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Appunti sulla potenza del capitale nel tempo presente

In luogo di una introduzione

di Alessandro Simoncini

(da: T YSM)

 

Il capitalismo è il più intelligente sistema di rapina che sia mai stato inventato
M. Tronti, Dall’estremo possibile, 2011

 

Il capitalismo, si sa, non è soltanto un modo di produzione di beni, merci e servizi; non è neppure solo un mero regime di accumulazione e di valorizzazione del capitale. È piuttosto un complesso rapporto sociale sostenuto da una molteplicità di dispositivi biopolitici e disciplinari capaci di governare le popolazioni, i corpi e le menti, adattandoli alla perpetuazione del sistema nel campo di battaglia della riproduzione sociale (1). Fin dalla sua nascita, quindi, la produzione della soggettività, individuale e collettiva è una delle poste in gioco fondamentali del capitalismo. Come ben sapeva Michel Foucault, infatti, non si dà accumulazione del capitale senza l’elaborazione di adeguati “metodi per gestire l’accumulazione degli uomini” (2). Valorizzazione del capitale e governo dei viventi: i due processi sono inseparabili.

Attraverso il concetto di “sussunzione reale” del lavoro al capitale, del resto, già Karl Marx aveva mostrato che gran parte della forza materiale del sistema capitalistico consisteva nella sua formidabile capacità di mettere al lavoro (e “a valore”) tutto ciò che in prima battuta sembrava opporglisi antiteticamente, cioè in modo irriducibilmente antagonistico (3). Marx pensava al lavoro vivo, ma lo stesso può accadere ad altri potenziali oppositori, come il desiderio e l’immaginazione dei viventi ad esempio. Ed è quanto si è storicamente manifestato in modo nitido con l’affermazione sociale egemonica della forma-merce e delle sue “fantasmagorie” infantilizzanti: creatività e desiderio sono stati catturati nel contesto del dispiegamento progressivo di quella che Guy Debord ha chiamato “società dello spettacolo” (4).Dal suo stadio “concentrato”, all’opera nei regimi autoritari, attraverso quello “diffuso”, egemone nelle liberal-democrazie, questa specifica formazione sociale è giunta alla sua maturità novecentesca con lo “spettacolare integrato”. Sorto proprio dal recupero e dalla messa al lavoro delle istanze sovversive, creative e desideranti dei movimenti di massa degli anni ’60 e ’70 – che avevano scagliato una dura critica materiale alle gerarchie sociali di un mondo grigio e alla rigidità di un modo di produrre nel quale il singolo veniva ridotto a mera appendice del sistema di macchine -, lo spettacolare integrato regola ancora oggi, nelle sue varianti ipermoderne, i perimetri materiali ed immateriali del nostro tempo presente, orientando in modo decisivo le condotte dei soggetti che ne abitano gli spazi sociali (5).

Come si sostiene con frequenza crescente, oggi il capitalismo tende a divenire compiutamente “biopolitico” (6). Una delle possibili declinazioni di questo concetto parte dal pensiero di Michel Foucault – l’autore che ha proposto il termine al dibattito contemporaneo – ma se ne discosta produttivamente (7). È quella che vede nel “biocapitalismo” un dispositivo capace di sussumere e valorizzare anche quanto precedentemente sembrava sfuggirgli senza posa: il linguaggio, la libera capacità comunicativa, la potenza relazionale, il sapere, l’agire comune materiale e immateriale, e perfino le forme di vita inoperose (8). Un ruolo fondamentale nell’affermazione del biocapitalismo e nel processo di transizione da un capitalismo ad egemonia industriale ad un altro a dominante cognitiva (una transizione che non prevede approdi a facili nuovi “post”, ma un semplice cambio di dominante, appunto, e la complessa stratificazione di vecchi e nuovi sistemi di produzione e di sfruttamento), lo hanno storicamente rivestito le grandi Corporations Multimediatiche globali: Time Warner, Viacom/Cbs, News Corp, Mediaset, Cnal +, etc. Con i loro collegamenti societari incrociati, capaci di dar forma ad una nuova, aggressiva variante del grande capitale oligopolistico, queste sono state per decenni le principali “fabbriche cognitive” (9): fabbriche geniali nel mettere al lavoro l’attenzione degli spettatori tramite la pervasività dell’Infotainment (informazione ed intrattenimento); e altrettanto geniali nel produrre un codice linguistico povero e omologato, ma efficace, accomunante e quindi pienamente funzionale all’esercizio del biopotere, ovvero al governo delle moltitudini e all’estrazione del plusvalore cognitivo.

Con la loro potenza di manipolazione, o se si vuole con la loro grande “capacità di creare degli schemi di interpretazione e delle associazioni opportune e significative nelle menti dei telespettatori”, gli imperi mediatici postindustriali hanno infatti dettato la linea di produzione di una nuova, arricchita variante dello “spettacolare integrato” di debordiana memoria (10). Recintare quel bene comune che è la comunicazione grazie a strumenti mediatici gerarchici e verticali come la televisione o i grandi rotocalchi; plasmare processi mentali attraverso l’imposizione di frames capaci di naturalizzare un reale che si vuole indiscutibile (basti qui pensare al modo in cui il pattern mitologico della paura ha accompagnato la propaganda bellica o le tantissime campagne d’ordine anti-migranti); catturare emozioni, desideri e sentimenti, e addirittura generarli tramite la circolazione ossessiva di un metalinguaggio prodotto ad hoc per orientare la razionalità comportamentale e sociale dei viventi: questi sono alcuni dei principali compiti svolti dall’esercizio del potere mediatico globale nelle sue tante fabbriche. Fabbriche che a partire dalla fine degli anni ’70 – proprio mentre finanziarizzazione dell’economia e neoliberalismo attaccavano duramente diritti del lavoro, salario, occupazione e stato sociale – si incaricavano di assolvere a due compiti ben precisi: da un lato, quello di disgregare i processi di soggettivazione critica che nei due decenni precedenti avevano disseminato di resistenze, lotte e pratiche di libertà le società capitaliste, civilizzandole parzialmente e producendo l’ “eccezione keynesiana” (11); e dall’altro quello di produrre nuove forme docili di soggettività, vendendo contemporaneamente agli oligopoli dei media una gran mole di “tempo di cervello umano disponibile” (12).

Nonostante le potenzialità emancipatorie della rete – che risiedono principalmente nella possibilità di produrre processi di soggettivazione capaci di socializzare la comunicazione e di sottrarre le menti alla pervasività della formattazione mass-mediale (tramite lo scambio e la condivisione di informazione, creazione, cooperazione) -, il nostro capitalismo digitale non sembra mostrare una minore “ansia totalitaria di accaparramento di qualsiasi terreno cognitivo” rispetto a quello precedente (13). Anche i nuovi oligopoli infatti – quelli di Apple, Facebook, Google, con Steve Jobbs, Marc Zuckerberg, Sergey Brin e Larry Page al posto dei vari Murdoch e Berlusconi – esercitano con sapienza la cattura dell’intelligenza collettiva, della sua potenza comune e del valore che questa produce. Si tratta di compiti oggi svolti da strumenti come il marketing virale, le comunicazioni multicanale, l’utilizzo commerciale dei social network, e più in generale il crowdsourcing (14).

