Breve storia iconografica della lobotomia – Visual Saturday
La lobotomia è una tecnica psicochirurgica che dal 1890 al 1980 venne usata su decine di migliaia di pazienti. Tecnicamente si tratta di sezionare le connessioni tra la corteccia prefrontale e il talamo, agendo appunto sui lobi. Praticamente causa una vera e propria disumanizzazione: perdità dell’emozionalità, della volontà, apatia. Generalmente si osservava un profondo distacco dalla realtà quasi sempre irreversibile (ma anche incontinenza, paralisi, etc.)
L’erede più vicina alla lobotomia, ancora studiata e sperimentata nei giorni nostri è la “capsulotomia anteriore”, che consiste nel praticare quattro piccole ferite in punti nevralgici del cervello, in una zona denominata appunto “capsula”. Oggi pare di fatto in disuso in Europa, ma è ancora studiata e proposta talvolta come “operazioncina” adatta, (a volte annunciata addirittura come “necessaria”), nei casi più gravi e resistenti alle terapie, ad esempio qui. Studiata e sperimentata anche in italia da professori di grossa taglia che sfoggiano curriculum ricchi di elettroshock e porcherie simili, mal dissimulate da tecnicismi vari. Oltre oceano in autorevoli riviste mediche vengono pubblicati studi sui fantastici benefici della capsulotomia, ad esempio qui.
Tenendo un attimo da parte questi inquietanti studi, la lobotomia in europa oggi viene normalmente utilizzata in forma perfezionata ma solo in casi molto gravi di epilessia, lo stesso mandato coercitivo e spersonalizzante viene assolto compiutamente dagli psicofarmaci (e dalle diverse forme di elettroshock), con il bene placito delle case farmaceutiche che incassano enormi profitti dalla diffusione massiccia di questi prodotti, dentro e fuori dalle istituzioni.
Questo tipo di farmaci è sottoposto ad un continuo perfezionamento tecnico che da una parte li rende meno lesivi fisicamente e maggiormente applicabili in quantità massiccia, consentendo ampi tagli al personale che lavora nei luoghi dove la sofferenza sociale e psichica è più forte. Dall’altra si tratta di un operazione di marketing, quando l’invenzione del nuovo farmaco è preceduta dell’invenzione della patologia.
Si badi bene, non vogliamo proporre una critica aprioristica sull’uso e il consumo di psicofarmaci. Dobbiamo però essere chiari sulla quantità e sulla qualità dei farmaci che sono in circolo, anche solo nel nostro paese. E denunciare con fermezza l’abuso che ne viene fatto, rifiutando la funzione di “tampone sociale” che svolgono: quante volte l’inizio di una farmacoterapia coincide con un avviso di sfratto? O con un licenziamento? O ancora con una reclusione? Spesso questi non hanno altra funzione che quella di alleviare la sofferenza individuale dei drammi a cui la nostra società ci abitua.
Tornando alla lobotomia, tanti sono stati i casi celebri che l’hanno resa una delle tecniche più discusse del XX secolo, uno tra tutti quello di Rosemary Kennedy, descritto nel testo seguente, venne ridotta in stato vegetativo con questa pratica senza riprendersi mai più. Tanti film, libri e materiali vengono pubblicati su questa tecnica abbandonata persino da alcuni dei medici che la inventarono, ma che trovò un successo enorme in vaste fasce di pensatori e medici che la applicarono indiscriminatamente, anche a bambini etichettati come “iperattivi”.
Pubblichiamo questo testo ponendo l’accento sullo scopo ultimo di questa tecnica, che rimane drammaticamente attuale: la demolizione di quei comportamenti considerati “anormali”: aggressività, ansia, agitazione, rifiuto… La demolizione di comportamenti non accettati nella nostra società, spesso maturati come resistenze ad essa.
