Capitalismo, rivoluzione, violenza della polizia. Intervista con un ex-militante del Black Panther Party
Vi proponiamo una lunga intervista realizzata nel maggio del 2015 con Jihad Abdul Mumit, membro dell’associazione Jerico Movement, fondata nel 1988 da prigionieri politici negli Stati Uniti per chiedere il rilascio dei compagni ancora detenuti. Jihad ha passato 23 anni in prigione per la sua militanza nel Black panther party e nella Black liberation army, in particolare è stato accusato di aver compiuto due espropri di banche per finanziare l’organizzazione.
La chiacchierata con Jihad è stata l’occasione per raccontare il suo percorso militante ma anche affrontare diversi nodi molto attuali. È stata un’intervista emozionante e ci ha molto colpiti la tensione verso il presente di questo vecchio militante, la profondità delle sue analisi, la voglia di mettersi ancora in gioco, la chiarezza delle intenzioni unita a una capacità di vedere le contraddizioni che ci circondano in tutta la loro ricchezza.
Nonostante l’intervista sia stata registrata più di un anno fa – eravamo a poche settimane dalla morte di Freddie Gray e nel momento dell’esplosione del movimento Black lives matters – ci sembra aver conservato tutta la forza di un punto di vista importante e di una testimonianza preziosa.
Partiamo dall’attività del Jerico movement. Quanti prigionieri politici ci sono in questo momento negli USA?
È una domanda difficile, noi rappresentiamo in questo momento circa 55 prigionieri, ma ci occupiamo solo dei prigionieri che vengono da quel periodo specifico, che avevano una precisa ideologia e una strategia per portare un cambiamento rivoluzionario nella società. Non posso quindi rispondere perché ci sono tanti tipi di prigionieri politici, oggi ce ne sono tantissimi, in particolare dopo l’11 settembre, anche se molti di loro sono pure e semplici vittime. Vittime della sorveglianza della polizia, di trappole, di quadri interpretativi, gente che ha semplicemente dato soldi ad associazioni o che non ha fatto proprio nulla. Ce ne sono probabilmente centinaia di prigionieri politici. Noi li riconosciamo tutti ma Jerico ha la capacità organizzativa di occuparsi solo di una parte specifica di essi.
Hai vissuto un periodo molto intenso di lotte che si cerca semplicemente di rimuovere dalla memoria collettiva, un po’ come succede in Italia. Cosa ha rappresentato questo periodo per te?
Nel 1970, quando avevo 16 anni (ne ho 60 oggi quasi 61) mi sono unito al Black Panther Party. La situazione che vediamo oggi negli USA, ossia la brutalità della polizia, il razzismo, tutto ciò esiste veramente dall’epoca delle piantagioni schiavistiche, da secoli. L’essenza è rimasta la stessa. C’è stata qualche riforma certo ma la cosa continua ancora oggi, come abbiamo visto a Ferguson, a Los Angles, New York e ora a Baltimora.
Io ho raggiunto il BPP perché per me rappresentava un’organizzazione con un’ideologia solida che portava una visione del cambiamento negli USA, sfidando il capitalismo. Il BPP era un’organizzazione marxista-leninista. Anche se ci concentravamo principalmente sulla gente nera, la questione per noi era costruire una nuova società. Una cosa che facevamo per esempio era questa. Quando qualcuno stava subendo un arresto, le pantere arrivavano e si assicuravano che questa persona potesse beneficiare dei suoi diritti, che non fosse brutalizzata dalla polizia. A quest’epoca portavamo apertamente armi perché la legge statunitense lo permetteva a differenza di ora. Era piuttosto facile ottenere fucili e altre armi. Immaginati la scena. C’è qualcuno che viene spintonato dalla polizia. Un gruppo di persone arriva e gli spiega i suoi diritti. E sono armati. La polizia la odiava questa cosa. Capisci l’antagonismo. Noi cercavamo di spiegare alla comunità i loro cosiddetti “diritti legali” (legal rights) in un sistema capitalista. Ma anche i loro diritto alla autodifesa.
