Cartografie di valorizzazione e conflitto a Bologna
Pubblichiamo l’introduzione a cura del Laboratorio Crash! all’ebook di prossima pubblicazione “Città, spazi abbandonati, autogestione”, esito del convegno tenutosi a Bologna il 3 ottobre 2017.
Mappe di rotte sovversive
Questo ebook nasce in seguito al convegno “Città, spazi abbandonati, autogestione” organizzato il 3 ottobre 2017 a Bologna. L’iniziativa era stata promossa dal Laboratorio Crash! in seguito allo sgombero di uno spazio che era stato occupato a marzo del 2009, esito a suo modo vittorioso di una lunga battaglia contro l’amministrazione Cofferati fatta di innumerevoli occupazioni e sgomberi.
Ripensando retrospettivamente agli anni trascorsi dall’occupazione, ci siamo resi conto che la parola “centro” (sociale) era forse inappropriata per descrivere tale fenomeno. Il Laboratorio Crash! di via della Cooperazione 10, situato oltre la cinta della tangenziale nella periferia nord della città, è un complesso di 22mila metri quadri, ex deposito delle poste di proprietà della Prelios, una multinazionale di asset management con sede a Milano. Lo sgombero è stato accelerato anche dal nuovo piano edilizio dell’area, entro una Bologna in veloce trasformazione ed espansione urbanistica. Quelle mura negli anni hanno ospitato meeting politici e assemblee, concerti e spettacoli, palestre e altre attività. Ma soprattutto sono state il contenitore per l’elaborazione di una azione e di un pensiero che, guardando la città dalla periferia, scopre come questo margine urbano possa divenire centralità politica. In questo senso possiamo parlare di centro sociale. Ma al contempo, l’immagine del “centro” troppo spesso ha condotto a immaginare e costruire i centri sociali come comunità fortificate, a immaginarsi come isole, o al limite come gated community di una ipotetica e auto conferita alterità. Stereotipo spesso accompagnato dalle critiche delle anime belle che negli anni hanno paradossalmente contribuito a gentrificare quartieri aprendo boutique, bar e librerie bohemien passando così dalla “gated community” al gruppetto dell’intellettuale senza arte né parte. Hipster appunto. Entrambe le esperienze le abbiamo criticate e rifiutate sperimentando altre prassi di organizzazione e immaginazione sovversiva, senza mai ritenerle perfette e concluse, ma anzi correndo su quel bordo metropolitano che è la periferia, alla ricerca di una sua centralità politica e antagonista.
Riguardando, dicevamo, indietro, quelle quattro mura erano state invece per lo più snodi, trampolini, inneschi per una diffusione nella metropoli. In quel luogo si sono trovate, era il 2012, le prime assemblee degli operai della logistica in lotta, che ci hanno condotto a una decina di chilometri a nord verso l’Interporto, così come a ovest alla Coop Adriatica di Anzola Emilia o a est nelle lunghe settimane di lotta alla Granarolo e in decine di altri magazzini sparsi per tutta la periferia e la provincia bolognese. Ma in quelle mura si sono incubati anche i semi di un potente sommovimento di lotta sul diritto all’abitare, che a partire dall’inverno di inizio 2014 ha condotto centinaia e centinaia di persone a occupare stabili vuoti per trasformarli in abitazioni. Grandi palazzi come l’Ex-Telecom, nel cuore del tentativo di gentrificazione del quartiere della Bolognina, edifici di proprietà di palazzinari speculatori o di ricchi con residenza all’estero che a mala pena si ricordavano del bene in loro possesso. O ancora immobili di estrema periferia di proprietà pubblico-privata e locali in disuso che punteggiano i viali della città e i suoi quartieri popolari. Dentro le mura del Laboratorio Crash! si sono anche organizzati gli studenti medi di scuole lontane dai licei del centro, e sono risuonate le parole delle battaglie di quella che abbiamo definito come ‘periferia in centro’, quella zona universitaria da anni e anni al centro delle retoriche mediali della sicurezza e del degrado che ha prodotto punti alti di conflitto sociale come con la cacciata della polizia da piazza Verdi nel 2013 o con la battaglia dei tornelli in via Zamboni 36 nei primi mesi del 2017.