Nel linguaggio corrente, il termine lobotomia viene troppo spesso utilizzato – impropriamente – per indicare un trauma che avrebbe come conseguenza l’instupidimento e l’apatia di chi lo subisce. Vi sono delle buone ragioni, tuttavia, per aver adottato questa parola e i suoi derivati come metafore di questi stati. Difatti, l’asportazione o la lesione dei lobi frontali può avere ricadute critiche su quelle capacità cognitive che, in qualche modo, sembrano renderci “umani” differenziandoci dagli altri animali: capacità decisionali, linguistiche, di valutazione e soluzione dei problemi sono tutte intimamente legate alle popolazioni cellulari di quella parte dell’encefalo. Inoltre, la cinematografia ce l’ha insegnato, i lobotomizzati sono quei pazienti degli ospedali di un tempo (non si capisce mai quanto remoto) o di una narrazione crudele (come se la realtà dei fatti fosse più caritatevole) che vengono lasciati a loro stessi, come zombie. In realtà, la lobotomia fu una pratica in uso per tutto il XX secolo, diminuendo gradualmente e sparendo solo molto, molto recentemente.
Tutto ebbe inizio al Secondo Congresso Internazionale di Neurologia, tenutosi nel 1935 a Londra, quando i medici e ricercatori John Fulton e Carlyle Jacobsen presentarono al pubblico due scimpanzé, Becky e Lucy. I due medici raccontarono ai loro colleghi come i due animali, in particolare Becky, esibissero segni di «frustrazione comportamentale» (con questo termine si potrebbero intendere circa la metà dei comportamenti dei primati non umani in gabbia, è giusto notarlo) ogni qual volta i due scienziati non le ricompensavano, come conseguenza di un compito sperimentale sbagliato. Tuttavia in seguito alla rimozione chirurgica dei lobi frontali, continuarono Fulton e Jacobsen, gli animali sembravano essere entrati in una sorta di «culto della felicità», caratterizzandosi per obbedienza, docilità e assenza di forti reazioni agli stimoli esterni. Uno tra i medici presenti si alzò, con un certo entusiasmo, e chiese a Fulton cosa pensasse di un’applicazione sui malati mentali. Fulton rispose che, sebbene possibile in pratica, un simile intervento sarebbe stato «troppo formidabile» su un soggetto umano (cfr. Pressman, 2002). Ma ormai, il germe dell’idea era stata gettato.
Se qualcuno di voi ha visitato il Portogallo prima dell’introduzione dell’euro, avrà forse maneggiato la banconota da 10 mila scudi riportata qui sopra: una banconota importante (valevano all’incirca 50 euro attuali), che offre il ritratto di un personaggio importante nella storia del suo paese. Nello specifico, si tratta di quel medico così eccitato per la scoperta di Fulton e Jacobsen esposta al Congresso del 1935. Il suo nome è António Caetano de Abreu Freire Egas Moniz (1874 – 1955), neurologo, e primo portoghese a ricevere il Premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina, nel 1949. Il 1949 fu un anno importante, per i riconoscimenti ufficiali alle neuroscienze: lo stesso Nobel fu consegnato anche a Walter Rudolf Hess (1881 – 1973), autore della mappatura cerebrale delle zone responsabili del controllo degli organi interni. Ma Egas Moniz – torniamo a lui – sebbene nel suo curriculum potesse annoverare l’invenzione dell’angiografia cerebrale, il Nobel del 1949 non lo vinse per i progressi ottenuti nel campo dell’imaging. Al contrario, lo vinse per essere stato il pioniere di quella che sembrava essere una promettente area di ricerca e intervento clinico: la psicochirurgia.
Il termine – che gronda terribili perplessità epistemologiche – è fortunatamente in disuso. La neurochirurgia attuale, sebbene conscia delle ricadute del suo intervento sul comportamento e la cognizione, riconosce il suo campo d’azione nel sistema nervoso. Eppure, fino a pochi decenni fa – parliamo degli anni ’80 del XX secolo – in Occidente non era impossibile trovare qualcuno disposto ad ammettere la possibilità di intervenire attraverso la chirurgia direttamente sulla “mente”. In accordo con la filosofia della medicina dell’epoca, era assolutamente concepibile operare (strictu sensu) il cervello per curare il comportamento. E infatti, come recita l’attribuzione del Nobel, Egas Moniz fu premiato per “la scoperta del valore terapeutico della leucotomia in alcune psicosi“.