Avevamo anche programmi di sopravvivenza, per dare un’idea di cosa sarebbe sembrata una nuova società dove si lavora collettivamente insieme. Avevamo il breakfast program, il feeding the poors, il clothing program, avevamo i nostri programmi scolastici, le nostre Liberation schools, cliniche mediche per occuparci dei problemi di salute che la povera gente poteva avere. Nei miei ricordi era proprio un costruire una nazione (nation bulding), costruire una nuova società. E durante questo processo premunirsi contro la repressione dello Stato e della polizia. C’erano anche altre organizzazioni che lo facevano. Molte di queste organizzazioni erano cultural-nazionaliste…
Come il Nation of Islam…?
Il Nation of Islam era solo per le persone nere, per una Nazione nera. Questa non era la posizione del BPP. E penso che la giustezza di quella posizione è ben chiara oggi. Anche in quell’epoca, in cui il razzismo e le segregazioni nella società erano così forti, un’epoca cui vedevamo bene che la gente nera costitutiva una nazione a parte in un certo senso – con la sua cultura, con le sue espressioni idiomatiche, con le sue maniera di fare e tutto ciò che costituisce una cultura – riuscivamo comunque a renderci conto che l’America diventava un paese sempre più integrato in cui la gente si mischiava. E sarebbe stato un errore pratico e ideologico pensare di costruire una nuova società in uno spirito di separazione e ciò è ancora più giusto oggi. Io credo fortemente che non puoi separare la gente, è irrealistico e impraticabile. Ciò non succederà mai. È lo Stato che ti divide, perché è uno Stato razzista, il loro obiettivo è metterti contro la persona che ti sta accanto. Per di più, pensare una nuova società separata penso aprirebbe la strada alla violenza civile, lo vediamo in tanti paesi. E così le persone non combattano più contro lo Stato, combattono tra di loro invece di combattere uno Stato che ruba le loro risorse.
Comunque per rivenire alla domanda che mi facevi, ciò che faceva il BPP, anche attraverso le armi, era costruire una nuova società, educare le persone, mobilitarle, organizzarle anche attraverso un’organizzazione militare, perché all’epoca credevamo nella lotta armata.
Che differenza vedi tra la situazione di allora e quella di oggi?
Osserviamo le stesse identiche condizioni di allora oggi. Persone prese di mira dalla polizia, uccise dalla polizia. Ma ora sembra che la gente sia ben più confusa su ciò che bisognerebbe fare vista la mancanza di leadership. Non c’è nessuna avanguardia che sappia interpretare la situazione, ideologicamente, e portare la gente verso una direzione rivoluzionaria. Ti dico ciò che vediamo ora. E non lo dico come critica, faccio solo una constatazione, non è per dire “bisognerebbe fare così o colà”, non credo sia la buona maniera di fare, le cose stanno come stanno, a volte serve una vita intera per apprendere la direzione da seguire. Comunque ciò che vedo è che la gente reagisce emotivamente con la frustrazione, il disgusto e la rabbia rispetto alla situazione che vivono. I quadri politici oggi sono talmente riformisti che non riescono nemmeno a formulare una critica adeguata contro il governo, una critica che suggerisca che bisogna davvero cambiare la struttura della società. Penso che quindi molti delle sorelle e dei fratelli più giovani sono molto frustrati, vedono ribellioni che cominciano come a Baltimora e che la leadership nera critica la rivolta dicendo che stai distruggendo il tuo stesso quartiere.
In realtà queste rivolte sono davvero appassionanti perché se non fosse stato per loro, per le persone che sono scese in piazza spaccando tutto non staremmo seduti qui con te mi stai chiedendo di tutto questo. Perché non sapresti neanche di Freddy Gray, di Michael Brown. Quando c’è casino, la gente dice “Toh, hai visto cosa sta succedendo da quelle parti? Quel fuoco non ci piace proprio…”, senza tutto questo leverebbero l’ennesimo corpo dalla strada e sarebbe solo un altro nero morto ammazzato. Poi c’è gente che non capisce e dice “Ma perché non vanno a dar fuoco ai quartieri della classe media?”. Beh per prima cosa il quartiere a cui stai dando fuoco non è mica il tuo, ti autorizzano solo a viverci, non possiedi proprio nessuna proprietà lì. Magari qualcuno sì e sono tipo “oh mio Dio, il mio palazzo!” ma davvero non c’è nessun tipo di proprietà della comunità (community ownership). Per seconda cosa, se cerchi di oltrepassare la linea che ti porta in un altro quartiere ti mandano contro l’esercito, te lo garantisco, il governo ha imparato la lezione dalle rivolte degli anni ’60. Potrebbe succedere, certo, ma di sicuro ti sparerebbero contro. Io penso che la gente questa cosa sappia.