Pensiamo dunque a questa trama di circuiti, spesso invisibili. Se ne potrebbero elaborare mappe punteggiate di anonimi magazzini che conducono le merci di consumo per tutta la città. Di luoghi abbandonati lasciati alla polvere. Di persone di molteplici esperienze, provenienze e generazioni che si mischiano e incrociano a partire da un luogo che dunque, più che “centro”, diviene hub del conflitto sociale, tracciando rotte di sovversione e riscatto all’interno del tessuto urbano. Se si sovrappongono queste mappe delle lotte nella logistica, sulla casa, nelle scuole e in università, ne risulta una bizzarra cartografia, talvolta rigidamente contrapposta a quella della Città ufficiale, talvolta mischiata. Sono disegni che configurano un conflitto che pulsa sotterraneo e che luoghi picchettati o occupati e destinati ad un altro uso, un uso-contro, portano in luce, riscrivono sulla matrice della Città governata e messa a profitto. Sono segni e soggetti che si fanno corpo in una trama metropolitana nella quale si descrivono in continuazione nuovi confini e flussi di persone, merci e capitali. Sono, queste mappe insorgenti, progetti di città che incrinano la Città esistente ponendo gli embrioni per una città a venire.
Le città d’altronde, da sempre, sono l’opera in continua mutazione di un contrasto, il tentativo irrisolto di dare forma a un conflitto. In esse si intagliano continuamente interessi, visioni, bisogni di classi sociali contrapposte. Oggi questa serie di antagonismi si gioca su piani che eccedono costitutivamente quella che a lungo si è pensata come la ‘scala’ della città, ossia il locale. Le città si trasformano al ritmo degli investimenti del capitale globale e sotto la spinta delle migrazioni, si innervano di tecnologie digitali e si modificano sia spazialmente che come organizzatrici del tempo sociale. Sono snodi sfaccettati di una trama planetaria, una metropoli che si espande dialetticamente sul globo fino a ricoprirne la superficie. Questa rete è fatta di nodi e di fili, ma anche di tanti vuoti che solo raramente vengono presi in analisi. Vuoti sociali e fisici che parlano di scarti ed espulsioni, ma anche di lotte e conflitti che deformano continuamente la linearità della rete, ne sfilacciano la trama, ne scompongono la geometria. Per noi nel prossimo 2018 è ancora lì che vogliamo abitare antagonisticamente, è su questo bordo che apriamo ancora una sfida per la rottura politica, sociale e culturale antagonista.
Geografie dell’economia politica urbana
È noto come la cosiddetta crisi del 2007-2008 sia nata da un ‘inceppamento’ prettamente urbano, ossia l’insolvenza di massa dei mutui sulla casa. Esistono d’altronde ormai svariati studi che mostrano come il mercato immobiliare sia uno dei settori strategici dello sviluppo capitalistico, e come le centralità urbane siano luoghi privilegiati per indagare le sue tendenze. A un decennio dalla scaturigine dell’esplosione della bolla del mattone statunitense tali argomentazioni mantengono piena validità, e spesso non servono approfondite ricerche per comprenderlo, ma anche qualche semplice sguardo nelle città.
Se restringiamo il campo all’Italia, il quadro della crisi come forma di governo ci restituisce l’immagine di uno sviluppo a macchia di leopardo, nel quale alcuni poli di crescita si impongono su nuovi poli in recessione, drenando risorse. Per quel che riguarda la megalopoli padana, uno dei terreni trainanti del capitalismo nord-Mediterraneo, quello che era il triangolo industriale del periodo fordista si è dissipato in favore di un nuovo asse emergente che collega Trento, Milano e Bologna, fatto di centri finanziari e assicurativi, start up e brevetti legati alle università, nuove industrie e un ricco tessuto logistico, speculazione e capacità di attrarre grandi capitali e grandi eventi per lo sviluppo ‘a bolla’ che caratterizza l’ultimo quarto di secolo. In questo riquadro il mercato immobiliare ricomincia a salire, si innalzano nuovi grattacieli e infrastrutture sfavillanti, si organizzano fiere e grandi eventi come Expò, si aprono musei trendy e migliaia di locali e ristoranti. Si innestano frontiere di sviluppo come i nuovi servizi di Amazon coi suoi magazzini, le piattaforme di delivery, il turismo internazionale con i nuovi scali Ryanair e le nuove rotte internazionali, l’intensificazione del ‘city branding‘’ e la costruzione di oggetti architettonici che orientino la valorizzazione dei terreni urbani.