Cos’è la leucotomia? L’etimologia già suggerisce molto, poiché il termine deriva daleuco, “bianco” e tomos, “tagliare”. Ecco come la introduce il suo inventore nell’articolo Leucotomia prefrontale nel trattamento dei disordini mentali (1937): «L’idea era di operare sui cervelli dei pazienti, non direttamente sui gruppi di cellule della corteccia o di altre regioni, ma piuttosto interrompendo le fibre connettive tra le cellule dell’area prefrontale e le altre regioni, cioè sezionando la materia bianca subcorticale» (p.37).
In pratica, recisione della materia bianca, i fasci di assoni che permettono la comunicazione tra neuroni. Egas Moniz ammette che l’intervento può essere considerato audace, e che l’ipotesi di fondo possa essere messa in discussione: ma è convinto che tutto questo può tranquillamente essere portato in secondo piano, davanti agli immensi benefici dell’operazione: d’altra parte, si può affermare – sostiene Moniz nello stesso articolo – che «queste operazioni non pregiudicano la vita fisica o psichica del paziente […] Alcuni sintomi sono stati osservati in seguito all’intervento nell’area prefrontale, sia dal punto di vista neurologico che mentale […]. Comunque, questi disturbi sono transitori e nessuno di questi sintomi è persistito oltre pochi giorni o settimane. Due o tre dei pazienti della prima serie sono rimasti in qualche modo apatici, ma anche in questi casi vi sono alcuni dubbi che sia effetto dell’operazione, perché la personalità del paziente non era ben nota prima dell’operazione» (ivi) [scusate l’ultimo grassetto. So che è off topic ma proprio non ce l’ho fatta, è troppo un arrampicata sugli specchi].
Inoltre, comunica Egas Moniz, anche la tecnica è migliorata: se prima si utilizzava un’iniezione di alcol nella zona obiettivo, adesso si procede alla distruzione meccanica della materia bianca attraverso un efficiente e precso leucotomo, vale a dire lo strumento che vedete nella foto.
L’intervento veniva praticato attraverso una trapanazione preventiva del cranio, da cui accedere per distruggere le fibre connettive obiettivo. Cortesemente, Egas Moniz et alii forniscono differenti istruzioni visive per procedere all’operazione, come l’immagine riportata qui sotto.
Bisogna spezzare una lancia in favore di Egas Moniz, comunque, contestualizzandolo nel suo momento storico. Prima dell’ingresso degli antipsicotici e delle psicoterapie, i disturbi mentali venivano trattati nelle maniere più impressionanti possibili:elettroshock, convulsioni indotte da cardiazolo, sonno obbligato, prolungato di giorni o settimane tramite la somministrazione di barbiturati, si iniettava persino la malarianei pazienti affetti da demenza paralitica. In un simile scenario, la leucotomia non sembrava neanche così pericolosa (al contrario, aveva un che di asettico, preciso, letteralmente “chirurgico”). Direte: la storia finisce qui, non appena ci si è resi conto di quanto fosse inumano aprire la testa di qualcuno per curare il suo disagio mentale. Finisce, è lecito pensarlo, non appena la chimica ha fornito alla neurofarmacologia gli strumenti adatti a intervenire in maniera non invasiva. Anime candide. Non tenete conto del più grande catalizzatore e trasformatore di idee scientifiche della prima metà del XX secolo: la comunità scientifica americana.
