge italiana del reato ascrittogli. Sconta, in questo senso, una «pena anticipata».
La stima degli imputati è ancora più alta tra i detenuti stranieri (43%): sono 4.779 (20,88%) coloro che ancora non sono stati giudicati in primo grado e 5.067 (22,1%) i non ancora condannati in via definita. Secondo i dati Istat del 2011, l’88,3% dei nuovi ingressi in carcere è di imputati e, tra essi, la percentuale di stranieri in ingresso è sempre superiore a quella degli italiani:
per il furto si hanno il 75,7% di imputati stranieri contro il 66,1% di imputati italiani, per la rapina 85,6% contro 79,4%, per la ricettazione 85,2% contro 70,4%, [..] ma soprattutto per le violenze sessuali (85,1% contro 58,6%), gli atti sessuali con minorenne (83,3% contro 46,3%) e gli atti osceni (81,4% contro 42,9%), la truffa (91,5% contro 59,2%), gli omicidi colposi (91,7% contro 63,1%). [p.7]
Tra i detenuti stranieri condannati, il 38,1% deve scontare una pena fino a 3 anni: tra gli italiani, si trova in questa condizione il 21,8% (vedi dati). Tra i detenuti condannati in via definitiva (vedi), ha una pena residua inferiore ai 3 anni il 60,4% (il 25,4% deve scontare ancora meno di un anno). Tra gli stranieri, è il 74,3% a dover scontare ancora meno di 3 anni, il 35,3% addirittura meno di un anno. A dimostrazione del fatto che per gli stranieri è più facile entrare in carcere e più difficile uscirne.
Significative sono anche le stime – rilevate al 30 giugno (vedi) – sui titoli di studio dei detenuti (che, tuttavia, sono rilevate solo per il 54,4% della popolazione carceraria: il 63,1% degli italiani e solo il 38% degli stranieri): gli analfabeti sono il 2% (italiani 1,41%, stranieri 3,7%), i privi di titolo di studio il 5,2% (italiani 2%, stranieri 15%), coloro che hanno la licenzia elementare il 21,4% (23,6% e 13,5%), coloro che hanno la licenza media il 59,4% (61% e 55%), i diplomati il 10,5% (10,4% e 10,8%), i laureati l’1,7% (1,6% e 2%). Si tratta, chiaramente, di cifre molto più orientate ai titoli di studio più bassi rispetto alla media della popolazione italiana (secondo i dati del censimento del 2001, da cui certamente migliaia di anziani analfabeti o semianalfabeti sono morti: analfabeti 1,4%, privi di titolo di studio 9,6%, elementare 25,41%, media 30,1%, superiore 25,85%, laurea 7,1%).
Riguardo alla fascia d’età (vedi), il 53,9% dei detenuti ha un’età compresa tra i 20 e i 39 anni (in Italia, circa il 25% della popolazione ha questa fascia di età): la percentuale sale al 72,5% tra gli immigrati.
Secondo i dati al giugno 2013, oltre il 39% dei detenuti è stato condannato per violazione della normativa sugli stupefacenti, il 53% per reati contro il patrimonio: ovviamente i dati riguardano i soggetti coinvolti in ogni reato, ma lo stesso detenuto potrebbe essere coinvolto anche in più tipologie di reati. Alla fine del 2011, inoltre, i detenuti tossicodipendenti costituivano il 24,5% del totale.
Alla luce di questi dati, bisognerebbe chiedersi per quale motivo immigrati, meridionali, giovani uomini tra i 20 e 39 anni, persone con un basso titolo di studio, siano rappresentati in carcere in misura ben maggiore che nella società. Escludiamo, ovviamente, che si tratti di «categorie» di individui più propensi di altri a delinquere, tanto più alla luce delle stime che affermano che gli immigrati regolari delinquono quanto gli italiani.
Una prima spiegazione va ovviamente ricercata proprio nella selezione di classe della popolazione carceraria: si tratta, in larghissima parte, di persone povere, con un titolo di studio che non gli permette di capire bene la propria posizione (e magari di chiedere misure alternative), spesso impacciate da una scarsa o insufficiente conoscenza della lingua italiana. Le differenze economiche e culturali agiscono a un duplice livello: da un lato determinano una forma di «discriminazione strutturale», spingendo al ricorso a pratiche microcriminali per potere sopravvivere (soprattutto nei periodi di più marcata crisi economica, di distruzione dello stato sociale, di altissimi tassi di disoccupazione), dall’altro rendono impossibile il ricorso a buoni avvocati, che possano adottare tattiche difensive di effettivo aiuto per i loro assistiti.