È anche grazie a questa strategia di “messa al lavoro della folla” – grazie cioè al lavoro gratuito, o quasi, di una massa ingente di collaboratori reperiti al di fuori dei confini dell’impresa – che le imprese realizzano oggi una parte considerevole dei loro progetti (15). Sembra imporsi qualcosa di simile ad un vero e proprio paradigma in base a cui una moltitudine di lavoratori “felici e sfruttati” viene quotidianamente incentivata a collaborare, senza retribuzione, ad attività di impresa dalle quali essi sperano di ricavare, in futuro, un buon ritorno promozionale (16). Un po’ come accade ai tanti docenti universitari a titolo gratuito o – esemplare la situazione italiana – ai moltissimi giovani stagisti a titolo gratuito. Nella vana speranza di un impiego “vero”, questi rimpiazzano oggi i lavoratori a tempo determinato licenziati dalle aziende con la giustificazione della crisi, e prendono il posto di quelli che una volta, con maggior dignità, venivano chiamati apprendisti. Infine, la cattura dell’intelligenza collettiva avviene anche attraverso il controllo sui nuovi strumenti di comunicazione mobile, ovvero sui “bio-ipermedia” che – come l’Iphone, l’Ipad, l’Appstore, lo smartphones Android, etc. – tengono i corpi e le vite costantemente avvinghiati ad internet, “liberando lo scambio d’informazione dal luogo e tempo ristretto e fisso dove televisione e Pc sono confinati” (17).

In altri termini, anche nel capitalismo digitale – nel quale, occorre ricordarlo, permangono anche forti spinte alla “taylorizzazione del lavoro cognitivo” (18) – la vita viene prodotta e riprodotta secondo gli assiomi funzionali alla valorizzazione capitalistica e finisce così nel ribollente calderone della macchina-capitale. Sempre di più, ciò attraverso cui l’ultimo capitalismo punta a valorizzarsi con forza è la vita di tutti e di ciascuno. Di ciascuno: di quelle singolarità, cioè, che vengono pervasivamente impiegate nel dispositivo di un “lavoro senza fine” – anche quando consumano, si riproducono o creano – secondo le logiche di una ricattatoria quanto paradossale “eterna precarietà permanente” (19). Di tutti: ovvero di intere popolazioni la cui condotta di vita viene modellata – da almeno trenta anni – a partire dalla dogmatica neoliberale, ovvero da un “regime di verità” secondo cui le garanzie collettive che lo stato sociale assicurava contro i rischi collegati al vivere comune (rischi di malattia, ignoranza, vecchiaia, disoccupazione e precarietà esistenziale, etc.) avrebbero progressivamente deresponsabilizzato i soggetti (20). Che, proprio per questo e per il loro bene, dovrebbero essere singolarmente e “responsabilmente” spinti a dotarsi della capacità di conquistare sul mercato la propria protezione individuale. Così, ciascuno viene continuamente incentivato a riqualificare la propria soggettività come quella di un “imprenditore di se stesso” (21). E da un dispositivo di socializzazione del rischio che aveva esteso i confini della cittadinanza, dando vita a qualcosa di simile ad una “proprietà sociale” (ma anche ad un efficace insieme di strategie di governo del sociale), si è slittati verso una strategia di individualizzazione che rimette pienamente in sella la logica dell’individualismo proprietario (22).

E ciò secondo una ratio programmatica in base alla quale i diritti sociali, un tempo garantiti dal Welfare State, tendono a divenire debiti: siano essi contrattati con le banche a titolo individuale, con un mutuo, o vincoli intrattenuti da ciascuno con lo stato fin dalla nascita in virtù della strutturale presenza di un debito pubblico. Il diritto alla casa, allo studio, al lavoro, alle cure mediche, alla pensione o al sussidio di disoccupazione vengono tendenzialmente riconcettualizati come debiti che ogni “cittadino responsabile”, allevato per essere capace di fare e mantenere promesse – avrebbe detto Nietzsche -, dovrà dunque risarcire (23). Ma, per poterlo fare, sarà costretto a garantire che la propria condotta futura resterà per sempre quella di un lavoratore docile; o, se si vuole, quella di un privato individuo sempre “impiegabile”, capace cioè di accrescere il proprio “capitale umano” a partire dalle richieste di flessibilità rivoltegli dall’impresa, la vera unità aggregativa della società neoliberale (24).

A sovradeterminare l’intero processo, stanno poi quelle “verità” del mercato che – come si diceva – assurgono al ruolo di assiomi. Di volta in volta, mediante gli automatismi della governance finanziaria, simili assiomi dettano le regole con cui élites delegate o cooptate ad esercitare il potere governano in modo sempre più oligarchico ed antisociale i viventi e il corpo vivo delle società liberaldemocratiche (25). È così che, al tempo della dittatura del capitalismo finanziario e della “nuova ragione del mondo” neoliberale, perfino la vita dei lavoratori dipendenti e degli spossessati viene riconvertita in “capitale umano” da valorizzare integralmente (26). Il loro denaro intanto – quello delle liquidazioni e delle pensioni, ad esempio – continua ad alimentare la finanziarizzazione dell’economia nonché le tante correlate operazioni speculative: “tutti dobbiamo rischiare, tutti dobbiamo sentirci capitalisti”, recita il mantra antropologico del “finanzcapitalismo” (27).

Alla sua realizzazione pressoché integrale si è giunti con un certosino lavoro durato decenni e iniziato con la gestione della crisi negli anni ’70. I lavoratori sono stati dapprima sconfitti sul campo dalla risposta del nuovo capitalismo reale, che al fine di salvaguardare i profitti ha avviato una imponente fase di espansione finanziaria globale e di delocalizzazione dei siti produttivi, imponendo un po’ ovunque una maggiore intensità del lavoro e la sua precarizzazione ad oltranza (fino ad istituzionalizzare in molti luoghi del globo la logica del ricatto) (28). Ma la risposta capitalistica si è giocata anche su un altro, decisivo terreno. Per annullare la potenza e la pericolosità del lavoro vivo non era sufficiente frantumarne il corpo sul terreno dell’unità produttiva, disperdendone la compattezza in mille frammenti. Occorreva anche, e forse soprattutto, mettere l’anima al lavoro e al contempo fabbricare mediaticamente una nuova anima nei lavoratori (29). Con un duplice preciso intento: in primo luogo occorreva garantire l’estrazione di nuovi flussi di plusvalore da intelligenza, sensibilità, emozioni, creatività, linguaggio, capacità relazionali, di cooperazione sociale, etc; poi bisognava governare materialmente la condotta mentale dei nuovi proletari – quand’anche dotati di partita Iva e formalmente autonomi -, assoggettando il loro immaginario e i loro desideri alla dogmatica neoliberale del capitale. In altri termini, per oltre tre decenni il capitale ha saputo efficacemente calarsi sul terreno gramsciano dell’egemonia e su quello foucaultiano-deleuziano della soggettivazione.

Così i lavoratori sono stati persuasi con ogni mezzo ad aderire alle sue ragioni e a diventare, al contempo, consumatori indebitati e investitori “maniaco-depressivi” (30). Come consumatori hanno abboccato all’amo del “keynesismo privatizzato” e finanziario, che ha diffuso un effetto di verità per il quale la “dipendenza del sistema capitalistico da salari crescenti, welfare state, gestione governativa della domanda” avrebbe potuto essere rimpiazzata dal “legame tra consumatori ordinari e nuovi rischi di mercato via indebitamento da mutui e da credit card” (31); come investitori si sono rivelati, secondo le previsioni, euforici e maniacali nel momento di massima espansione degli affari. Ma ben presto sono stati rigettati nella depressione dall’inevitabile esplosione di una nutrita serie di bolle finanziarie. E, dopo il salvataggio pubblico delle banche responsabili del crack (con i correlati, ovvi crescenti disavanzi di bilancio), sono stati duramente colpiti un po’ ovunque dalle ricette governamentali che i vari stati hanno puntualmente cucinato in una salsa neoliberale invecchiata e inacidita. Preparate come cura decisiva contro la terribile malattia del debito pubblico – e servite dai farmacisti operanti nei centri dorati dello stesso potere finanziario che aveva causato la crisi -, quelle ricette prevedevano l’assunzione di medicinali assai amari: privatizzazioni e liberalizzazioni, taglio dei servizi sociali, abbattimento della spesa per istruzione e previdenza, compressione di occupazione e salari, ulteriore precarizzazione del lavoro e della vita, ingiunzione ai sacrifici, pugno di ferro contro migranti, “marginali” e zingari. È più o meno quanto abbiamo di fronte nell’attuale, drammatico scenario di una crisi strutturale del capitalismo che reca in sé, nel proprio cuore, “un violento attacco contro il lavoro: pubblico e privato” (32). Di più, se durante la prima fase della crisi sono state socializzate enormi perdite attraverso politiche di “eccezione” condivise da destra e sinistra, nella sua seconda fase vengono forgiate politiche governamentali che “alternano continuamente flessibilità e violenza” (33).

