Breve genealogia dei beni comuni
di Ugo Mattei per Il Manifesto
Provoca non poco sconcerto riflettere sui tempi presenti alla luce di categorie concettuali e di linguaggi nuovi, ancora in via di elaborazione teorica, come sono i beni comuni. Se i tempi non appaiono ancora maturi per tentarne definizioni giuridiche compiute, è tuttavia utile fare tesoro di quanto si sta osservando circa la loro immanenza e il loro carattere fortemente criptico. I beni comuni si trovano ovunque vi siano relazioni, ma emergono di rado, in occasione di conflitti, spesso tumulti, che ne creano la consapevolezza in condizioni strettamente legate a rivendicazioni di bisogni fondamentali. In quanto legati a un contesto, i beni comuni si collocano dunque all’antitesi dell’universalismo tipico della retorica dei diritti umani. Essendo tuttavia funzionali alla soddisfazione effettiva di bisogni fondamentali autentici (materiali o spirituali che siano) della persona calata in molteplici contesti relazionali, sono parte di una rete tendenzialmene sconfinata.
L’individuo disconnesso
Di qui la sfida radicale che i beni comuni apportano alla dimensione statuale, circoscritta dai confini e calata nella logica della sovranità che è poi dominio gerarchicamente organizzato su un territorio. E di qui anche la difficoltà enorme che l’elaborazione teorico-giuridica incontra nel far sì che i beni comuni, entità collettive, inclusive e a potere diffuso, siano compatibili con una struttura fondamentale del diritto fondato sul proprietario (persona fisica o giuridica che sia) interlocutore privilegiato dello Stato (due strutture di concentrazione del potere ed esclusione).
In effetti, anche se strutture giuridiche che già disciplinano beni comuni esistono nel diritto privato moderno (si pensi al condominio negli edifici o alla comunione), esse sono di solito declinate come eccezionali in un contesto interamente dominato dalla proprietà privata. Proprio in quanto eccezioni alla proprietà privata, le attuali forme giuridiche di governo privatistico dei beni comuni non appaiono affatto idonee a incentivare quella comunione fra soggettività diverse e i loro contesti di riferimento che deve caratterizzare le nuove strutture istituzionali partecipative di governo dei beni comuni. Basti pensare a come i vicini di casa diano il peggio di sé proprio nelle assemblee di condominio. Qui ciascuno dei condomini, lungi dall’essere «comunista» (ossia di avere a cuore proprio quelle parti comuni che lo collegano con gli altri) si considera in realtà come un sovrano che subisce una limitazione (provocata da altri con cui il rapporto non può che essere conflittuale) di un suo supposto dominio libero.
Per giungere a un’elaborazione giuridica del comune autenticamente capace di diffondere un linguaggio nuovo, che rimetta cioè al centro il gruppo connesso (la comunità in senso ecologico variabile secondo le circostanze) e marginalizzi l’individuo disconnesso (celebrato nella retorica di Robinson Crusoe) è dunque necessario ancora molto lavoro teorico e pratico. Dal primo punto di vista occorre tracciare una genealogia (o perfino un’archeologia) del comune, un’impresa affascinante, che richiede uno sforzo interdisciplinare, soprattutto storico-istituzionale, che non può più attendere. Soltanto una tale elaborazione può rispondere alla domanda di fondo cui è estremamente difficile sfuggire.
Quali rotture sono necessarie per trasferire nel mondo delle istituzioni giuridico-politiche (ancora fondate sul positivismo dominicale) il sapere olistico e «indisciplinato» che si colloca alle frontiere della ricerca ecologica e fenomenologica? Quanto devono essere violente queste rotture o meglio qual è (ammesso che ci debba essere) il livello di violenza minima necessario per provocarle?
Oggi gli assetti di potere della modernità, fondati su concentrazione e esclusione, difendono uno status quo indifendibile, non soltanto sul piano politico ma anche su quello teorico, attraverso operazioni di inaudita violenza. I dati scientifici disinteressati in nostro possesso sono unanimi nel dimostrare, per esempio, come la società nucleare non solo sia del tutto insostenibile (scorie radioattive non gestibili) ma costituisca un’opzione dalla visione cortissima. Giorgio Parisi, uno dei massimi fisici e teorici della complessità, ha scritto sull’inserto Gaia Comune («il manifesto» del 28 aprile) che se si sostituisse con il nucleare l’intera produzione energetica derivante da idrocarburi al tasso attuale di consumo avremmo uranio per tre anni! È ovvio quindi, dati alla mano, che il nucleare non è un’opzione energetica pulita di lungo periodo ma solo un’operazione politica di strutturazione globale della concentrazione del potere.