Tutte queste trasformazioni si agitano sopra a un continuo abbassamento del tenore di vita per ampie fasce della popolazione, aggredita nelle condizioni di lavoro e di vita. Molti studi guardano alle dinamiche di riconfigurazione socio-urbana (o quella che, in maniera ormai eccessivamente sovraccaricata di significati, viene chiamata gentrification) a partire dai luoghi dove esse si innestano. Ma i tessuti urbani sono relazionali, e la continua espulsione di ceti proletari dai luoghi di nuovo investimento di capitali la si può seguire in traiettorie che li spingono a insediarsi sempre più lontano dai centri pulsanti. L’intera megalopoli padana è inoltre ormai un grande parco dell’edificazione neoliberale, fatto di strutture fatiscenti edificate dai privati che chiudono in fretta, parcheggi e grandi magazzini, rivenditori di automobili e piccole ditte, quartieri de-socializzati e periferie degradate.
Gli attori che muovono questi processi sono oggi molteplici, stratificando le correnti di sviluppo su differenti piani. Ci sono i differenti livelli delle amministrazioni pubbliche e il ruolo sempre più predatorio dei partiti, che operano sull’infrastrutturazione del territorio (attingendo a fondi europei, nazionali, locali) e agevolando la costruzione di partnership col privato (la cosiddetta governance). C’è un traino discendente dei corpi intermedi accompagnato dalla crescita del piccolo investimento privato. Ci sono “grandi capitali” speculativi e fondazioni, il ruolo dirimente dei media nel promuovere percorsi di securitizzazione e ordinanze, un aumento del potere poliziale nel governare le popolazioni.
Possono sembrare dinamiche complesse, ma guardate on the ground assumono fisionomie ben chiare. Per quel che riguarda Bologna hanno i tratti di grandi opere come il Passante nord (una ristrutturazione della tangenziale), il People Mover (una linea di collegamento tra stazione e aeroporto, dove aprono sempre più scali), la nuova stazione dell’alta velocità, l’investimento nei nuovi bus. La ridefinizione dello skyline cittadino con edificazioni come la grande sede Unipol, la nuova sede architettonicamente impattante del Comune e il progetto di nuova edilizia della Trilogia Navile. Ancora, l’economia politica urbana si rivela nell’idea di spazio pubblico dei T-days, ossia la chiusura alla circolazione delle automobili nel centro cittadino che rivela uno shopping tutto organizzato attorno ai grandi brand multinazionali (H&M, Zara, Apple, Benetton ecc…) che uniformano tutti le aree commerciali del mondo. La si coglie nelle operazioni di “riqualificazione” che rifanno continuamente pavimentazioni e arredo urbano nell’ottica di svuotare strade e piazze ad un loro uso che non ecceda mai i perimetri del consentito.
Questa economia politica si coglie anche nel continuo aumento dei costi (dai parcheggi ovunque a pagamento al prezzo dei trasporti pubblici, dalla guerra alle piccole attività commerciali per lo più gestite da migranti in favore delle grandi catene e dei locali più chic), nella brandizzazione della città che ha addirittura prodotto un assessorato ad hoc che si occupa di smart city, che promuove attività come la produzione di murales in alcune periferie per incentivare il turismo e al contempo copre operazioni di fondazioni private che i murales ‘veri’ li stacca dalle pareti per chiuderli in museo, com’era stato nel noto caso di Blu. Ci si lancia nel promuovere etichette come ‘city of food’ per attrarre turisti, rendendo il centro una grande salumeria a cielo aperto – lasciando al contempo campo libero all’americanizzazione delle periferie col proliferale di catene di fast food e la ciliegina sulla torta del nuovo FICO, la proclamatasi Disneyland del cibo sorta di fianco a un inceneritore e col futuro già scritto di un investimento dal quale pochi capitalizzeranno… ma con un taglio impresso nel tessuto della città che rimarrà molto a lungo.