Si tratta di politiche del tutto complementari alle prime, finalizzate a smantellare “gli ultimi residui di Welfare affinché a pagare i costi siano le moltitudini di poveri e lavoratori” (34). A conferma del fatto che, sotto il regno del capitale, la regola è lo stato di eccezione (35). Tuttavia, la “sussunzione reale del mondo del lavoro alla finanza e al debito” realizzatasi negli ultimi decenni sembra persistere, e l’immaginario dominante pare sopravvivere alla crisi (36). L’uomo che lavora ha perso una pelle e ne ha progressivamente assunta un’altra, che gli è stata fornita proprio da quello che fino a qualche tempo prima era apparso chiaramente come l’avversario a cui opporsi: il capitale, appunto. Il lavoratore ha indossato la pelle dell’homo œconomicus; è divenuto un imprenditore di se stesso che è al contempo “il proprio capitale, il produttore di sé e la fonte dei propri redditi” (37). È questo l’esito di lungo periodo del sottile e pervasivo lavorio pluridecennale – al quale qui è solo possibile accennare – che il dispositivo capitalistico, con le sue propaggini mediatiche, simboliche, immaginarie, ha costantemente e quotidianamente svolto sul terreno della produzione di soggettività (38). Ed è così che l’ “elemento sfuggente” sempre presente nell’esistenza di tutti e di ciascuno come capacità di sottrazione creativa alla presa tentacolare dei poteri diffusi, è stato progressivamente imbrigliato e messo al lavoro (39). E, infatti, non è forse oggi l’ “atto di creazione” il miglior carburante della macchina-capitale (40)?

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Note

1 M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 119 e ss. Per uno sguardo completo sulla critica della ragion politica di Foucault, cfr. Id., Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978),Milano, Feltrinelli, 2005 e Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Milano, Feltrinelli, 2005.

2 M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1975, p. 240; Id., Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), Milano, Feltrinelli, 2004.

3 Cfr. K. Marx, Il capitale: Libro I, capitolo VI inedito, 1933, Milano, Etas, 2002, p. 76 e Id., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Firenze, La Nuova Italia, 1978. Per un’attualizzazione del concetto, cfr. S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Verona, Ombre corte, 2008 e M. Hardt, A. Negri, Comune Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010.

4G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano, 2006.

5Per un’eccellente esposizione delle forme dello spettacolo in Debord, cfr. M. Pezzella, La memoria del possibile, Milano, Jaca Book, 2010, pp. 13-63. Sul tema dell’infantilizzazione del mondo, cfr. B. R. Barber, Consumati. Da cittadini a clienti, Torino, Einaudi, 2010; A. Il gatto, il topo, la cultura e l’economia, in http://www.exit-online.org, 2010 e M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione,Torino, Einaudi, 1997. Ma le intuizioni fondamentali si trovano già in G. Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 182.

6 Cfr. C. Marazzi, Il comunismo del capitale. Finanziarizzazione, biopolitiche del lavoro e crisi globale, Verona, Ombrecorte, 2010; A. Fumagalli, S. Mezzadra (a cura di), Crisi dell’economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici, Verona, Ombre corte, 2010; Vanni Codeluppi. Il bio-capitalismo. Lo sfruttamento integrale di corpi, cervelli ed emozioni,Torino, Bollati Boringhieri, 2008; M. Turrini (a cura di), Biocapitale. Vita e corpi nell’era del controllo biologico, Verona, ombre corte, 2011.

7 La letteratura sul tema è ormai sterminata. Per una rassegna sull’uso contemporaneo del concetto, cfr. L. Bazzicalupo, Biopolitica. Una mappa concettuale, Roma, Carocci, 2010; per una sua possibile applicazione nelle diverse discipline, cfr. Aa.Vv., Lessico di biopolitica, Roma, Manifestolibri, 2006.

8 Cfr.F. Beradi Bifo, The Soul at Work: From Alienation to Autonomy, Los Angeles, Semiotexte, 2009e, per un approccio critico alla categoria di “biopolitica”, P. Virno, Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee, Roma, Derive Approdi, 2002, soprattutto p. 53 e ss.

9 G. Griziotti, Murdoch, Berlusconi, il crollo di due imperi mediatici e la moltitudine in rete, 2011, in http://uninomade.org.

10 Ibidem.

11 Questa stagione “eccezionale” del capitalismo ha ben poco a che vedere con la vulgata regolazionista di un “compromesso sociale” tra capitale e lavoro che avrebbe preso forma nei “trenta anni gloriosi” del capitalismo postbellico. Come chiarisce Riccardo Bellofiore, infatti, “quando i diritti del lavoro e la crescita del salario reale […] vennero conquistati, essi furono strappati con la lotta, nient’affatto la conseguenza di un compromesso. Presto […] l’eccezione keynesiana si inabissò. Una ‘eccezione’, sottolineo. Non una ‘norma su cui sia possibile misurare il capitalismo. Tanto meno un ‘mito’ a cui voler tornare”. R. Bellofiore, Finestra sul vuoto: ovvero, la crisi dell’euro e la rotta della sinistra, 2011, in http://it-it.facebook.com/notes/economisti-di-classe-riccardo-bellofiore-giovanna-vertova, versione accresciuta di La luce in fondo al tunnel. All’Europa serve un New deal di classe, in “Il manifesto”, 16 settembre 2011. Sul tema cfr. l’eccellente contributo di F. Gambino, Critica del fordismo regolazionista in E. Parise (a cura di), Stato Nazionale, lavoro e moneta,Napoli, Liguori, 1997, pp. 215-240.

12 In un’intervista a “Liberation” del 10 novembre 2004 (Patrick Le Lay, décerveleur), l’ex direttore di TF1 Patrick Le Lay ha perfettamente e cinicamente riassunto una delle principali modalità di funzionamento dell’apparato mediatico di cattura: “ora – sostiene Le Lay -, perché un messaggio pubblicitario sia percepito bisogna che il cervello del telespettatore sia disponibile. Le nostre trasmissioni hanno per vocazione di renderlo disponibile: cioè di divertirlo, di distenderlo per prepararlo tra due messaggi. Ciò che noi vendiamo a Coca Cola è del tempo di cervello umano disponibile […] Niente è più difficile che ottenere questa disponibilità. È là che si trova il cambiamento permanente. Bisogna cercare in permanenza i programmi che funzionano, seguire i modi, surfare sulle tendenze, in un contesto nel quale l’informazione si accelera, si moltiplica e si banalizza”. Ecco l’essenziale.

13 G. Griziotti, Murdoch, Berlusconi, il crollo di due imperi mediatici e la moltitudine in rete, cit.

14 Per un’analisi che legge nella messa al lavoro e nella cattura dell’intelligenza collettiva il principale punto di forza dell’ultimo capitalismo, cfr. F. Berardi Bifo, C. Formenti, L’eclissi. Dialogo precario sulla crisi della civiltà capitalista, Lecce, Manni, 2011.

15G. Becevel, La prossima volta, il mercato. Intervista a Christian Marazzi, in “Tysm”, 0, 2010, p. 55.

16 Sul Crowdsourcing e sul lavoro gratuito, cfr. C. Formenti, Felici e sfruttati, Milano, Egea, 2011. Cfr. anche le note contenute in C. Marazzi Finanza bruciata, Casagrande edizioni, Bellinzona, 2009; in Id., Il comunismo del capitale. Finanziarizzazione, biopolitiche dellavoro e crisi globale, Verona, ombre corte, 2010 e in G. Griziotti, Capitalismo digitale e bioproduzione cognitiva: l’esile linea fra controllo, captazione ed opportunità d’autonomia, 2011, in http://uninomade.org/.