In ogni caso, credo che queste rivolte debbano essere usate in maniera intelligente, per far svegliare le persone, far loro capire come stanno le cose e magari arrivare a una coscienza più rivoluzionaria. Una coscienza rivoluzionaria di oggi, che probabilmente non sarebbe come quella degli anni ’60 o ’70 ma propriamente contemporanea.
Negli anni ’60 e ’70 una delle questioni centrali era quella dei diritti civili e dell’uguaglianza. Almeno in senso formale ci sono stati diversi passi avanti, oggi c’è un presidente nero, etc. ma sembra veramente che la contraddizione razziale sia impossibile da assorbire per il capitalismo statunitense e a volte, come nella violenza della polizia, si manifesta in maniera palese. Come vedi questa evoluzione?
Ottima domanda. Comincio col dire una cosa. Il movimento per i diritti civili era il riflesso dello schiviamo. Ci sono state generazioni di schiavi ed era assolutamente naturale per le persone cominciare dal pensare che questo era anche il loro paese. È naturale. E non sarà stato qualcosa di ideologicamente corretto, magari sarebbe stato più corretto pensare di costruire il proprio paese, di riconoscersi contro quello esistente, ma comunque era una pensiero naturale! Coltivi la tua terra, la tua famiglia è qui, tu sei qui e dici finalmente: “Questo è il mio paese”. Io questa cosa la capisco. La linea di pensiero del movimento dei diritti civili era quindi quello che bisognava veramente lavorare nella direzione dell’essere accettati. Per riformare le cose, “c’è qualcosa di sbagliato qui, allora proviamo a ripararlo – non a sradicarlo, non a rovesciarlo – proviamo a ripararlo per beneficiare finalmente di ciò che abbiamo costruito lavorando così duramente. Perché siamo stati qui per 200 anni”. Io veramente questa cosa la capisco, capisco benissimo come una persona possa pensare in questo modo. Non sono d’accordo ma lo capisco. Questo pensiero e questo marciare tutti insieme in strada, c’è voluto tanto coraggio. Serviva anche tanta disciplina, per stare lì a prendersi le botte mentre la polizia ti picchiava in un periodo in cui c’erano linciaggi, omicidi, rapimenti e torture. La gente veniva ritrovata in fondo al fiume, impiccata a un albero o bruciata viva. Era questo che succedeva in quel periodo. E c’è stato uno sforzo costante del movimento per i diritti civili, con questi cortei che restavano relativamente pacifici, per riformare il sistema americano perché i neri potessero essere accettati e godere dei vantaggi di quella società.
Grazie a questo sforzo costante immagino che fosse solo una questione di tempo prima di avere un presidente nero. Perché il pensiero della struttura del potere è per prima cosa “se non puoi batterli unisciti a loro”. Unisciti a loro nel senso influenzali. E il sistema si assicura che chiunque arrivi a certe posizioni di potere pensi esattamente come facevano quelli prima di lui. Che sarà anche lui una marionetta. E tutti sono contenti. Dicono: “Voi avete un presidente nero, noi non dobbiamo più preoccuparci di un vero cambiamento”. Capisco che ciò può suonare un po’ semplice, probabilmente anche semplicistico perché ovviamente c’è una contraddizione in ogni cosa, anche in questa strategia del potere ci sono possibili antagonismi. Per esempio una cosa forse positiva di un presidente nero è che costruisce orgoglio e autostima. Ma comunque resta un presidente che rappresenta gli interessi del governo degli Stati Uniti. Ogni presidente di sicuro ha la sua maniera di fare ma all’interno di questo progetto. La destra lo odia ma non ha certo paura di Obama. Sì magari qualche cretino di estrema destra pensa che sta cambiando tutto, ma i conservatori che hanno i piedi per terra sanno benissimo che non sta cambiando proprio nulla. E tanto tra qualche mese sarà storia vecchia. Non si preoccupano perché si preoccupano solo dei cambiamenti nelle relazioni economiche e queste non stanno cambiando granché, Obama rappresenta comunque la struttura di potere della classe media.
Su un livello sistemico, a tuo parere, qual è il ruolo della persistenza delle divisioni razziali nel mantenere e perpetuare il modello economico americano oggi?