Nuove frontiere dello sviluppo: il “Platform urbanism”
Città-vetrina, turistificazione, nuove infrastrutture ed edifici… Ma c’è anche una forte relazione temporale insita in tutto ciò. E non si tratta solo dell’aumento esponenziale di supermercati aperti h. 24 cui fà da contraltare la desertificazione notturna o la sua perimetrazione in aree funzionalizzate alla movida. Né si tratta solamente del progressivo affermarsi dell’e-commerce e della consegna a domicilio, che con un click conduce direttamente a casa o in qualunque luogo urbano qualsiasi tipo di merce in fasce orarie sempre più estese. È una più generale idea del just in time e del “tempo-bolla” quella che viene affermandosi. Un urbanesimo just in time che si definisce nell’uso dei container per organizzare bar ed eventi in zona universitaria, in eventi culturali pensati attorno al loro costitutivo essere effimeri, attraendo persone ma senza sedimentare nulla sul territorio. È una temporalità che si accelera grazie all’interconnessione garantita dalle piattaforme digitali e alla rilevanza della logistica, laddove anche una catena come IKEA, divenuta famosa per i suoi enormi negozi e magazzini che svettano attorno ai nodi di connessione e nelle zone periferiche, si sta per lanciare in una nuova joint venture con Amazon per consegnare i suoi prodotti a domicilio e organizzare via piattaforma (TaskRabbit) la gig economy (i cosiddetti lavoretti) attraverso prestazioni occasionali per garantire che i mobili vengano montati a domicilio. È la temporalità di AirBnb, che in pochi anni a Bologna ha aperto cinquemila appartamenti, ingolfando il mercato immobiliare, espellendo dal centro studenti e famiglie meno abbienti, e innescando un vortice di cui è difficile prevedere gli esiti.
Il tessuto urbano deve dunque essere continuamente fluidificato, reso flessibile, pronto a rimodellarsi di continuo per attrarre flussi e capitali, con una serie di implosioni ed esplosioni che aprono nuove centralità e punti di gravitazione, moltiplicando le periferie e le marginalità. Le fluttuazioni di questo modello di sviluppo portano d’altronde il codice genetico della razionalità finanziaria.
Le città stanno dunque divenendo come grandi hub per lo smistamento delle merci, terreni di valorizzazione e produzione di merci, governate con strumenti smart e tramite quello che potremmo definire come un “platform urbanism” appena delineato nei suoi elementi più appariscenti, rispetto al quale l’impressionante espansione del food delivery (che in meno di un anno ha riempito le strade di Bologna di fattorini di molteplici compagnie) risulta emblematico. Qui infatti si integra il “vecchio” modello del porta-pizze con le nuove frontiere amazonizzate della consegna just in time and to the point, il tutto mediato da algoritmi, rete e smartphone, dove i lavori ultra-flessibilizzati viaggiano su Google Maps organizzati via WhatsApp, con una valorizzazione che si dà “verso l’alto”, non basata sul profitto nella singola consegna, ma sulla mole del loro volume coplessivo che viene capitalizzata digitalmente e finanziariamente attraverso la vendita di big data e la quotazione in borsa.
Chiusura
Abbiamo dunque aggiunto progressivamente una serie di strati che si intrecciano, componendosi e scomponendosi vicendevolmente: il piano dei conflitti sociali, la morfologia dell’economia politica urbana, i nuovi layer che si impongono sulle città nella cosiddetta “rivoluzione industriale 4.0” in cui stiamo vivendo. La cartografia che emerge è quella di tessuti urbani frammentati e iperconnessi, mobili e striati di continui confinamenti, volatili e basati sulla infinite colate di cemento sul territorio… Un quadro dunque estremamente contraddittorio, e in mutamento.
I contributi qui raccolti crediamo possano essere utili come serie di approfondimenti delle tematiche che abbiamo accennato in questa introduzione, spaziando da panoramiche teoriche generali sui processi di urbanizzazione e la produzione di spazio a ricerche etnografiche su singoli contesti urbani, incrociando l’analisi di fenomenologie urbane emergenti con sfondi storici di lungo periodo, proponendo sguardi da svariate città d’Italia e del mondo, indagando i tratti di governo dei territori così come i confitti e le resistenze. Oltre ai testi prodotti prima e in seguito al convegno di ottobre 2017, abbiamo deciso di inserire anche alcuni articoli usciti su Infoaut sul tema della città, per dotare il presente ebook di un ulteriore varietà analitica. Non siamo magari pienamente in accordo con tutti contributi proposti al convegno e qui riportati, ma immaginiamo questo libro come uno strumento aperto e in divenire per un dibattito sulle città, ossia sui luoghi strategici per lo sviluppo capitalistico contemporaneo così come per le ipotesi di una sua sovversione.
La sfida che crediamo emerga da questa produzione scritta risiede nella capacità di poter produttivamente attraversare i vari piani sinora tratteggiati, tenendoli analiticamente assieme ma scomponendoli politicamente alla ricerca di ambivalenze, linee di frattura e soglie tensive in grado di contro-circuitare i vettori dell’attuale sviluppo urbano in una nuova circolazione di lotte e conflitti all’altezza della metropoli planetaria in costruzione che abitiamo.
Bologna, 19 dicembre 2017
Laboratorio Crash!
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