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Chi cade insieme a B.?

Il video della caduta di Silvio Berlusconi dal predellino su cui stava tenendo un comizio a Genova, seguita dall’esclamazione “è colpa della sinistra!”, ha conquistato la scorsa settimana le prime pagine dei giornali, spinto con forza soprattutto dai media mainstream legati all’ormai fu centrosinistra, che nelle avventure e disavventure del Cavaliere hanno da sempre trovato la più ghiotta fonte di audience e sostentamento.

Questa volta, però, a fare rumore è il silenzio assordante che, attorno a quelle immagini, ha avvolto il dibattito politico italiano nei giorni successivi. Nessuna reazione, nessun commento, nessun opinionista politico da talk show ha ritenuto opportuno sprecare parole attorno all’ultima messa in scena di Silvio Berlusconi. Perché? Quali sono le ragioni che hanno trasformato i clichés di Berlusconi, che fino a pochi anni fa erano i grado di spostare percentuali elettorali, in grottesche pantomime completamente autoreferenziali?

A partire da questo micro-evento mediatico, apparentemente insignificante, possiamo dal nostro punto di vista formulare alcune ipotesi di carattere generale per cercare di tracciare i confini entro cui si sta sviluppando una radicale mutazione dei paradigmi discorsivi, che oggi inizia a raggiungere la maturità e a delineare un profondo cambio di fase politica.

Nuove chiavi di lettura, nuovi spazi di contesa e contrapposizione emergono all’interno di una società italiana sempre più polarizzata in uno scontro tra chi sta in alto e chi sta in basso, tra solvibili e insolvibili; insomma uno scontro tra ricchi e poveri che sembra aver definitivamente svuotato di contenuto la tradizionale (e sempre più falsa) dialettica tra una “destra” e una “sinistra” sedute fianco a fianco in Parlamento.

È in questo contesto che la frase urlata da Berlusconi mentre, sorridente, brandisce trionfante lo sgabello responsabile della sua caduta risulta stridente, quasi fastidiosa alle orecchie di chi lo ascolta e che nella sua figura identifica ormai qualcosa di altro, né amico né nemico, ma semplicemente un personaggio che incarna una proposta politica ormai al di fuori delle categorie della realtà.
La presunta difesa dei privilegi di una classe media imprenditrice di sé stessa, l’orgoglio anti-fiscale di una piccola borghesia creata artificialmente e pronta ad assaltare il cielo se liberata dai lacci e lacciuoli della burocrazia statale, lo spauracchio della “sinistra comunista” sempre pronta a mettere le mani in tasca agli italiani: narrazioni ideologiche che sullo spettro del crollo dei partiti novecenteschi erano riuscite a garantire una transizione felice nella società televisiva del ventennio berlusconiano, dove i risparmi e i redditi delle famiglie continuavano a resistere, gonfiati dalle illusioni di un’economia finanziaria in espansione e che prometteva un futuro roseo per gli italiani.

Queste favole ora non reggono più in una fase di profonda crisi in cui la proletarizzazione (o riproletarizzazione) di ampie fette della classe media e il progressivo impoverimento diretto e indiretto (sotto forma dei pesanti tagli al welfare) che affligge la popolazione diviene effettivo. In sintesi, è il piano di realtà, nella sua nuda e violenta materialità, a prendere il posto di un piano fortemente simbolico e costruito attorno al teatro dello scontro tra un centrodestra e un centro sinistra che di fatto non esistevano più da tempo, ma che erano in grado di mantenere un discorso egemonico sul sentimento popolare e sull’opinione pubblica.
Ad interpretare perfettamente la fase è chi assume ciò come dato assodato. L’anno scorso, più o meno di questi tempi, Matteo Renzi si avviava a vincere le elezioni europee sull’onda degli 80 euro e dell’appeal della rottamazione basata sui giovani al potere. Su Infoaut scrivemmo, dopo il 40% preso dal PD, di un Partito della Nazione in gestazione, che avrebbe impostato la sua azione sullo scontro imposto a garantiti e non-garantiti, all’interno del paradigma dell’austerità. Di fatto quello che vediamo oggi sembra la normale evoluzione di questo paradigma. Sempre più si accentua una tecnica di governo che mira a dividere solvibili e insolvibili, a circoscrivere le fasce sociali su cui avere intervento regolatore per escludere tutte le altre; le opzioni partitiche di una rappresentanza sempre più flagellata da tassi imbarazzanti di astensionismo si modellano di conseguenza.

