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Contro il paradigma della debolezza precaria

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Quali sono i problemi dei militanti nell’organizzazione delle lotte e delle vertenze, nella specificità del mondo del lavoro? Negli ultimi 3 anni abbiamo avuto delle esperienze, dei tentativi, che vanno dalla multinazionale delle pulizie nell’ospedale (Sodexo) ad un appalto di noleggio di autovetture per una multinazionale in aeroporto, ad una ditta di pulizie industriale nell’indotto Piaggio. Sono settori molto diversi tra di loro ma che in qualche modo possono essere accomunati nell’ambito del terziario basso, cioè tutte quelle attività lavorizzate che hanno a che fare con la circolazione di merci o persone, l’ambito turistico, ambito turistico e dei servizi, dentro l’infrastruttura urbana.

Rispetto a questo noi volevamo fare una serie di considerazioni poste come domande. La prima è che ci sembra come compagni che le lotte nel mondo della logistica sicuramente abbiano segnato una discontinuità, anche nel tipo di rapporto che il nostro mondo (dei compagni dell’autonomia, dei centri sociali) ha stabilito con il mondo del lavoro. Probabilmente ha a che fare anche con l’internità che i compagni hanno avuto in questo ambito, dove più che avere un coordinamento di lotte, abbiamo osservato in questi anni delle espressioni di autonomia e di conflitto di per sé in quelle lotte significative. A parte il settore della logistica, che ha anche delle caratteristiche nodali per lo sviluppo capitalistico in senso lato, che fanno della logistica un settore non uguale ad altri, e a parte le esperienze di alcuni compagni di internità in alcuni sindacati di base, il nostro investimento come compagni, come militanti e come giovani dentro quella che è l’attività di organizzazione di lotta e di conflitto nel mondo del lavoro è stata molto assente o scarsa e questo probabilmente ha dei motivi sia oggettivi sia di soggettività militante e politica. Noi veniamo comunque da una storia che ha fatto del rifiuto del lavoro una leva su cui caratterizzare anche una critica ai rapporti sociali e rispetto a queste cose qui oggi dovremo provare a porci delle domande, per comprendere come invece tutta una serie di cicli sia sul livello oggettivo che a livello soggettivo si sono dati. In primo luogo a livello di caratteristiche oggettive ci siamo misurati su questa considerazione: “perché non è facile lottare per una composizione di giovani precari? sia nelle forme contrattuali sia come stabilità sistemica assente” Probabilmente noi a livello a livello soggettivo, la dico così, veniamo da un periodo in cui la precarietà è molto più che una denuncia della sua forma di auto-rappresentazione organizzata in lotte di riappropriazione di reddito. Non siamo riusciti ad indagarne le contraddizioni. Abbiamo quindi cominciato a ragionare di precarietà non come una condizione, come un unicum, ma invece come una contraddizione a partire dalla quale provare a rovesciare un paradigma politico, che è quello per cui i precari sono deboli, sono vittime, i precari sono oggetto delle fantasie massime dello sfruttamento capitalistico, sono i lavoratori a noleggio per eccellenza. Abbiamo invece provato a ragionare su questo paradigma, per provare a metterlo in discussione, non tanto su delle fantasie psicologiche differenti, perché effettivamente i precari, per come sono organizzati oggi nella cooperazione produttiva, sono in una condizione svantaggiosa rispetto ai propri interessi, questa non è una cosa che uno può ribaltare con un esercizio retorico. In questo tipo di paradigma, al quale la sinistra ma anche il mondo sindacale ha associato negli anni questo tipo di atteggiamento, che i precari non possono lottare, perché non hanno garanzie e sono più ricattabili, quindi bisogna investire dell’onere della lotta prima i settori garantiti, i settori sindacalizzati che portano avanti dei cicli di vertenze di lotte sui contratti e su quant’altro e di conseguenza si lotta per la stabilizzazione dei precari, per un loro inserimento, integrazione nel mondo del lavoro sindacalizzati. Questo paradigma è stato assolutamente perdente, è stato sconfitto, c’è un non ritorno su questo perché è stato attuato uno smantellamento delle garanzie e la tendenza è stata quella di diffondere il paradigma dell’assenza di garanzie come paradigma di governo della forza lavoro sulla strutturazione e capacità politica sistemica di costruirne delle accumulazioni.