Inoltre, i tassi di carcerazione degli immigrati (ma, per gran parte della storia dell’Italia repubblicana e ancora oggi, si possono dire quasi le stesse cose per i proletari meridionali) sono più alti di quelli degli italiani perché entrano in carcere con maggiore facilità – alla luce della domanda di «sicurezza» inculcata nell’opinione pubblica, per un immigrato è più facile essere arrestato, che abbia commesso o meno un reato: in parte per le figure di reato che riguardano la sua condizione, in parte perché più «attenzionati» dalle forze dell’ordine – e perché la loro carcerazione dura più a lungo. Essi, infatti, vengono condannati a pene più lunghe rispetto agli italiani che compiono gli stessi reati e ottengono con più difficoltà le misure alternative (vedi), anche a causa di una maggiore carenza dei requisiti necessari, come un lavoro o un alloggio fisso. Come mostrano i dati Istat del 2011, solo il 12,7% dei detenuti stranieri usufruisce delle misure alternative al carcere, contro il 30,7% degli italiani.
Perché essere favorevoli a un’amnistia generalizzata
Bisogna dunque interrogarsi, da una prospettiva di classe, sulla funzione del carcere oggi, in un momento in cui ha perduto la funzione con cui – tra il XVII e il XVIII secolo (presto si tende a dimenticare questo dato, pensando che il carcere sia un’istituzione che ha sempre accompagnato la storia dell’uomo) – era stato creato, cioè quella di educare le masse alla disciplina del lavoro salariato.
In primo luogo, questa incarcerazione di massa – in carcere, ma anche attraverso le misure alternative – non può che funzionare come un efficace sistema di regolazione della forza lavoro: più persone (precarie, povere, marginali) sono private della propria libertà, meno persone faranno parte di quella massa crescente di disoccupati e precari che potrebbe innescare la miccia del conflitto sociale.
In secondo luogo, sicuramente, l’incarcerazione di decine di migliaia di poveri (e di impoveriti dalla crisi), di immigrati, di precari che sopravvivono con difficoltà e spesso si dedicano a economie sommerse e irregolari, di proletari e sottoproletari dediti alla microcriminalità serve a neutralizzare queste novelle «classi pericolose»: le politiche neoliberiste, infatti, richiedono ordine non solo nei bilanci degli Stati, ma anche nelle strade delle città e, certamente, allontanare da esse migliaia di giovani proletari può sortire l’effetto voluto. Da qui un doppio ordine di repressione: da un lato quella politica, contro i militanti politici, contro i movimenti sociali, contro tutti coloro che mettono in discussione il sistema in cui viviamo; dall’altro lato, quella sociale, contro i «marginali», contro coloro che in questo sistema non trovano un posto e che non devono neanche essere visti, perché è la loro stessa esistenza in vita a dimostrare le falle del sistema.
Per questi motivi, riteniamo che, in una prospettiva di classe (e non solo dal punto di vista – insufficiente, se non deleterio – emotivo/umanitario di quanti giudicano inumano il sovraffollamento carcerario), non si possa che essere favorevoli alla proposta di amnistia, che coinvolga tanti più proletari e sottoproletari possibili: perché se in carcere ci si finisce dopo una selezione di classe, un’amnistia può rappresentare un primo (per quanto certamente insufficiente) passo per riequilibrare la situazione.
Ci sembrano assurde, alla luce di questi dati, le posizioni di coloro che – magari autocollocatisi nel largo campo della “sinistra”, intendendo con ciò l’essere anti-berlusconiani – rifiutano di prendere in considerazione la proposta di amnistia e indulto, chiedendosi ironicamente «a chi giova?»: certo, probabilmente il parlamento è in questi giorni in fermento sul tema per trovare una scappatoia alla singolare posizione di Berlusconi – soprattutto dopo che ha garantito la continuità del governo –, ma a giovarne saranno soprattutto decine di migliaia di proletari e sottoproletari.