Renzi in poco più di un anno di presidenza del consiglio è riuscito a riempire il vuoto politico lasciato dalla parentesi dei governi tecnici e a costruire un nuovo sistema di illusioni e promesse attorno a un PD che, dopo la potatura senza troppi complimenti dei suoi rami secchi, si delinea come un vero e proprio partito della nazione, capace di garantire la massima governabilità del paese ai poteri forti, nazionali e internazionali; riuscendo parallelamente ad imbrigliare il nemico più pericoloso, i giovani-precari-disoccupati, nel meccanismo di una economia della promessa basato sull’idea di un futuro migliore a patto di sacrifici nel presente (che però, attenzione, non si traduce in consenso elettorale diretto, ma in un approccio soggettivo alle difficoltà della crisi). Non più una berlusconiana difesa dei privilegi, ma una promessa di un futuro migliore che, prima o poi, arriverà a patto che si sia disposti a garantirgli fiducia a qualsiasi costo, anche se essa si esercita sotto forma di lavoro gratuito e iper-sfruttato.

La tendenza si riscontra, specularmente, nell’intero panorama politico dei partiti e si manifesta in un graduale spostamento di asse, che interpreta la mutazione del discorso politico da destra-sinistra ad alto-basso. Non a caso in Italia fenomeni come Movimento5Stelle e LegaNord si stanno ponendo proprio in un’ottica di superamento della prima dicotomia, in modo da rimanere al passo del PD che è riuscito a realizzare il sogno maggioritario veltroniano delle origini.

Il Movimento parlando di reddito di cittadinanza cerca di recuperare in ottica interclassista una polarizzazione che in realtà è un chiaro scivolamento verso il basso di una parte enorme della società ben posizionata nello scontro di classe; Salvini, sulla brutta copia del modello lepenista francese, va alla caccia di voti e poltrone lasciate scoperte dallo sfaldamento del centrodestra, ergendosi a difensore di quei soggetti sempre più impoveriti, al penultimo gradino della scala sociale e che vivono nella costante paura di scivolare tra gli ultimi.

A livello europeo la direzione è analoga. Basti pensare al crollo del Labour in Inghilterra, soprattutto ad opera dello Scottish National Party che ha vinto non tanto sullo spostamento a sinistra in termini ideologici (siamo di fronte ad un’identità nazionalista per quanto progressista) quanto grazie un’agenda infinitamente più avanzata e in evidente opposizione ai diktat dell’austerity incarnati dallo stesso Labour, che è finito così per essere svuotato sia dall’SNP che dall’originale di cui voleva essere la copia, ovvero i Tories di Cameron.

Podemos stessa si posiziona in un’ottica non classicamente di sinistra, così come il Front National di Marine LePen sta cercando in tutti i modi di scrollarsi di dosso l’etichetta che la posiziona nei cardini della destra tradizionale (vedi l’allontanamento del padre dal partito). Solo Syriza in Grecia pare porsi in controtendenza, anche a livello narrativo di sè stessa. Eppure va sottolineato come la vittoria di Tsipras non sia da intendere come derivante da una svolta dell’opinione pubblica del proprio paese in senso progressista in Europa, bensì come un voto di disperazione della popolazione greca rispetto alla devastazione sociale portata dalle politiche di austerità nel paese applicate negli anni precedenti.