Oggi nei settori a noi più prossimi come generazione ma non soltanto, anche rispetto all’alternanza scuola-lavoro, forse non si può più parlare di precarietà perché è una tendenza talmente manifesta e talmente normale, per cui la critica alla precarietà che contempla una “normalità” non ci può più essere. Cosa significa pensare la precarietà non come qualcosa di debole per chi la vive ma come un qualcosa che ha a che fare con una minaccia possibile, con uno scontro possibile con chi crea quelle condizioni. Probabilmente dentro la precarietà abbiamo provato a scomporre in dei segmenti interni, per affrontare alcune sue specificità, alcune sue condensazioni, una di queste è il segmento degli interinali, che sono lavoratori a noleggio, non assunti direttamente dall’azienda, ma da un’agenzia che ricolloca apparentemente in maniera indefinibile il lavoratore su settori produttivi diversi, su aziende diverse senza nessuna garanzia sulla durata del contratto. A partire dalla lotta ai cancelli della fabbrica della Piaggio di Pontedera abbiamo cominciato a vedere che questa debolezza in realtà era era la grande risorsa, la grande scommessa, la grande fonte di valorizzazione del capitale; il lavoratore interinale è quello per cui l’azienda è disposta a pagare più del doppio del costo di un normale operaio, sia per l’intermediazione dell’agenzia interinale sia per le questioni fiscali. Se è disposta a pagare così tanto forse è perché ne ha tanto bisogno. Se prima nel ciclo produttivo il lavoro interinale era accessorio (impiegato soltanto nei momenti in cui la produttività non riusciva ad essere soddisfatta a causa di sostituzioni, ferie, malattie, infortuni), ora c’è una sua ciclicità nel ricorso al lavoro interinale. L’organizzazione produttiva è stata plasmata su dei picchi di produttività, ma soprattutto nei servizi avviene sulla base di una pianificazione, non più stabilita con un certo anticipo e quindi con una certa logistica, ma su un idea di just-in-time. La flessibilità della domanda e quindi la flessibilità della forza lavoro è un fatto strutturale. La forza lavoro interinale diventa un qualcosa di costitutivo di una serie di aziende.

Che tipo di rapporto militante e politico si costruisce con questa forza lavoro? Quali sono le sue caratteristiche soggettive? Essa è estremamente eterogenea (migranti, giovanissimi, nativi, anziani, espulsi dai cicli produttivi precedenti, neodiplomati) ed è un settore in espansione che conta centinaia di migliaia di iscritti alle agenzie interinali. Sostanzialmente questa forza lavoro è spaventata, ricattata e non aveva nemmeno idea di poter lottare, non aveva neanche l’illusione, anzi aveva un atteggiamento quasi fideistico di integrazione nell’azienda e questo a noi ci ha fatto fare delle domande: come è possibile che un lavoratore a noleggio (che in 4 anni ha avuto tra le 15 e le 20 assunzioni con contratti di lavoro che andavano da una settimana fino ad un mese e mezzo) ha un atteggiamento di fiducia nei confronti dell’azienda. Abbiamo ragionato su una normalità dove il lavoratore interinale si identifica con l’azienda, ne assume le caratteristiche del comando, interiorizzando anche le gerarchie, dove in queste aziende non era assolutamente un’eccezione che dei lavoratori interinali fossero a capo di gerarchie interne con funzioni di responsabilità nell’organizzazione del lavoro o altri lavoratori interinali inquadrati con lo stesso contratto con magari anche lo stesso numero di ore la settimana. Lo stesso contratto ma con una posizione di prestigio al di sopra: “sono crumiri? Leccaculo? sono gente che combatte contro altri per che cosa?!”.