17 G. Griziotti, Murdoch, Berlusconi, il crollo di due imperi mediatici e la moltitudine in rete, cit.; sui “bio-ipermedia”, cfr. Id.,Capitalismo digitale e bioproduzione cognitiva, cit..

18 C. Formenti, Felici e sfruttati, cit., pp. 107 e ss.

19 G. Marramao, Questo governo non risponde più al suo blocco sociale, in “Liberazione”, 1 settembre 2011. Un’eccellente analisi sul tema si trova in F. Chicchi, Lavoro e vita sociale: le dense ambivalenze della società flessibile, in AA. VV., San Marcellino: educazione al lavoro e territori, Milano, Franco Angeli, 2010 e Id., Eclissi del lavoro? Ambivalenze e contraddizioni del nuovo capitalismo biopolitico, in AA. VV., Come si mette la vita al lavoro. Forme di dominio nella società neoliberale, Milano-Udine, Mimesis, 2010.

20 “Ogni società ha il suo regime di verità, la sua politica generale della verità: i tipi di discorsi che accoglie e fa funzionare come veri; i meccanismi e le istanze che permettono di distinguere gli enunciati come veri o falsi, il modo in cui si sanzionano gli uni e gli altri; le tecniche e i procedimenti che sono valorizzati per arrivare alla verità; lo statuto di coloro che hanno l’incarico di designare quel che funziona come vero”. Un regime di verità, insomma, è “l’insieme delle regole secondo le quali si separa il vero dal falso e si assegnano al vero effetti specifici di potere”. M. Foucault, Intervista a Michel Foucault, in M. Foucault, Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977, pp. 25-26.

21 Cfr. R. Castel, La montée des incertitudes : Travail, protections, statut de l’individu, Paris, Ed. du Seuil, 2009.

22 Cfr. R. Castel, C. Haroche, Propriété privée, propriété sociale, Paris Fayard, 2001; G. Procacci, La cittadinanza sociale di fronte alla crisi del welfare, in “Altreragioni”, 8, 1999; Id., L’ordine e i suoi esclusi, in G. Bonaiuti, A. Simoncini (a cura di), La catastrofe e il parassita. Scenari della transizione globale, Milano, Mimesis, 2004.

23 F. W. Nietzsche, Genealogia della morale, II, I, Milano, Adelphi, 1984.

24 Sul tema cfr. M. Lazzarato, La Fabrique de l’homme endetté. Essai sur la condition néolibérale, Éditions Amsterdam, 2011, che sviluppa le importanti tesi sostenute da Michel Foucault in Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-79), Milano, Feltrinelli, 2004.

25 Un ultimo, manualistico esempio di tutto ciò è fornito dalla recente lettera scritta il 5 agosto 2011 dalla Banca Centrale Europea al governo italiano. Sottoscritta congiuntamente da Mario Draghi e Jean-Claude Trichet, la si può leggere sul Corriere della sera del 29 settembre 2011. Per un’eccellente critica del testo, cfr. A. Fumagalli, Il default come contropotere alla speculazione finanziaria, 10 agosto 2011, in http://uninomade.org e M. Dantini, TQ e l’autunno italiano (DDV, Trichet, Draghi e il triste caso di Silvio B.), 2011, in http://www.generazionetq.org/.

26P. Dardot, C. Laval, La nouvelle raison du monde. Essai surla société néolibérale, Paris, La Découverte, 2010.

27 F. Berardi Bifo, In difesa di Silvio Berlusconi (e tutta la sua banda di ruffiani, predatori e tagliagole), 2011, in http://www.sinistrainrete.info; L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi, 2011.

Postfazione a “Il lungo XX secolo”, in http://www.storicamente.org; F. Gambino, D. Sacchetto, Die Formen Des Mahlstroms. Von den Plantagen zu den FlieBbändern, in M. van der Linden, K. H. Roth (eds), Uber Marx Hinaus, Assoziation A. Berlin&Hamburg, 2009; D. Sacchetto, M. Tomba (a cura di), La lunga accumulazione originaria.Politica e lavoro nel mercato mondiale, Verona, ombre corte, 2008; A. Fumagalli, S. Mezzadra (a cura di), Crisi dell’economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici, Verona, Ombre corte, 2009, con il contributo di Karl Heinz Roth, Crisi globale, proletarizzazione globale e contro-prospettive.

29 “La fabbrica industriale sottometteva il corpo e l’obbligava a lasciar l’anima fuori dal reparto, sì che l’operaio appariva socialmente come un corpo senza anima. Nella fabbrica immateriale quel che ci viene richiesto è di mettere la nostra anima a disposizione: intelligenza, sensibilità, creatività, linguaggio”. E così “l’anima, che un tempo fu vagabonda e imprevedibile, ora deve seguire tracciati funzionali e rendersi compatibile con il sistema di scambi operativi che formano l’insieme produttivo. Si ossifica, si indurisce, perde tenerezza e mobilità”. F. Berardi Bifo, The Soul at Work, cit.. Cfr. anche M. Nicoli, L’organizzazione e l’anima, in B. Bonato (a cura di), Come la vita si mette al lavoro. Forme di dominio nella società neoliberale, Milano, Mimesis, 2010.

30R. Bellofiore, La crisi capitalistica e le sue ricorrenze: una lettura a partire da Marx, in Fenomenologia e società, 4, 2010, ora in http://wwwdata.unibg.it/dati/persone/46/3905-Bellofiore.pdf, pp. 16 e ss.

31C. Crouch, What Will Follow The Demise Of Privatised Keynesianism?In “Political Quarterly”, 4, 2008. Di qui il ruolo tutt’altro che parassitario della finanza negli anni ruggenti che abbiamo ormai alle spalle. Grazie ad un “regime politico molto attivo” negli Stati Uniti e alla politica monetaria espansiva della Federal Reserve (condizioni che favorirono il consumo a debito delle famiglie e il finanziamento alle imprese), è stata infatti “la finanza tossica ad aver consentito la crescita «reale» tanto della domanda quanto della produzione”. Nel “nuovo” capitalismo, insomma, “l’accumulazione del capitale non è avvenuta a dispetto ma in forza del neofeudalesimo e della rendita pervasivi”. R. Bellofiore, Finestra sul vuoto, cit. Sul tema cfr. anche C. Marazzi, Finanza bruciata, cit.

32R. Bellofiore, A capitalist crisis, inThe Guardian, 22 Settembre 2011.

33Manifesto Uninomade Global: Rivoluzione 2.0, in http://uninomade.org/manifesto-uninomade-global-rivoluzione-2-0.

34Ibidem.

35Il riferimento va ovviamente a W. Benjamin, Tesi sul concetto di storia, Milano, Torino, Einaudi, 1997. Per una recente ripresa del contenuto dell’ottava tesi qui richiamata, cfr. M. Tomba, L’attualità politica di Walter Benjamin, in “Su la testa”, 1, 2010 e, per un approccio più approfondito, Id., La “vera politica”. Kant e Benjamin: la possibilità della giustizia, macerata, Quodlibet, 2006.

36R. Bellofiore, La crisi capitalistica e le sue ricorrenze, cit.

37M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. Sul tema, cfr. l’importante contributo di M. Zanardi, La rivoluzione reazionaria, in AA. VV., La democrazia in Italia, Napoli,Cronopio, 2011.

38Cfr. S. Cacciari, Formazione della soggettivita nella societa mediale, in http://www.infoaut.org/articolo/formazione-della-soggettivita-nella-societa-mediale; sul caso italiano cfr. F. Berardi Bifo, Baroccofascismo. L’anomalia italiana e il semiocapitale, in Come si cura il nazi. Iperliberismo e ossessioni identitarie, verona, Ombre corte, 2009.

39Sul concetto di “elemento sfuggente”, cfr. M. Foucault, Poteri e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, Milano, Mimesis, 2006.