Quali sono le conseguenze di tutto ciò per i movimenti? Come si inquadra in questo contesto chi si propone di ribaltare lo stato di cose presenti? Circa un anno fa Ivan Krastev scrisse un testo che analizzava le mobilitazioni degli ultimi anni a livello globale, cercando di offrire una spiegazione in relazione alla loro incisività sui sistemi politici in cui hanno preso piede. A leggere il testo di Krastev in maniera ingenua, sembrerebbe prefigurarsi uno sviluppo negativo per i movimenti sociali, considerazione fatta a partire dal fallimento delle proteste in paesi come Spagna e Stati Uniti così come in quelli dove effettivamente un esito rivoluzionario c’è stato, come in Egitto e Tunisia, per il fatto che questi non si siano successivamente costituiti in partiti politici organizzati capaci di competere dentro il sistema previgente.

Ora cerchiamo di darne una lettura in relazione al nostro paese: il fatto che si stia affermando una politica della sfiducia rispetto alla democrazia rappresentativa tradizionale costituisce un fatto negativo? A nostro parere no. Esso non ha alcun elemento di problematicità a meno che non si abbia interesse a riprodurre quel modello per interessi di bottega.

Riguardo a ciò il problema si pone a livello metodologico: preso atto dello sfaldamento delle narrazioni legate alla politica tradizionale è necessario per i movimenti percorrere la strada inversa. Non partire dalle proprie piccole certezze ormai avulse da una realtà sempre più misera, per cercare di accaparrarsi le briciole in uno spazio di mediazione ormai impraticabile, ma ripartire dal terreno scosceso e accidentato di una società senza rappresentanza per dare figura organizzativa alle sue istanze di lotta e giustizia sociale. Tutto il resto è destinato alla sconfitta e l’esperienza della sinistra parlamentare degli ultimi anni e i tentativi fallimentari dei sindacati di reinstaurare un piano di mediazione e cercare di mantenere il loro ruolo di corpi intermedi ne sono l’esempio.

Emblematico, in questo senso, è il “Mi fate ridere” di Renzi rivolto ai confederali in occasione dello sciopero della scuola messo in atto lo scorso 5 maggio: non solo i piani di mediazione con figure politico-sindacali considerate ormai fuori dalla storia sono superati, ma addirittura è chiuso ogni spazio di interlocuzione possibile. Una risata li ha seppelliti, mentre in maniera davvero furbesca e brillante, dobbiamo riconoscerglielo, Renzi ha contemporaneamente incontrato i precari della scuola. Il messaggio politico è chiaro: con pezzi della società civile il confronto, anche se finto, è aperto, con forme politiche vetuste come sindacati e partitini i ponti sono completamente tagliati.

La politica del “no”, come la definisce Krastev, può essere il nodo da cui ripartire? Pensiamo di sì. Essa ha contribuito negli ultimi anni a costruire tantissime realtà di lotta in tutto il nostro paese, capaci di costruire quegli embrioni di resistenza allo strapotere dei governi che si sono succeduti e di aprire uno sterminato campo della possibilità: si sta aprendo uno spazio politico enorme direttamente sul terreno della lotta di classe, superando alcuni paraventi ideologici legati alla contrapposizione destra-sinistra che spesso più che costituire un sistema di valori hanno imbrigliato le coscienze e le potenziali energie di rottura e contrapposizione.

Non serve riprendere il Negri di “Nietzsche in Parlamento” per comprendere come questo possa essere un passaggio ulteriore di legittimazione di un discorso politico basato su percorsi di autodeterminazione sociale piuttosto che di delega. Stiamo assistendo definitivamente alla fine dell’abbaglio per il quale il semplice posizionarsi all’estremità di una retta implica una fiducia popolare nel fatto che quel posizionamento abbia una sostanza politica.

Bentornata, lotta di classe: bisogna ora assumersi in toto, sui nostri territori, la presenza al fianco di ogni lotta da parte di quei soggetti non-garantiti, insolvibili e all’ultimo gradino della società che affollano sempre di più le periferie delle nostre metropoli e che, naufraghi nel mare della politica, cercano una bussola per percorrere collettivamente la lunga strada del conflitto sociale e della dignità.

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