Tutte le allucinanti terapie citate nel paragrafo precedente vengono chiamate in gergo medico “terapie eroiche“. Questo deriva a sua volta dal termine “medicina eroica“, un sarcastico (ma solo a posteriori, sia chiaro. All’epoca, si ritenevano davvero eroi) riferimento alle pratiche in uso da alcuni medici del XVIII e XIX secolo. Soprattutto statunitensi, visto che il padre della medicina made in USA, il patriota Benjamin Rush (1746 – 1813) che vedete ritratto qui sopra, fu sempre un forte sostenitore di questo approccio alla scienza terapeutica (nonché il padre della cosiddetta “terapia morale” in psichiatria, ma questa è un’altra brutta storia). Alla base di questo paradigma vi era la fiducia nel fatto che una terapia shock, funzionalmente aggressiva, potesse annichilire il male e curare il paziente. Le pratiche più diffuse e note, a livello di medicina generale, erano il dissanguamento terapeutico attraverso l’applicazione di sanguisughe o incisioni, la somministrazione di calomelano, arsenico, sali di mercurio. Come esempi, dovrebbero bastare per farsi un’idea dei danni provocati dagli stessi medici, ben oltre la stessa malattia dei pazienti. Ma voi direte: che c’entra, Egas Moniz era portoghese. E avete ragione. Ma il dottor Walter Jackson Freeman(1895 – 1972), suo ideale pupillo ed erede scientifico che vedete qui sotto, no.
Freeman fu il primo a modificare la procedura ideata da Moniz, ribattezzandolalobotomia. Nel 1936, Freeman operò, assistito dal suo collega James Watts (1904 – 1994) il primo intervento del genere negli Stati Uniti d’America. Nel 1942, la coppia pubblicò il resoconto delle più di 200 operazioni eseguite fino ad allora nel volumePsychosurgery. Intelligence, Emotion and Social Behavior Following Prefrontal Lobotomy for Mental Disorders. Tuttavia, lo spirito da ricercatore e psicochirurgo di Freeman non poteva accontentarsi di portare in auge una tecnica senza sottoporla a ulteriori modificazioni. E in questo venne aiutato dalla lettura di uno scritto di un semisconosciuto psichiatra italiano, Amarro Fiamberti. Già, perché le tecniche di psicochirurgia avevano spopolato nell’ambiente della psichiatria italiana (lo stesso Moniz fu invitato nel Belpaese a insegnare e dimostrare pubblicamente la sua tecnica: confronta Psychosurgery in Italy di Kotowicz, 2008), e già nel 1937, Fiamberti aveva ideato e pubblicato un’importante modifica della procedura originaria, espressa nell’articolo Proposta di Tecnica Operatoria Modificata e Semplificata per gli interventi alla Moniz sui Lobi Prefrontali in Malati di Mente, apparso nella Rassegna di Studi Psichiatrici di quell’anno.
In che consistevano le modifiche e le semplificazioni introdotte da Fiamberti? Semplice. Considerando bene, sosteneva lo psichiatra italiano, non vi era alcun bisogno di incidere il cranio, per arrivare alla zona da recidere. Semplicemente sfruttando l’anatomia dell’encefalo, era possibile passare per le orbite oculari con lo strumento, intervenendo direttamente e rapidamente attraverso quel canale naturale verso i lobi frontali. Freeman riprese e ampliò l’originale modifica di Fiamberti. Ed ecco a voi la nascita della lobotomia transorbitale.
Il know-how, per chi non l’avesse capito, è descritto per immagini nella foto che segue.
Va da sé che, modificando l’intervento, dovevano essere modificati anche gli strumenti per eseguirlo. A tale scopo, Freeman inventa nel 1948 l’orbitoclasto. Significativamente, la base per la creazione di questo strumento furono alcuni esperimenti domestici compiuti dallo stesso Freeman (su grappoli d’uva, non su esseri umani, eh) attraverso un punteruolo da ghiaccio. Per questo motivo, nella cultura popolare americana, la lobotomia è anche nota come ice pick therapy.
Negli anni ’40, la lobotomia transorbitale si diffuse con tanta energia che si passò dai 500 ai 5 000 interventi eseguiti ogni anno nei soli Stati Uniti. Apparentemente, la psichiatria aveva trovato uno strumento ideale per gestire, con precisione ed efficienza, i suoi incubi peggiori, e Freeman era l’esperto mondiale di questo intervento.