40 Sull’atto di creazione, cfr. G. Deleuze,Che cos’è l’atto di creazione?, Napoli, Cronopio 2003.

Il capitalismo, si sa, non è soltanto un modo di produzione di beni, merci e servizi; non è neppure solo un mero regime di accumulazione e di valorizzazione del capitale. È piuttosto un complesso rapporto sociale sostenuto da una molteplicità di dispositivi biopolitici e disciplinari capaci di governare le popolazioni, i corpi e le menti, adattandoli alla perpetuazione del sistema nel campo di battaglia della riproduzione sociale1. Fin dalla sua nascita, quindi, la produzione della soggettività, individuale e collettiva è una delle poste in gioco fondamentali del capitalismo. Come ben sapeva Michel Foucault, infatti, non si dà accumulazione del capitale senza l’elaborazione di adeguati “metodi per gestire l’accumulazione degli uomini”2. Valorizzazione del capitale e governo dei viventi: i due processi sono inseparabili.

Attraverso il concetto di “sussunzione reale” del lavoro al capitale, del resto, già Karl Marx aveva mostrato che gran parte della forza materiale del sistema capitalistico consisteva nella sua formidabile capacità di mettere al lavoro (e “a valore”) tutto ciò che in prima battuta sembrava opporglisi antiteticamente, cioè in modo irriducibilmente antagonistico3. Marx pensava al lavoro vivo, ma lo stesso può accadere ad altri potenziali oppositori, come il desiderio e l’immaginazione dei viventi ad esempio. Ed è quanto si è storicamente manifestato in modo nitido con l’affermazione sociale egemonica della forma-merce e delle sue “fantasmagorie” infantilizzanti: creatività e desiderio sono stati catturati nel contesto del dispiegamento progressivo di quella che Guy Debord ha chiamato “società dello spettacolo”4.Dal suo stadio “concentrato”, all’opera nei regimi autoritari, attraverso quello “diffuso”, egemone nelle liberal-democrazie, questa specifica formazione sociale è giunta alla sua maturità novecentesca con lo “spettacolare integrato”. Sorto proprio dal recupero e dalla messa al lavoro delle istanze sovversive, creative e desideranti dei movimenti di massa degli anni ’60 e ’70 – che avevano scagliato una dura critica materiale alle gerarchie sociali di un mondo grigio e alla rigidità di un modo di produrre nel quale il singolo veniva ridotto a mera appendice del sistema di macchine -, lo spettacolare integrato regola ancora oggi, nelle sue varianti ipermoderne, i perimetri materiali ed immateriali del nostro tempo presente, orientando in modo decisivo le condotte dei soggetti che ne abitano gli spazi sociali5.

Come si sostiene con frequenza crescente, oggi il capitalismo tende a divenire compiutamente “biopolitico”6. Una delle possibili declinazioni di questo concetto parte dal pensiero di Michel Foucault – l’autore che ha proposto il termine al dibattito contemporaneo – ma se ne discosta produttivamente7. È quella che vede nel “biocapitalismo” un dispositivo capace di sussumere e valorizzare anche quanto precedentemente sembrava sfuggirgli senza posa: il linguaggio, la libera capacità comunicativa, la potenza relazionale, il sapere, l’agire comune materiale e immateriale, e perfino le forme di vita inoperose8. Un ruolo fondamentale nell’affermazione del biocapitalismo e nel processo di transizione da un capitalismo ad egemonia industriale ad un altro a dominante cognitiva (una transizione che non prevede approdi a facili nuovi “post”, ma un semplice cambio di dominante, appunto, e la complessa stratificazione di vecchi e nuovi sistemi di produzione e di sfruttamento), lo hanno storicamente rivestito le grandi Corporations Multimediatiche globali: Time Warner, Viacom/Cbs, News Corp, Mediaset, Cnal +, etc. Con i loro collegamenti societari incrociati, capaci di dar forma ad una nuova, aggressiva variante del grande capitale oligopolistico, queste sono state per decenni le principali “fabbriche cognitive”9: fabbriche geniali nel mettere al lavoro l’attenzione degli spettatori tramite la pervasività dell’Infotainment (informazione ed intrattenimento); e altrettanto geniali nel produrre un codice linguistico povero e omologato, ma efficace, accomunante e quindi pienamente funzionale all’esercizio del biopotere, ovvero al governo delle moltitudini e all’estrazione del plusvalore cognitivo.

Con la loro potenza di manipolazione, o se si vuole con la loro grande “capacità di creare degli schemi di interpretazione e delle associazioni opportune e significative nelle menti dei telespettatori”, gli imperi mediatici postindustriali hanno infatti dettato la linea di produzione di una nuova, arricchita variante dello “spettacolare integrato” di debordiana memoria10. Recintare quel bene comune che è la comunicazione grazie a strumenti mediatici gerarchici e verticali come la televisione o i grandi rotocalchi; plasmare processi mentali attraverso l’imposizione di frames capaci di naturalizzare un reale che si vuole indiscutibile (basti qui pensare al modo in cui il pattern mitologico della paura ha accompagnato la propaganda bellica o le tantissime campagne d’ordine anti-migranti); catturare emozioni, desideri e sentimenti, e addirittura generarli tramite la circolazione ossessiva di un metalinguaggio prodotto ad hoc per orientare la razionalità comportamentale e sociale dei viventi: questi sono alcuni dei principali compiti svolti dall’esercizio del potere mediatico globale nelle sue tante fabbriche. Fabbriche che a partire dalla fine degli anni ’70 – proprio mentre finanziarizzazione dell’economia e neoliberalismo attaccavano duramente diritti del lavoro, salario, occupazione e stato sociale – si incaricavano di assolvere a due compiti ben precisi: da un lato, quello di disgregare i processi di soggettivazione critica che nei due decenni precedenti avevano disseminato di resistenze, lotte e pratiche di libertà le società capitaliste, civilizzandole parzialmente e producendo l’ “eccezione keynesiana”11; e dall’altro quello di produrre nuove forme docili di soggettività, vendendo contemporaneamente agli oligopoli dei media una gran mole di “tempo di cervello umano disponibile”12.

Nonostante le potenzialità emancipatorie della rete – che risiedono principalmente nella possibilità di produrre processi di soggettivazione capaci di socializzare la comunicazione e di sottrarre le menti alla pervasività della formattazione mass-mediale (tramite lo scambio e la condivisione di informazione, creazione, cooperazione) -, il nostro capitalismo digitale non sembra mostrare una minore “ansia totalitaria di accaparramento di qualsiasi terreno cognitivo” rispetto a quello precedente13. Anche i nuovi oligopoli infatti – quelli di Apple, Facebook, Google, con Steve Jobbs, Marc Zuckerberg, Sergey Brin e Larry Page al posto dei vari Murdoch e Berlusconi – esercitano con sapienza la cattura dell’intelligenza collettiva, della sua potenza comune e del valore che questa produce. Si tratta di compiti oggi svolti da strumenti come il marketing virale, le comunicazioni multicanale, l’utilizzo commerciale dei social network, e più in generale il crowdsourcing14.

È anche grazie a questa strategia di “messa al lavoro della folla” – grazie cioè al lavoro gratuito, o quasi, di una massa ingente di collaboratori reperiti al di fuori dei confini dell’impresa – che le imprese realizzano oggi una parte considerevole dei loro progetti15. Sembra imporsi qualcosa di simile ad un vero e proprio paradigma in base a cui una moltitudine di lavoratori “felici e sfruttati” viene quotidianamente incentivata a collaborare, senza retribuzione, ad attività di impresa dalle quali essi sperano di ricavare, in futuro, un buon ritorno promozionale16. Un po’ come accade ai tanti docenti universitari a titolo gratuito o – esemplare la situazione italiana – ai moltissimi giovani stagisti a titolo gratuito. Nella vana speranza di un impiego “vero”, questi rimpiazzano oggi i lavoratori a tempo determinato licenziati dalle aziende con la giustificazione della crisi, e prendono il posto di quelli che una volta, con maggior dignità, venivano chiamati apprendisti. Infine, la cattura dell’intelligenza collettiva avviene anche attraverso il controllo sui nuovi strumenti di comunicazione mobile, ovvero sui “bio-ipermedia” che – come l’Iphone, l’Ipad, l’Appstore, lo smartphones Android, etc. – tengono i corpi e le vite costantemente avvinghiati ad internet, “liberando lo scambio d’informazione dal luogo e tempo ristretto e fisso dove televisione e Pc sono confinati”17.