Le incredibili aporie del nucleare realizzato (per citare un solo esempio, l’intera produzione della centrale di Fukushima, una delle oltre cinquanta che in Giappone producono il 17 per cento dell’energia ivi consumata, può essere agevolmente sostituita limitando le luminarie notturne a Tokyo!) evidenziano dati inquietanti se visti nella prospettiva di una genealogia storica.
In effetti, il livello di razionalità degli apparati ideologici che sostengono il nucleare (e comunque di quanti difendono oggi l ideologia sviluppista della modernità) è pari a quello dell’inquisizione. Pienamente razionale per il solo inquisitore! Allora si processava Galileo e si bruciava Giordano Bruno al solo scopo di difendere il dogma conoscitivo (teocentrico) che garantiva il potere gerarchico della Chiesa romana contro le nascenti istituzioni giuridiche e politiche della modernità, simbiotiche rispetto alla piena realizzazione della rivoluzione scientifica. Oggi il potere centralizzato del complesso militare industriale cerca in tutti i modi di fondare con dogmi pseudo-scientifici (il nucleare come soluzione dei problema energetico) la centralità di quelle istituzioni della modernità che la piena valorizzazione giuridico-istituzionale dei beni comuni (coerente con le frontiere del sapere) minaccia di sovvertire.
Insomma stiamo cominciando a sperimentare le reazioni politiche e ideologiche (brutali quanto il rogo) alla nuova rivoluzione copernicana fondata nella miglior scienza che, muovendo dall’antropocentrismo all’ecocentrismo, finirà quasi certamente per sovvertire gli assetti di potere attualmente dominanti. Di qui la reazione sempre più violenta di un potere centralizzato che si era illuso di non avere più avversari (crollo del Muro) e che invece sembra destinato a crollare perché indebolito dalle trasformazioni rapidissime che stiamo vivendo (tutte catturabili con la metafora della «rete»).
In particolare la rivoluzione energetica fondata sull’autoproduzione diffusa (che rende inutile il complesso militare-industriale) coniugata con l’emergere politico (e poi giuridico) di istituzioni del comune, può saldarsi con le trasformazioni demografiche e con le grandi migrazioni rendendole funzionali (in chiave rivoluzionaria naturalmente) alle esigenze di sopravvivenza del genere umano su questo pianeta.
In questo quadro di trasformazione i beni comuni, che emergono dalle lotte, svolgono diverse funzioni. Essi in primo luogo offrono un vocabolario nuovo necessario per l’emancipazione, che offre piena consapevolezza alle moltitudini di ciò che è «loro». Questo nuovo vocabolario apre la via alla discussione su nuovi scenari di welfare, quali per esempio il «reddito di esistenza» o il «salario massimo» , essenziali per fronteggiare in modo sostenibile gli sviluppi del capitalismo cognitivo, creando le condizioni di una organizzazione sociale fondata sulla qualità della vita (di tutti) e non sull’accumulo (nelle mani di pochi).
Pratiche di riconquista
In secondo luogo i beni comuni costituiscono un cuscinetto capace di difendere risorse – esistenti o in via di generazione, comunque appartenenti a tutti – da ogni ulteriore saccheggio attraverso lo sviluppo di consapevolezza critica e cittadinanza attiva (questa è la funzione essenziale che essi svolgono nell’attuale campagna referendaria italiana).
I beni comuni, infine, possono svolgere, anche sul piano giuridico, un ruolo offensivo e non solo difensivo, legittimando pratiche di riconquista diretta di spazi e risorse (indipendentemente dal titolo formale pubblico o privato del dominio che attualmente li governa) essenziali per lo sviluppo della persona e per la piena realizzazione e rigenerazione di suoi diritti costituzionali fondamentali.
È così per esempio che il diritto costituzionale d’accesso alla casa di abitazione, si può emancipare dal ruolo subordinato alla presenza delle condizioni economiche dichiarate dallo Stato e degli enti chiamati a soddisfarlo come diritto sociale concesso dal welfare pubblico. Nel quadro della funzione giuridica offensiva e della piena declinazione dei beni comuni esso può invece soddisfarsi, tramite occupazione acquisitiva legittimata dalla pubblica necessità, di spazi socialmente percepiti come abbandonati. Il diritto anche in questo caso sgorga dalla fisicità del conflitto e non può esser generato dalla riflessione astratta di chicchessia.
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