Non ci stupiscono di certo le posizioni della Lega e dei Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, contrari a ogni proposta di amnistia e fautori della richiesta di costruire più carceri per risolvere il sovraffollamento. Come non ci stupiscono quelle del M5S, portatore anche in questo caso di istanze di destra, come dimostrano i post su facebook (sic) dei suoi deputati. Alcuni di questi post devono essere citati, perché sono emblematici della «cultura politica» dei parlamentari 5 Stelle, alla faccia di tutti coloro che affermano che Grillo e Casaleggio sono una cosa e i parlamentari grillini un’altra. Pensiamo al deputato del M5S Manlio Di Stefano, che ha commentato la lettera di Napolitano alle Camere scrivendo: «Napolitano interviene a gamba tesa sulla vita del Parlamento. Chi avrà da salvare? Siamo alle barzellette». Un altro deputo del M5S, Alessandro Di Battista si è invece espresso in questo modo: «Un messaggio che può avere senso se non ci fosse il sospetto, o per qualcuno la certezza, che abbia a che fare con il condannato Berlusconi, principale alleato del Pd in quest’avventura dell’indecente inciucio. Le parole che ci fanno rabbrividire (ripeto, in questo momento storico) sono indulto e soprattutto amnistia […]. Si alza la posta in gioco e si alza la forza e la “qualità” delle azioni da parte del potere. Il M5S vuole sovvertire il potere e liberare Italia e italiani. O si vince o si perde, non si può pareggiare. In alto i cuori». Donatella Agostinelli, loro collega, gli fa eco sempre su facebook: «Abbiamo già visto come nel 2006 l’indulto sia stato fallimentare e non abbia risolto alcun problema, non è stato mai preso in considerazione il nostro piano di ristrutturazione delle carceri ma si vuole proseguire invece con questa soluzione che non fa altro che schiaffeggiare nuovamente il principio di certezza della pena ed aprire la porta a l’ennesimo salvacondotto giudiziario al condannato Silvio Berlusconi».
Non ci sorprende neanche la posizione del Pd, che del resto negli ultimi anni è sempre stato fautore di posizioni reazionarie e punitive in campo penale. Nonostante il sostegno iniziale alla richiesta di Napolitano, anche il Pd, infatti, per bocca del segretario Epifani, ha chiesto di andare coi piedi di piombo nella valutazione della proposta, a causa delle diverse sensibilità in merito che esisterebbero in Italia (leggi), per poi arrivare alla netta chiusura in merito del candidato favorito alla segreteria Matteo Renzi: «Affrontare così il tema è un clamoroso errore, un autogol. Come facciamo a spiegare ai ragazzi il valore della legalità se poi ogni sei anni, quando le carceri sono troppo piene, buttiamo fuori un po’ di gente?» (leggi).
La domanda «chi avrà da salvare?» è, secondo noi, fuorviante e mal posta. Del resto, l’amnistia storicamente non si applica ai reati fiscali e finanziari, mentre l’indulto non si applicherebbe all’interdizione dei pubblici uffici: la non eleggibilità di Berlusconi, quindi, non verrebbe messa in discussione.
Ma ai compagni, alla luce dei dati sulle carceri italiane, deve davvero interessare se Berlusconi potrà godere o no del provvedimento di amnistia e indulto? Noi crediamo di no: la questione è così importante che non può essere personalizzata. Come, ai tempi di tangentopoli, la richiesta di punizione dei «politici corrotti» portò a una criminalizzazione e all’incarcerazione di vasti settori della società, anche oggi il rifiuto della proposta di amnistia in nome della possibilità che di essa possa usufruirne Berlusconi o in nome di un astorico concetto di “legalità” chiude la strada per la libertà a migliaia di persone: oltre al danno di essere incarcerati per motivi che hanno poco a che vedere con l’effettivo compimento di reati, per essi si aggiungerebbe la beffa di non essere liberati per la particolare posizione di Berlusconi, il presidente del consiglio di molti dei governi che hanno varato le norme che li hanno portati in carcere. Tra quanti si dicono di sinistra, qualcuno, in buona fede, può davvero affermare che ne valga la pena? Noi pensiamo di no.
Il provvedimento di amnistia e indulto è sufficiente? No di certo: il problema è nelle politiche penali e penitenziarie, nella discriminazione e nella diseguaglianza economiche, sociali ed etniche. Fondamentalmente, nel sistema economico, sociale e politico di cui sono figlie e riflesso.
Ma pensiamo che, nonostante questo, sia un provvedimento necessario e da sostenere, vigilando sul fatto che punti effettivamente a estinguere la pena o il reato di proletari e sottoproletari, e non solo di dirigenti e colletti bianchi. Un provvedimento di amnistia generalizzata dunque, che comprenda anche i reati commessi nell’ambito delle lotte sociali e politiche, non può che vedere il nostro appoggio. Non pensiamo infatti che si possa abolire il carcere qui e ora, all’interno del sistema capitalista, ma la lotta contro il capitalismo non può che essere anche una lotta contro le sue galere e per la liberazione dei suoi ostaggi.
da militant
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