Uno dei casi più famosi (sempre a posteriori) di Freeman fu quello di Howard Dully, nella foto qui sopra. Dully aveva solo 12 anni quando Freeman, nonostante il parere contrario di altri psichiatri, gli diagnosticò una schizofrenia giovanile, acconsentendo a operare su di lui (su insistenza della matrigna) un’inutile lobotomia transorbitale (di cui vedete, al termine di questo paragrafo, gli effetti immediati). Fortunatamente – probabilmente solo per il fatto di aver subito una tale lesione in una così giovane età – Dully riuscì a riprendersi lentamente dall’intervento, ritornando a poter avere una normale vita in società. Santa neuroplasticità, benedette strategie di compensazione, impagabile riciclaggio neuronale.
La lobotomia in America divenne così popolare da essere pubblicizzata apertamente come comodo rimedio ai più diffusi casi di disagio mentale. Ad esempio, nel numero 105 dell’American Psychiatric Journal il supporto alla pratica della lobotomia viene propagandato attraverso l’accostamento artificioso di due foto della stessa donna, una paziente affetta, recita la didascalia, da schizofrenia catatonica. In una foto possiede ancora un encefalo integro, ed è sottoposta a elettroshock; nella successiva, è lobotomizzata. Chiaramente, l’unica differenza visibile è una sciatteria evidente nella prima immagine, e un rassicurante sorriso da madre media americana nella seconda. In altre parole, suggestioni context-dependant per insinuare subdolamente l’efficacia della lobotomia, in accordo con le aspirazioni alla tranquillità e alla normalità della borghesia americana. Per non parlare del sessismo tipico della stragrande maggioranza della comunicazione psichiatrica. David Rosenhan, ora pro nobis.
Sebbene la lobotomia come pratica psichiatrica coinvolse pazienti di entrambi i sessi, non vi è dubbio che il solito bias della disciplina nei confronti delle donne fu significativa. Basterebbe forse citare il caso di Rosemary Kennedy (1918 – 2005), sorella di John Fitzgerald, lobotimizzata in risposta a un comportamento che oggi verrebbe etichettato al più come “disturbo bipolare”. Alla fine, comunque, la paziente più famosa sarà Helen Mortensen (la vedete sotto i ferri in una delle foto sopra), che in seguito alla richiesta di una terza lobotomia, praticata dallo stesso Freeman, morì in seguito all’intervento, eseguito nel 1967. Questo segnò la fine della carriera di Freeman, o almeno fu il motivo ufficiale del suo ritiro dalla professione di medico. Dopo decine di migliaia di vittime in tutto il mondo, la lobotomia cessò gradualmente di essere praticata: ma fu solo con l’avvento dei “bisturi chimici” della psichiatria, cioè gli antipsicotici (e in particolare, la torazina) a partire dagli anni ’50 del XX secolo, che questo fu possibile. Bisognerebbe chiedersi il perché. Ma questa è un’altra – brutta -storia.
Riferimenti bibliografici
Fiamberti, A. (1937). “Proposta di Tecnica Operatoria Modificata e Semplificata per gli interventi alla Moniz sui Lobi Prefrontali in Malati di Mente”. In Rassegna di Studi Psichiatrici, 26: 797.
Freeman, W.J., Watts, J. (1942) Psychosurgery. Intelligence, Emotion and Social Behavior Following Prefrontal Lobotomy for Mental Disorders.Yale Journal of Biological Medicine, 14(5):561–562.
Kotowicz, Z. (2008). “Psychosurgery in Italy, 1936-39″. In History of Psychiatry, 19(4):476–489
Moniz, E. (1937). “Prefrontal Leucotomy in the Treatment of Mental Disorders”. In American Journal of Psychiatry, 93:1379-1385.
Oltman, D. et al. (1949). “Frontal Lobotomy Clinical Experience with 107 Cases in a State Hospital”. In American Psychiatric Journal, 105, 10:742-751.
Pressman, J.D. (2002). Last Resort: Psychosurgery and the Limits of Medicine, Cambridge University Press: Cambridge.
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