In altri termini, anche nel capitalismo digitale – nel quale, occorre ricordarlo, permangono anche forti spinte alla “taylorizzazione del lavoro cognitivo”18 – la vita viene prodotta e riprodotta secondo gli assiomi funzionali alla valorizzazione capitalistica e finisce così nel ribollente calderone della macchina-capitale. Sempre di più, ciò attraverso cui l’ultimo capitalismo punta a valorizzarsi con forza è la vita di tutti e di ciascuno. Di ciascuno: di quelle singolarità, cioè, che vengono pervasivamente impiegate nel dispositivo di un “lavoro senza fine” – anche quando consumano, si riproducono o creano – secondo le logiche di una ricattatoria quanto paradossale “eterna precarietà permanente”19. Di tutti: ovvero di intere popolazioni la cui condotta di vita viene modellata – da almeno trenta anni – a partire dalla dogmatica neoliberale, ovvero da un “regime di verità” secondo cui le garanzie collettive che lo stato sociale assicurava contro i rischi collegati al vivere comune (rischi di malattia, ignoranza, vecchiaia, disoccupazione e precarietà esistenziale, etc.) avrebbero progressivamente deresponsabilizzato i soggetti20. Che, proprio per questo e per il loro bene, dovrebbero essere singolarmente e “responsabilmente” spinti a dotarsi della capacità di conquistare sul mercato la propria protezione individuale. Così, ciascuno viene continuamente incentivato a riqualificare la propria soggettività come quella di un “imprenditore di se stesso”21. E da un dispositivo di socializzazione del rischio che aveva esteso i confini della cittadinanza, dando vita a qualcosa di simile ad una “proprietà sociale” (ma anche ad un efficace insieme di strategie di governo del sociale), si è slittati verso una strategia di individualizzazione che rimette pienamente in sella la logica dell’individualismo proprietario22.

E ciò secondo una ratio programmatica in base alla quale i diritti sociali, un tempo garantiti dal Welfare State, tendono a divenire debiti: siano essi contrattati con le banche a titolo individuale, con un mutuo, o vincoli intrattenuti da ciascuno con lo stato fin dalla nascita in virtù della strutturale presenza di un debito pubblico. Il diritto alla casa, allo studio, al lavoro, alle cure mediche, alla pensione o al sussidio di disoccupazione vengono tendenzialmente riconcettualizati come debiti che ogni “cittadino responsabile”, allevato per essere capace di fare e mantenere promesse – avrebbe detto Nietzsche -, dovrà dunque risarcire23. Ma, per poterlo fare, sarà costretto a garantire che la propria condotta futura resterà per sempre quella di un lavoratore docile; o, se si vuole, quella di un privato individuo sempre “impiegabile”, capace cioè di accrescere il proprio “capitale umano” a partire dalle richieste di flessibilità rivoltegli dall’impresa, la vera unità aggregativa della società neoliberale24.

A sovradeterminare l’intero processo, stanno poi quelle “verità” del mercato che – come si diceva – assurgono al ruolo di assiomi. Di volta in volta, mediante gli automatismi della governance finanziaria, simili assiomi dettano le regole con cui élites delegate o cooptate ad esercitare il potere governano in modo sempre più oligarchico ed antisociale i viventi e il corpo vivo delle società liberaldemocratiche25. È così che, al tempo della dittatura del capitalismo finanziario e della “nuova ragione del mondo” neoliberale, perfino la vita dei lavoratori dipendenti e degli spossessati viene riconvertita in “capitale umano” da valorizzare integralmente26. Il loro denaro intanto – quello delle liquidazioni e delle pensioni, ad esempio – continua ad alimentare la finanziarizzazione dell’economia nonché le tante correlate operazioni speculative: “tutti dobbiamo rischiare, tutti dobbiamo sentirci capitalisti”, recita il mantra antropologico del “finanzcapitalismo”27.

Alla sua realizzazione pressoché integrale si è giunti con un certosino lavoro durato decenni e iniziato con la gestione della crisi negli anni ’70. I lavoratori sono stati dapprima sconfitti sul campo dalla risposta del nuovo capitalismo reale, che al fine di salvaguardare i profitti ha avviato una imponente fase di espansione finanziaria globale e di delocalizzazione dei siti produttivi, imponendo un po’ ovunque una maggiore intensità del lavoro e la sua precarizzazione ad oltranza (fino ad istituzionalizzare in molti luoghi del globo la logica del ricatto)28. Ma la risposta capitalistica si è giocata anche su un altro, decisivo terreno. Per annullare la potenza e la pericolosità del lavoro vivo non era sufficiente frantumarne il corpo sul terreno dell’unità produttiva, disperdendone la compattezza in mille frammenti. Occorreva anche, e forse soprattutto, mettere l’anima al lavoro e al contempo fabbricare mediaticamente una nuova anima nei lavoratori29. Con un duplice preciso intento: in primo luogo occorreva garantire l’estrazione di nuovi flussi di plusvalore da intelligenza, sensibilità, emozioni, creatività, linguaggio, capacità relazionali, di cooperazione sociale, etc; poi bisognava governare materialmente la condotta mentale dei nuovi proletari – quand’anche dotati di partita Iva e formalmente autonomi -, assoggettando il loro immaginario e i loro desideri alla dogmatica neoliberale del capitale. In altri termini, per oltre tre decenni il capitale ha saputo efficacemente calarsi sul terreno gramsciano dell’egemonia e su quello foucaultiano-deleuziano della soggettivazione.

Così i lavoratori sono stati persuasi con ogni mezzo ad aderire alle sue ragioni e a diventare, al contempo, consumatori indebitati e investitori “maniaco-depressivi”30. Come consumatori hanno abboccato all’amo del “keynesismo privatizzato” e finanziario, che ha diffuso un effetto di verità per il quale la “dipendenza del sistema capitalistico da salari crescenti, welfare state, gestione governativa della domanda” avrebbe potuto essere rimpiazzata dal “legame tra consumatori ordinari e nuovi rischi di mercato via indebitamento da mutui e da credit card”31; come investitori si sono rivelati, secondo le previsioni, euforici e maniacali nel momento di massima espansione degli affari. Ma ben presto sono stati rigettati nella depressione dall’inevitabile esplosione di una nutrita serie di bolle finanziarie. E, dopo il salvataggio pubblico delle banche responsabili del crack (con i correlati, ovvi crescenti disavanzi di bilancio), sono stati duramente colpiti un po’ ovunque dalle ricette governamentali che i vari stati hanno puntualmente cucinato in una salsa neoliberale invecchiata e inacidita. Preparate come cura decisiva contro la terribile malattia del debito pubblico – e servite dai farmacisti operanti nei centri dorati dello stesso potere finanziario che aveva causato la crisi -, quelle ricette prevedevano l’assunzione di medicinali assai amari: privatizzazioni e liberalizzazioni, taglio dei servizi sociali, abbattimento della spesa per istruzione e previdenza, compressione di occupazione e salari, ulteriore precarizzazione del lavoro e della vita, ingiunzione ai sacrifici, pugno di ferro contro migranti, “marginali” e zingari. È più o meno quanto abbiamo di fronte nell’attuale, drammatico scenario di una crisi strutturale del capitalismo che reca in sé, nel proprio cuore, “un violento attacco contro il lavoro: pubblico e privato”32. Di più, se durante la prima fase della crisi sono state socializzate enormi perdite attraverso politiche di “eccezione” condivise da destra e sinistra, nella sua seconda fase vengono forgiate politiche governamentali che “alternano continuamente flessibilità e violenza”33.