Per noi è stato importante osservare il legame tra il tempo del lavoro e quello del non- lavoro. Quegli stessi membri di quella gerarchia verticale erano disponibili a comandare altri lavoratori interinali non soltanto perchè erano protagonisti di una promessa che era quella del rinnovo del contratto, della carriera, ma anche della valorizzazione che l’azienda fa su di te; ed è un discorso che ritroviamo in tantissimi altri comparti, e in altre lotte non solo con gli interinali; un atteggiamento di relazione tra impresa e lavoratore che assumendo il dogma del self-made-man fa credere al lavoratore che dipende da se stesso, fa sì che ci scommetta e da luogo a tutta una serie di competizioni. Ma il passaggio più interessante è l’effetto di questa spinta alla valorizzazione di sé su quelle soggettività, che a un certo punto, sollecitate e solleticate o spinte anche da altri segmenti, anche altri lavoratori interinali, organizzati nell’anonimato (non in maniera esplicita nelle tradizionali forme sindacali) cioè nelle pause, al bar prima e dopo il lavoro, hanno iniziato a lottrare. Quel tipo di soggettività, che se vai a vedere l’organigramma aziendale è responsabile, a un certo punto è obbligata, o quasi, dall’incipit di un conflitto, a negarsi nel proprio ruolo e decide di far parte di quelle che poi sono state “avanguardie di lotta”, lotta che poi si è risolta dopo due mesi con una vittoria, la cancellazione dei contratti interinali e l’assunzione a tempo indeterminato e con delle garanzie su gli orari ecc. Ma la cosa interessante è la domanda, come si fa ad arrivare a lottare in una situazione di comando interiorizzato, di precarietà strutturale? Abbiamo visto che il tempo del non lavoro, cioè il tempo in cui questi lavoratori non lavorano perchè non sono assunti dall’agenzia interinale, è un tempo che in realtà è direttamente produttivo. Non è una banalità perchè il tempo in cui questi segmenti non lavorano è il tempo in cui si indebitano, è un tempo in cui pagano l’affitto, il mutuo, le bollette, il mangiare e quant’altro. Si vive nell’angoscia perenne di essere insoddisfatto, di non avere un salario che garantisca una riproduzione, è il tempo in cui si accede a delle linee di credito sia informali che formali, è il tempo in cui si accumula un debito e in cui la soggettività non lavora, ma in realtà lavora in un consumo di un certo tipo e si riproduce come soggettività indebitata. Questa cosa qui è la premessa fondante di un certo tipo di messa a lavoro. Questa caratteristica del tempo del non lavoro che ha a che fare con la disgregazione e distruzione del welfare, con la riduzione delle casse integrazioni, con gli ammortizzatori, con il ritirarsi dello stato sociale, che ha a che fare con l’essere povero ma produttivo dentro una giungla sociale dove ognuno deve pensare a cavarsela e procacciarsi un reddito. Questa è la premessa costitutiva del fatto che quel lavoratore non solo è disponibile ma è anche grato all’impresa e al suo responsabile per averlo fatto lavorare, vuole lavorare tante ore; il conflitto tra ordinari (coloro che avevano 8 ore) e questi lavoratori che si fanno 15/16/18 ore, e in quel surplus per l’azienda c’è un riconoscimento, dove il lavoratore può essere remunerato non soltanto con una busta paga maggiore perchè fa più ore degli altri ma per la sua capacità di essere al “servizio” dell’azienda.

