Alternanza scuola-lavoro. Oltre l’economia della promessa?
Intervento a cura del Kollettivo studenti autorganizzati Torino (KSA) al tavolo Lavoro/non-lavoro durante il seminario Autonomia Contropotere a Chianocco, Val di Susa, 15-16 Luglio 2017.
Con la legge 107 del 2015, anche detta Buona Scuola, in due anni circa (quello attuale è, infatti, il secondo anno di applicazione) un milione e mezzo di studenti e studentesse italiani sono stati coinvolti nel progetto di Alternanza scuola-lavoro. Approvata sotto il governo Renzi, la riforma prevede che gli studenti, durante il triennio delle superiori, svolgano attività lavorative non retribuite, più o meno inerenti al loro indirizzo scolastico, per un totale di 200 ore per i licei, 400 ore per gli istituti tecnici e professionali, all’interno della struttura scolastica o presso enti esterni. Dal 2019, l’effettivo svolgimento di queste attività sarà vincolante per l’ammissione all’esame di maturità.
Grande è stata l’attenzione dell’opinione pubblica attorno a questa riforma della scuola: Renzi per primo, attraverso un’attenta campagna mediatica – tra un format accattivante ed un onnipresente appello alle nuove esigenze del mercato lavorativo – l’ha presentata come un modo per abbattere la disoccupazione e favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Citando testualmente dal sito del Ministero dell’Istruzione: “La scuola deve diventare la più efficace politica strutturale a favore della crescita e della formazione di nuove competenze, contro la disoccupazione e il disallineamento tra domanda e offerta nel mercato del lavoro.” Da questa affermazione deduciamo, in primo luogo, che l’ex-primo ministro ha senza dubbio ben presente il valore della scuola nella formazione degli individui e il suo ruolo di “fucina sociale”; da essa passa ogni tentativo di riforma strutturale della società.
Quali sono, quindi, gli elementi, finalizzati ad un’analisi politica, che caratterizzano l’alternanza e dunque il nuovo modello di scuola e di società? Per prima cosa, questo provvedimento è stato calato dall’alto, senza tener conto delle reali condizioni in cui versa la scuola pubblica; l’organizzazione delle attività è stata lasciata in toto al dirigente scolastico, da un lato confermando la tendenza alla creazione della figura del “preside-sceriffo”, dall’altro abbandonando le scuole nella confusione più totale. Così, il compito di organizzare l’alternanza è toccato ai dirigenti scolastici, agli insegnanti e agli studenti, che sono spesso stati premiati per la loro intraprendenza imprenditoriale. Le attività proposte hanno spaziato tra i più svariati ambiti, dall’impego negli uffici di grafica, alle grandi catene di supermercati, dalle biblioteche alle strutture ricettive per i turisti. A causa dell’effettiva impossibilità di impiegare un tal numero di studenti nelle aziende, sono state calcolate come ore di alternanza molte attività interne alla scuola, ad esempio le conferenze, i corsi sulla sicurezza, le attività in laboratorio e gli open-day. Un interessante sondaggio, svolto quest’anno su un campione di 15 mila studenti, mostra che il 57% di loro ha svolto lavori non inerenti al piano di studi, il 40% ha denunciato la violazione dei loro diritti e l’87% di loro vorrebbe poter decidere del proprio percorso.
L’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro, inoltre, fa emergere le note contraddizioni fra un Nord, con un buon numero di strutture ed enti in grado di accogliere gli studenti, e il Sud e le isole, in cui mancano i posti fisici per impiegare i ragazzi. Degni di nota, ad esempio, sono i casi della Sardegna e del Molise, luoghi in cui, a causa dell’inesistenza di un tessuto produttivo sul territorio, numerose scuole hanno mandato i propri studenti in altre regioni, senza neppure rimborsare le spese per gli spostamenti. A Taranto, d’altra parte, gli allievi di un istituto tecnico industriale sono stati mandati a lavorare all’Ilva, industria tristemente nota per le gravi responsabilità di inquinamento ambientale; alcuni ragazzi sono stati inviati a lavorare dietro i banconi di Autogrill e McDonald’s.
A prescindere da esempi così eclatanti, nella quotidianità gli studenti che fanno alternanza vanno spesso a sostituire parte del personale regolarmente assunto e, soprattutto nell’ambito della bassa manovalanza e della ristorazione, da un lato essi entrano in competizione con i lavoratori, dall’altro, come quelli, subiscono le medesime violazioni di diritti: orari lavorativi non rispettati, mancati rimborsi spese…
L’idea di lavori a progetto, brevi e slegati l’uno dall’altro, la non attinenza della mansione svolta al percorso di studi e la mancanza di una tutela sindacale che garantisca diritti e doveri sul posto di lavoro fanno parte di una mentalità sempre più diffusa nel mondo del lavoro attuale: la precarietà ha infatti influenza non solo sull’ambito lavorativo, ma anche su tutti gli aspetti della vita degli individui, a partire dalle relazioni personali, trasformandosi così in un’allarmante tendenza sociale.