Questo è il punto. Per me qui tocchiamo il centro della questione rivoluzionaria. Se non si cambia il sistema economico i problemi resteranno. E purtroppo quindi io penso che resteranno per tanto tempo.
Sono forse cinico e pessimista ma guardo le lotte in giro per il mondo e i movimenti rivoluzionari, come si sviluppano, osservo le loro contraddizioni e c’è una cosa che veramente mi tocca nel profondo: è la questione dell’uguaglianza anche all’interno delle stesse forze progressiste o rivoluzionarie. Fammi essere diretto e chiaro quanto la tua domanda. Ti dico solo la mia opinione. Con le politiche riformiste a cui assistiamo oggi questo genere di problemi resteranno esattamente lì dove sono perché il sistema non cambia. Quelli che sono al potere controllano le ricchezze del mondo – e non parlo solo degli USA –, le cose non cambieranno finché non ci sbarazzeremo di loro, li ammazzeremo, li rovesceremo, li elimineremo dalla faccia della terra e fonderemo una società completamente nuova. Altrimenti questi problemi resteranno sempre gli stessi. Altrimenti rimbalzeremo solo tra diverse situazioni, a volte sembrerà che le cose vanno un po’ meglio ma poi ci accorgeremo che le cose restano comunque le stesse. E infatti probabilmente le cose resteranno così per tanto tempo. Voglio dire… la via rivoluzionaria…. ciò mi tocca nel profondo, mi considero io stesso un rivoluzionario, un compagno che ha militato in tante organizzazioni e ho avuto l’occasione da questo punto di vista di vedere, di capire, di pensare e conoscere tanta gente e penso che al nostro interno abbiamo tanto lavoro da fare. Abbiamo tanti problemi. Problemi di potere. E mi fa paura l’idea di una forza rivoluzionaria che arriva al potere e diventa più oppressiva di quanto Bush o Obama potrebbero mai essere. Si rischia di portare la gente verso uno Stato davvero cattivo. Forse vacillo un po’ nelle mie convinzioni. Per esempio abbiamo questa barzelletta nella nostra associazione, Jerico. Diciamo che agiamo nella maniera più radicale possibile all’interno del riformismo. Cioè… quello che penso è che il problema della rivoluzione pone anche il problema della reazione. A causa della mancanza di maturità a cui ci troviamo di fronte. Ripenso a ciò che è successo alle pantere. A come ci siamo battuti tra di noi, come ci siamo ammazzati tra di noi! Voglio dire l’obiettivo era il governo avevamo il nostro programma e BANG! BANG! ci siamo sparati contro tra di noi senza manco pensarci. Mi rendo conto di quanto è stato brutto ucciderci tra di noi e giustificarlo nel nome della rivoluzione.
La lotta rivoluzionaria dev’essere strutturata in modo da mantenere l’integrità delle tue convinzioni ideologiche ma allo stesso tempo dev’essere un modo per prepararsi, per crescere, per diventare gente diversa che fa cose diverse, per avere abbastanza conoscenze da controllare le risorse in caso arrivi al potere, per essere abbastanza maturi e abbastanza rispettosi, ripeto RISPETTOSI abbastanza per riuscire a tollerare e lavorare con altri gruppi rivoluzionari e non ucciderci a vicenda. Quando fai una rivoluzione e non hai padroni, dovresti capire come fornire acqua potabile, assistenza medica, gli stessi standard di vita. Non pensare a queste cose credo sia un errore pericoloso.
Inoltre la psicosi dello schiavismo ha creato così tanto rabbia che io, davvero sono una persona pacifica ma se mi girasse male mi verrebbe più facile ammazzare te piuttosto che i poliziotti, gli oppressori! Perché saresti un obiettivo talmente più facile. Ci portiamo dietro secoli di sofferenza e dolore, secoli di dolore, sofferenza e frustrazione. Dal di fuori posso sembrarti gentile ma dentro sono teso come una molla. E questo cosa uscirebbe fuori, ne sono convinto al cento per cento.