Quella composizione si è rivoltata nella lotta di cui abbiamo seguito l’evoluzione. Per rivoltarsi ha dovuto mettere in discussione se stessa e il legame con il tradimento della promessa, le aspettative che non vengono mai ricompensate; non si tratta di attendere il momento in cui non vengono ricompensate perchè c’è sempre un’aspettativa, per quanto decrescente, che viene solleticata. Il punto è vedere delle contraddizioni a partire dal fatto che il rapporto di forza di quella composizione per l’azienda è una forza vitale, una forza di accumulazione straordinaria rispetto ad un operaio normale. Questo significa che nel momento in cui si nega, in cui sciopera mette in crisi un organizzazione complessiva e la controparte a quel punto si mostra disponibile, si apre al riconoscimento di quella parte come di una parte in conflitto.
Bisogna capire e politicizzare come si passa dall’interiorizzazione del comando a invece rovesciare quella che è una capacità di gestione produttiva complessiva, perchè questi operai non hanno a che fare con la catena di montaggio in cui fanno un singolo pezzo. Così come si parlava di Foodora e di altre esperienze, in cui il lavoro consiste in una serie di attività in cui anche tu potenzialmente gestisci, e quindi puoi mettere in crisi grosse parti della produzione con cui vai a relazionarmi nella tua attività lavorativa. Questo passaggio qua, come rovesciare l’interiorizzazione del comando e il sabotaggio complessivo della produzione, ha a che fare con il fatto che per rompere il ricatto e l’aspettativa di valorizzazione dentro un rapporto di precarietà del lavoro è necessario farlo partire dal territorio; laddove c’è il tempo del non lavoro perchè è il tempo in cui ci si forma in una certa maniera le nostre aspettative e le aspettative di questo segmento di proletariato si formano per poi vendersi sul mercato, all’azienda; è il tempo in cui il debito è quello individuale, è il tempo in cui il salario complessivo viene pensato per rimborsare i debiti che uno ha accumulato nel tempo del non lavoro. Lì il tempo in cui il conflitto sulla casa, sui servizi ma anche il conflitto contro i pignoramenti, se andiamo a vedere quanti di questi soggetti hanno il pignoramento sul quinto dello stipendio (o li chiedono loro per rimborsare dei debiti passati oppure vengono eseguiti da parte di tribunali che ordinano nonostante salari ridottissimi) lì c’è un ambito della valorizzazione capitalistica che, dal nostro punto di vista, per poter pensare di organizzare delle lotte sul lavoro, sull’aumento del salario, non può non essere contemplato e non può essere contemplato come un percorso separato dalla vita sociale di questo proletariato. Detto in altri termini per noi come compagni è bene cominciare a pensare come non scissa, non dimezzata questa possibilità di organizzazione nel senso che i lavoratori quando lavorano in realtà sono dei consumatori, e 9 su 10 quando lavorano pensano al salario come giocato per rimborsare i debiti che hanno accumulato. Questi due ambiti della vita, quello dell’indebitamento e quello della produzione, si possono saturare con le lotte, ma probabilmente questo non può avvenire se non immaginiamo la costruzione collettiva di un insolvenza, il diritto a non pagare nel momento in cui il salario è insufficiente. Questa contraddizione, oggi sempre di più presente ovunque ci sia un ricatto pesante sulle condizioni di lavoro, proprio a partire dal fatto che il comando a livello dell’impresa è talmente violento e talmente forte. I corpi intermedi sono stati cooptati nell’organizzazione aziendale e quindi uno si ritrova in qualche modo ricattato nel lottare, ma se lotto perdo il salario, perdo le ore oppure mi penalizzano, perchè la ritorsione e l’abuso sono una caratteristica sociale e non solo politica nell’organizzazione dell’impresa nei confronti dei lavoratori. Chi lotta per avere un aumento del contratto delle ore se che per lottare va contro anche individualmente a quelli che sono gli assetti dell’azienda e si ritrova con ore in meno. Immediatamente quella cosa lì funziona da minaccia, che uno non può sostenere perchè con quelle ore in più, con quel salario in più, con quel risparmio in più ci paga l’affitto ecc. Tutto questo ambito della vita sociale dobbiamo immaginarcelo come un terreno di attacco, l’aggressione, a partire dagli stessi soggetti che oggi lo vivono come minaccia. La minaccia che si mostra come un baratro, minaccia collettiva che mina le possibilità di lottare anche e sopratutto sul posto di lavoro. Provare a tenere insieme questi due ambiti come inchiesta e come lotte, per noi significa non tanto darsi ora come ora delle forme organizzative, perchè ancora non ne siamo in grado, ma riconoscere ambiti che fanno parte del medesimo campo di sfruttamento di un lavoro specifico che dal consumo si fa sulle attività produttive.

 

 

 

 

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