Oltre tutto, è necessario tener presente che le attività di alternanza scuola-lavoro non vengono in alcun modo retribuite, ma sono viste come una voce in più nei curricula. L’attitudine degli studenti nei confronti di esse, perciò, non è negativa; anzi, i giovani sono grati verso i datori (o, per meglio dire, donatori) di lavoro, che permettono loro di svolgere attività che “fanno curriculum”. Questa idea, che farà probabilmente rabbrividire molti qui presenti, si inserisce perfettamente all’interno della direzione politica che il mondo del lavoro ha da tempo intrapreso: il fenomeno dell’iper-proletarizzazione, per dirla con Alquati, ossia la produzione di valore, tramite il lavoro, che non viene riconosciuto economicamente. Lo stesso concetto, ovviamente, è applicabile anche al lavoro di cura, a quello riproduttivo, alla produzione di dati online; allo stesso modo, nelle università gli studenti sono spinti a svolgere stage e tirocini non pagati, in vista di un non meglio identificato valore aggiunto al curriculum spendibile sul mercato. Si delineano così le caratteristiche dell’attuale modello lavorativo, di cui la scuola è il riflesso non ancora perfettamente aderente. Dal momento che le attività di alternanza scuola-lavoro possono essere svolte all’interno o al di fuori dell’orario scolastico, esse vanno a sottrarre agli studenti ore di scuola o tempo libero. Da un lato, se il lavoro non prevede più una retribuzione economica, la già labile distinzione tra quest’ultimo ed il tempo libero perde totalmente di significato e, da ciò, il sistema capitalistico non può che trarre vantaggio: fin da giovani, ci si abitua ad essere inconsapevolmente sfruttati senza tregua. D’altra parte, ciò dimostra qual è il valore che la cultura assume nella società: vige l’imperativo categorico della messa a profitto; non si studia per acquisire consapevolezza ed espandere i propri orizzonti, ma per apprendere un mestiere ed entrare il prima possibile nella macchina produttiva. Le ore di lezione a scuola non hanno lo stesso valore formativo di quelle trascorse sul posto di lavoro; i due ambiti sono totalmente differenti.
Oltre a ciò, l’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro apre la strada all’ingresso dei privati nella scuola: in particolar modo negli istituti tecnici e professionali, ambienti direttamente legati al mondo lavorativo, le aziende, fornendo posti per gli stage, hanno in cambio diritto a influenzare la didattica delle scuole con finanziamenti privati, proposte di progetti mirati e pacchetti di attività.
Come già precedentemente affermato, il tessuto produttivo italiano non è omogeneo; ci sono intere aree scarsamente industrializzate. Dove possono essere impiegati gli studenti e le studentesse che abitano quelle zone? Tutto ciò non fa che accentuare le disuguaglianze della scuola pubblica: sempre più valore assume il luogo dove sei nato, in barba ad ogni principio di (presunta) democraticità.
Un altro dato interessante crea un parallelismo tra le deliranti politiche del mondo lavorativo e la scuola: così come, nei luoghi di lavoro, i lavoratori tendono ad essere sempre più separati gli uni dagli altri e la figura del datore di lavoro appare sempre più lontana e di incerta identificazione, similmente le attività di alternanza scuola-lavoro sono spesso individuali e vengono percepite come un’indebita imposizione dall’alto. Fin dai banchi di scuola, perciò, si entra nelle logiche di sottomissione e sfruttamento che, nel mondo lavorativo, hanno portato alla fine della coscienza di classe e allo smembramento del corpo sociale, rendendo pertanto impossibile la creazione di un fronte comune contro i padroni. A breve, avranno buon gioco dai palazzi del potere a non temere più alcuna opposizione alle politiche di sfruttamento e repressione!
Questo è, insomma, il modello di scuola che ci viene proposto, una scuola sempre più allineata alle politiche liberiste di sfruttamento, in cui il sapere ha valore solo se da esso si può trarre profitto economico, dove non si acquisisce senso critico, ma si deve produrre.
Proprio a causa della grande autonomia data alle scuole e della conseguente specificità dei percorsi proposti, è difficile, se non impossibile, creare un fronte comune di opposizione all’alternanza. Come spesso accade, ad esempio, gli studenti delle scuole più prestigiose, che si trovano nel centro cittadino e ricevono più finanziamenti, svolgono mansioni stimolanti e inerenti al loro indirizzo scolastico; altri studenti, invece, a causa dell’insofferenza verso strutture scolastiche ormai viste come prigioni, sull’onda di una politica scolastica ben precisa, accettano qualunque condizione lavorativa pur di non dover seguire le lezioni. In particolar modo quest’ultimo dato è sintomo di un generale clima di insofferenza verso l’apparato scolastico, non più visto – come una parte dei benpensanti di sinistra cerca di convincersi – quale luogo di formazione e crescita personale, ma come mera fabbrica sociale.
In quanto collettivi studenteschi, abbiamo avviato delle attività d’inchiesta per comprendere, districandoci nel grande caos, quale sia la reale attitudine degli studenti nei confronti dell’alternanza scuola-lavoro, e agendo caso per caso con la mobilitazione nei confronti di singoli enti o strutture.
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