Cioè veramente queste cose te le dico come una liberazione, mi levo un po’ un peso. Davvero sono cose a cui tengo perché io credo nella lotta rivoluzionaria e nel cambiare radicalmente la società, quindi guardo allo stato di cose presenti di ciò che amo
C’è sicuramente il fatto che l’ipotesi comunista rispetto a quarant’anni fa è immensamente più debole. Però c’è da calcolare il fatto che oggi non c’è spazio politico neanche per il riformismo, non ci sono possibilità di ridistribuzione, per esempio all’interno di un sistema di welfare. Forse è per questo negli USA siamo davvero passati da un sistema di stato sociale a un sistema di stato penale. Alla fine è una conseguenza dell’assenza di ipotesi rivoluzionaria, del fatto che quelli che stanno sopra non hanno più paura e sentono che ormai possono anche evitare di lasciare le briciole. Ormai c’è solo la repressione e così la prigione diventa qualcosa di centrale e non più marginale nella gestione della società. Le statistiche sulla proporzioni di neri che sono in prigione negli USA è assolutamente impressionante. E se pensiamo agli USA come alla punta più avanzata delle tendenze del capitalismo mondiale vediamo che questa stessa tendenza sta anche arrivando in Europa, pensiamo solo al numero di migranti in prigione o nei centri di detenzione.
La mia domanda è sul come e perché, secondo te, la repressione è diventata così centrale nel governare la povertà, in particolare dei neri?
Le prigioni sono una maniera di controllare la popolazione nera, disarticolare le comunità nere e le famiglie, indebolirne la forza, sfruttare le persone col lavoro manuale e captarne la ricchezza. La prigione è un grande aiuto per le strutture di potere e per difendere lo status quo. E hai ragione, oggi ci sono tra i due e i due milioni e mezzo di persone che si trovano in prigione negli USA, un paese che ha il 5% della popolazione mondiale ma il 25% della popolazione carceraria mondiale. E questa popolazione carceraria è costituita tra il 46% e il 49% di neri (quando i neri rappresentano solo tra il 14% e il 15% della popolazione statunitense). La sproporzione dei neri in prigione è veramente sintomatica della debolezza della nazione nera in quanto tale. È fondamentale per le strutture di potere avere queste prigioni e questi istituti per estrarre lavoro e distruggere l’unità delle famiglie all’interno della comunità. Gli Stati Uniti sono uno stato di polizia.
C’è questo compagno molto conosciuto, George Jackson, membro delle BP che è stato ucciso dai secondini in carcere dopo una decina d’anni di detenzione. E ha scritto diversi libri, tra cui “lettere dal carcere” e poi questo libro fondamentale “Col sangue agli occhi”. In quel libro fa un’analisi molto giusta. La forma più forte del fascismo non sono i militari nelle strade, che è una cosa di cui ti rendi conto, ma il fatto di essere riusciti a indottrinare la gente a un punto tale che essi diventano la loro propria polizia. Che fanno la spia, che ti denunciano, che faranno senza rendersene conto il lavoro dell’oppressore. Tutto ciò è una forma molta forte e sofisticata di fascismo.
Il sistema delle prigioni in un certo senso è il sistema delle piantagioni: i guardiani sono neri. In tante prigioni i secondini, i sorveglianti, gli assistenti sociali sono tutti neri. È una cosa che puoi vedere praticamente ovunque. Sono tutti neri e fanno il lavoro sporco delle strutture di potere. Non hanno alcuna coscienza e sono politicamente pericolosi, è davvero fenomenale. Io ho passato 23 anni in prigione perché facevo parte del Black Panther Party ma anche della Black Liberation Army. Sono stato condannato per due espropri di banche. Mi hanno dato in tutto 43 anni, dopo 23 anni sono uscito. Sono tornato a casa nel 2000 con la condizionale. Gli ultimi sette anni di pena mi hanno davvero illuminato su come funziona il sistema giudiziario e penale americano. Ho sempre saputo che quando fossi uscito sarei uscito con la condizionale (on parole). Quindi negli ultimi sette anni ho fatto un’attività di assistenza ai detenuti sieropositivi. Quando sono tornato a casa ho trovato questa opportunità di lavoro per fare assistenza ai sieropositivi e mi hanno assunto. In seguito, mi hanno proposto di andare nelle carceri. E ho detto loro “Cosa? Voi siete matti!” ma alla fine ho accettato. E quindi sono ricominciato ad andare nelle prigioni e ne ho viste tantissime per il mio lavoro, mi assicuro che detenuti sieropositivi abbiano le medicine, l’assistenza medica, etc. Sono tutti neri. I prigionieri sono neri. I secondini sono neri. Gli assistenti sono neri. E allora mi sono detto: possediamo la nostra piantagione! Fatto salvo che non possediamo il sistema. Noi facciamo i lavori più umili. Il livello di coscienza tra le guardie è così apolitico e pro-sistema che ti devi pizzicare per controllare di non star sognando tutto.