Si tratta di politiche del tutto complementari alle prime, finalizzate a smantellare “gli ultimi residui di Welfare affinché a pagare i costi siano le moltitudini di poveri e lavoratori”34. A conferma del fatto che, sotto il regno del capitale, la regola è lo stato di eccezione35. Tuttavia, la “sussunzione reale del mondo del lavoro alla finanza e al debito” realizzatasi negli ultimi decenni sembra persistere, e l’immaginario dominante pare sopravvivere alla crisi36. L’uomo che lavora ha perso una pelle e ne ha progressivamente assunta un’altra, che gli è stata fornita proprio da quello che fino a qualche tempo prima era apparso chiaramente come l’avversario a cui opporsi: il capitale, appunto. Il lavoratore ha indossato la pelle dell’homo œconomicus; è divenuto un imprenditore di se stesso che è al contempo “il proprio capitale, il produttore di sé e la fonte dei propri redditi”37. È questo l’esito di lungo periodo del sottile e pervasivo lavorio pluridecennale – al quale qui è solo possibile accennare – che il dispositivo capitalistico, con le sue propaggini mediatiche, simboliche, immaginarie, ha costantemente e quotidianamente svolto sul terreno della produzione di soggettività38. Ed è così che l’ “elemento sfuggente” sempre presente nell’esistenza di tutti e di ciascuno come capacità di sottrazione creativa alla presa tentacolare dei poteri diffusi, è stato progressivamente imbrigliato e messo al lavoro39. E, infatti, non è forse oggi l’ “atto di creazione” il miglior carburante della macchina-capitale40?
Note

1 M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 119 e ss. Per uno sguardo completo sulla critica della ragion politica di Foucault, cfr. Id., Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978),Milano, Feltrinelli, 2005 e Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Milano, Feltrinelli, 2005.

2 M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1975, p. 240; Id., Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), Milano, Feltrinelli, 2004.

3 Cfr. K. Marx, Il capitale: Libro I, capitolo VI inedito, 1933, Milano, Etas, 2002, p. 76 e Id., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Firenze, La Nuova Italia, 1978. Per un’attualizzazione del concetto, cfr. S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Verona, Ombre corte, 2008 e M. Hardt, A. Negri, Comune Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010.

4G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano, 2006.

5Per un’eccellente esposizione delle forme dello spettacolo in Debord, cfr. M. Pezzella, La memoria del possibile, Milano, Jaca Book, 2010, pp. 13-63. Sul tema dell’infantilizzazione del mondo, cfr. B. R. Barber, Consumati. Da cittadini a clienti, Torino, Einaudi, 2010; A. Il gatto, il topo, la cultura e l’economia, in http://www.exit-online.org, 2010 e M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione,Torino, Einaudi, 1997. Ma le intuizioni fondamentali si trovano già in G. Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 182.

6 Cfr. C. Marazzi, Il comunismo del capitale. Finanziarizzazione, biopolitiche del lavoro e crisi globale, Verona, Ombrecorte, 2010; A. Fumagalli, S. Mezzadra (a cura di), Crisi dell’economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici, Verona, Ombre corte, 2010; Vanni Codeluppi. Il bio-capitalismo. Lo sfruttamento integrale di corpi, cervelli ed emozioni,Torino, Bollati Boringhieri, 2008; M. Turrini (a cura di), Biocapitale. Vita e corpi nell’era del controllo biologico, Verona, ombre corte, 2011.

7 La letteratura sul tema è ormai sterminata. Per una rassegna sull’uso contemporaneo del concetto, cfr. L. Bazzicalupo, Biopolitica. Una mappa concettuale, Roma, Carocci, 2010; per una sua possibile applicazione nelle diverse discipline, cfr. Aa.Vv., Lessico di biopolitica, Roma, Manifestolibri, 2006.

8 Cfr.F. Beradi Bifo, The Soul at Work: From Alienation to Autonomy, Los Angeles, Semiotexte, 2009e, per un approccio critico alla categoria di “biopolitica”, P. Virno, Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee, Roma, Derive Approdi, 2002, soprattutto p. 53 e ss.

9 G. Griziotti, Murdoch, Berlusconi, il crollo di due imperi mediatici e la moltitudine in rete, 2011, in http://uninomade.org.

10 Ibidem.

11 Questa stagione “eccezionale” del capitalismo ha ben poco a che vedere con la vulgata regolazionista di un “compromesso sociale” tra capitale e lavoro che avrebbe preso forma nei “trenta anni gloriosi” del capitalismo postbellico. Come chiarisce Riccardo Bellofiore, infatti, “quando i diritti del lavoro e la crescita del salario reale […] vennero conquistati, essi furono strappati con la lotta, nient’affatto la conseguenza di un compromesso. Presto […] l’eccezione keynesiana si inabissò. Una ‘eccezione’, sottolineo. Non una ‘norma su cui sia possibile misurare il capitalismo. Tanto meno un ‘mito’ a cui voler tornare”. R. Bellofiore, Finestra sul vuoto: ovvero, la crisi dell’euro e la rotta della sinistra, 2011, in http://it-it.facebook.com/notes/economisti-di-classe-riccardo-bellofiore-giovanna-vertova, versione accresciuta di La luce in fondo al tunnel. All’Europa serve un New deal di classe, in “Il manifesto”, 16 settembre 2011. Sul tema cfr. l’eccellente contributo di F. Gambino, Critica del fordismo regolazionista in E. Parise (a cura di), Stato Nazionale, lavoro e moneta,Napoli, Liguori, 1997, pp. 215-240.

12 In un’intervista a “Liberation” del 10 novembre 2004 (Patrick Le Lay, décerveleur), l’ex direttore di TF1 Patrick Le Lay ha perfettamente e cinicamente riassunto una delle principali modalità di funzionamento dell’apparato mediatico di cattura: “ora – sostiene Le Lay -, perché un messaggio pubblicitario sia percepito bisogna che il cervello del telespettatore sia disponibile. Le nostre trasmissioni hanno per vocazione di renderlo disponibile: cioè di divertirlo, di distenderlo per prepararlo tra due messaggi. Ciò che noi vendiamo a Coca Cola è del tempo di cervello umano disponibile […] Niente è più difficile che ottenere questa disponibilità. È là che si trova il cambiamento permanente. Bisogna cercare in permanenza i programmi che funzionano, seguire i modi, surfare sulle tendenze, in un contesto nel quale l’informazione si accelera, si moltiplica e si banalizza”. Ecco l’essenziale.

13 G. Griziotti, Murdoch, Berlusconi, il crollo di due imperi mediatici e la moltitudine in rete, cit.

14 Per un’analisi che legge nella messa al lavoro e nella cattura dell’intelligenza collettiva il principale punto di forza dell’ultimo capitalismo, cfr. F. Berardi Bifo, C. Formenti, L’eclissi. Dialogo precario sulla crisi della civiltà capitalista, Lecce, Manni, 2011.

15G. Becevel, La prossima volta, il mercato. Intervista a Christian Marazzi, in “Tysm”, 0, 2010, p. 55.

16 Sul Crowdsourcing e sul lavoro gratuito, cfr. C. Formenti, Felici e sfruttati, Milano, Egea, 2011. Cfr. anche le note contenute in C. Marazzi Finanza bruciata, Casagrande edizioni, Bellinzona, 2009; in Id., Il comunismo del capitale. Finanziarizzazione, biopolitiche dellavoro e crisi globale, Verona, ombre corte, 2010 e in G. Griziotti, Capitalismo digitale e bioproduzione cognitiva: l’esile linea fra controllo, captazione ed opportunità d’autonomia, 2011, in http://uninomade.org/.