Per me c’è un collegamento tra il sistema delle piantagioni e un sistema di controllo così avanzato da assicurarsi che noi ci auto-controlliamo. Non c’è’ mai stato un esempio migliore del sistema penale che vede guardie nere e latine che controllano e picchiano altri schiavi. Io sono stato picchiato più volte in prigione dai secondini, e la volta che sono stato picchiato più duramente, a dirigere la violenza c’era un tenente nero. Per me comunque il sistema penale è veramente il riflesso preciso di questo modello di controllo delle comunità nere.
In generale, c’è un’illusione che ti permette di esprimere dissenso negli Stati Uniti e quell’illusione è basata sul fatto che il governo ti permette concede il diritto di manifestare Ma questo permesso è necessario perché la struttura di potere si mantenga com’è. L’attivista e comico Dick Gregory faceva questo esempio: la gente che manifesta è come la valvola di un bollitore. L’acqua bolle e ti permettono di manifestare solo come sfogo, come una valvola che continua sempre a fischiare e permette all’acqua di continuare a bollire e restare dov’è. Il sistema ti permette di manifestare perché così può far vedere al mondo che siamo in democrazia, che la gente lo può fare, ma se causi troppi problemi ti possono eliminare chirurgicamente, uccidere o sbattere in prigione. Ma principalmente la gente può sfogarsi perché se non lo permettessero, come succede in molte nazioni, dove esiste una forma di repressione assoluta, sarebbe come mettere un dito sulla valvola di sfogo e in quel caso sappiamo che cosa succede: BUM! Ci sarebbe una gigantesca esplosione che sarebbe la lotta rivoluzionaria, forse addirittura una rivoluzione! E se fosse, come dicevamo prima, matura, saggia e abbastanza aggressiva da portare un cambiamento positivo le cose cambierebbero. Negli Stati Uniti, che sono una superpotenza dal momento che ha risorse e può fornirti beni materiali nella povertà, la gente può sfogarsi: “prendiamo quella roba, hanno ammazzato Freddie Gray!…”. Ti permettono di farlo, restano a guardarti ma quando esageri ti reprimono un poco, ma stanno a guardarti mentre distruggi un paio di macchine. Così funziona. Lo fanno apposta e hanno il lusso di farlo perché sono una superpotenza che ha risorse da fornirti al punto che nella tua povertà tu possa avere uno schermo piatto a casa tua nel ghetto, uno smartphone nonostante tu sia un senzatetto.
Come diceva Malcom X puoi essere molto povero ma hai ancora delle cose materiali che ti rendono la vita facile, ti guardi un film, ti mangi il pop-corn, ti diverti anche nella tua povertà. E poi c’ è la speranza di avere di più, indotta tramite la pubblicità, con il gioco d’azzardo. È come avere una carota davanti a te, ti dici “magari un giorno quello sarò io”. Ti danno abbastanza da farti sentire soddisfatto anche quando sei povero, così quando altri Freddie Grey vengono ammazzati, scendi in strada, sei arrabbiato ma in fondo alla tua testa – non voglio sembrare cinico, e non voglio generalizzare – non vuoi perdere quello che possiedi in favore di un futuro sconosciuto di lotta per la rivoluzione. Non conoscevo nemmeno Freddie Gray… è come se capissi di averne avuto abbastanza e magari sei coinvolto emotivamente, ma queste emozioni non sono quelle che producono una lotta durevole, e sostenuta alla quale ti vuoi dedicare intensamente.
Va sempre valutato il fatto che il 99% delle persone che scende in strada ha una visione riformista di ciò che fa, magari di riforma radicale anche attraverso la violenza. Ma per me c’è comunque una differenza tra l’affrontare semplicemente la polizia e farlo in maniera rivoluzionaria. Questo far fronte alla polizia di questi giovani è semplicemente l’essere umano, il dire “Non potete più ucciderci, mettiamoci insieme per essere sicuri che non lo farete più”. Ecco cos’è. Ed è una cosa forte! Ma è diverso del dire “Non potete più farlo ecco perché ci sbarazzeremo di questo sistema e costruiremo il nostro”.
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