17 G. Griziotti, Murdoch, Berlusconi, il crollo di due imperi mediatici e la moltitudine in rete, cit.; sui “bio-ipermedia”, cfr. Id.,Capitalismo digitale e bioproduzione cognitiva, cit..

18 C. Formenti, Felici e sfruttati, cit., pp. 107 e ss.

19 G. Marramao, Questo governo non risponde più al suo blocco sociale, in “Liberazione”, 1 settembre 2011. Un’eccellente analisi sul tema si trova in F. Chicchi, Lavoro e vita sociale: le dense ambivalenze della società flessibile, in AA. VV., San Marcellino: educazione al lavoro e territori, Milano, Franco Angeli, 2010 e Id., Eclissi del lavoro? Ambivalenze e contraddizioni del nuovo capitalismo biopolitico, in AA. VV., Come si mette la vita al lavoro. Forme di dominio nella società neoliberale, Milano-Udine, Mimesis, 2010.

20 “Ogni società ha il suo regime di verità, la sua politica generale della verità: i tipi di discorsi che accoglie e fa funzionare come veri; i meccanismi e le istanze che permettono di distinguere gli enunciati come veri o falsi, il modo in cui si sanzionano gli uni e gli altri; le tecniche e i procedimenti che sono valorizzati per arrivare alla verità; lo statuto di coloro che hanno l’incarico di designare quel che funziona come vero”. Un regime di verità, insomma, è “l’insieme delle regole secondo le quali si separa il vero dal falso e si assegnano al vero effetti specifici di potere”. M. Foucault, Intervista a Michel Foucault, in M. Foucault, Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977, pp. 25-26.

21 Cfr. R. Castel, La montée des incertitudes : Travail, protections, statut de l’individu, Paris, Ed. du Seuil, 2009.

22 Cfr. R. Castel, C. Haroche, Propriété privée, propriété sociale, Paris Fayard, 2001; G. Procacci, La cittadinanza sociale di fronte alla crisi del welfare, in “Altreragioni”, 8, 1999; Id., L’ordine e i suoi esclusi, in G. Bonaiuti, A. Simoncini (a cura di), La catastrofe e il parassita. Scenari della transizione globale, Milano, Mimesis, 2004.

23 F. W. Nietzsche, Genealogia della morale, II, I, Milano, Adelphi, 1984.

24 Sul tema cfr. M. Lazzarato, La Fabrique de l’homme endetté. Essai sur la condition néolibérale, Éditions Amsterdam, 2011, che sviluppa le importanti tesi sostenute da Michel Foucault in Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-79), Milano, Feltrinelli, 2004.

25 Un ultimo, manualistico esempio di tutto ciò è fornito dalla recente lettera scritta il 5 agosto 2011 dalla Banca Centrale Europea al governo italiano. Sottoscritta congiuntamente da Mario Draghi e Jean-Claude Trichet, la si può leggere sul Corriere della sera del 29 settembre 2011. Per un’eccellente critica del testo, cfr. A. Fumagalli, Il default come contropotere alla speculazione finanziaria, 10 agosto 2011, in http://uninomade.org e M. Dantini, TQ e l’autunno italiano (DDV, Trichet, Draghi e il triste caso di Silvio B.), 2011, in http://www.generazionetq.org/.

26P. Dardot, C. Laval, La nouvelle raison du monde. Essai surla société néolibérale, Paris, La Découverte, 2010.

27 F. Berardi Bifo, In difesa di Silvio Berlusconi (e tutta la sua banda di ruffiani, predatori e tagliagole), 2011, in http://www.sinistrainrete.info; L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi, 2011.

Postfazione a “Il lungo XX secolo”, in http://www.storicamente.org; F. Gambino, D. Sacchetto, Die Formen Des Mahlstroms. Von den Plantagen zu den FlieBbändern, in M. van der Linden, K. H. Roth (eds), Uber Marx Hinaus, Assoziation A. Berlin&Hamburg, 2009; D. Sacchetto, M. Tomba (a cura di), La lunga accumulazione originaria.Politica e lavoro nel mercato mondiale, Verona, ombre corte, 2008; A. Fumagalli, S. Mezzadra (a cura di), Crisi dell’economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici, Verona, Ombre corte, 2009, con il contributo di Karl Heinz Roth, Crisi globale, proletarizzazione globale e contro-prospettive.

29 “La fabbrica industriale sottometteva il corpo e l’obbligava a lasciar l’anima fuori dal reparto, sì che l’operaio appariva socialmente come un corpo senza anima. Nella fabbrica immateriale quel che ci viene richiesto è di mettere la nostra anima a disposizione: intelligenza, sensibilità, creatività, linguaggio”. E così “l’anima, che un tempo fu vagabonda e imprevedibile, ora deve seguire tracciati funzionali e rendersi compatibile con il sistema di scambi operativi che formano l’insieme produttivo. Si ossifica, si indurisce, perde tenerezza e mobilità”. F. Berardi Bifo, The Soul at Work, cit.. Cfr. anche M. Nicoli, L’organizzazione e l’anima, in B. Bonato (a cura di), Come la vita si mette al lavoro. Forme di dominio nella società neoliberale, Milano, Mimesis, 2010.

30R. Bellofiore, La crisi capitalistica e le sue ricorrenze: una lettura a partire da Marx, in Fenomenologia e società, 4, 2010, ora in http://wwwdata.unibg.it/dati/persone/46/3905-Bellofiore.pdf, pp. 16 e ss.

31C. Crouch, What Will Follow The Demise Of Privatised Keynesianism?In “Political Quarterly”, 4, 2008. Di qui il ruolo tutt’altro che parassitario della finanza negli anni ruggenti che abbiamo ormai alle spalle. Grazie ad un “regime politico molto attivo” negli Stati Uniti e alla politica monetaria espansiva della Federal Reserve (condizioni che favorirono il consumo a debito delle famiglie e il finanziamento alle imprese), è stata infatti “la finanza tossica ad aver consentito la crescita «reale» tanto della domanda quanto della produzione”. Nel “nuovo” capitalismo, insomma, “l’accumulazione del capitale non è avvenuta a dispetto ma in forza del neofeudalesimo e della rendita pervasivi”. R. Bellofiore, Finestra sul vuoto, cit. Sul tema cfr. anche C. Marazzi, Finanza bruciata, cit.

32R. Bellofiore, A capitalist crisis, inThe Guardian, 22 Settembre 2011.

33Manifesto Uninomade Global: Rivoluzione 2.0, in http://uninomade.org/manifesto-uninomade-global-rivoluzione-2-0.

34Ibidem.

35Il riferimento va ovviamente a W. Benjamin, Tesi sul concetto di storia, Milano, Torino, Einaudi, 1997. Per una recente ripresa del contenuto dell’ottava tesi qui richiamata, cfr. M. Tomba, L’attualità politica di Walter Benjamin, in “Su la testa”, 1, 2010 e, per un approccio più approfondito, Id., La “vera politica”. Kant e Benjamin: la possibilità della giustizia, macerata, Quodlibet, 2006.

36R. Bellofiore, La crisi capitalistica e le sue ricorrenze, cit.

37M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. Sul tema, cfr. l’importante contributo di M. Zanardi, La rivoluzione reazionaria, in AA. VV., La democrazia in Italia, Napoli,Cronopio, 2011.

38Cfr. S. Cacciari, Formazione della soggettivita nella societa mediale, in http://www.infoaut.org/articolo/formazione-della-soggettivita-nella-societa-mediale; sul caso italiano cfr. F. Berardi Bifo, Baroccofascismo. L’anomalia italiana e il semiocapitale, in Come si cura il nazi. Iperliberismo e ossessioni identitarie, verona, Ombre corte, 2009.

39Sul concetto di “elemento sfuggente”, cfr. M. Foucault, Poteri e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, Milano, Mimesis, 2006.

40 Sull’atto di creazione, cfr. G. Deleuze,Che cos’è l’atto di creazione?, Napoli, Cronopio 2003.

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