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Cosa vuol dire scioperare?

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Intervento a cura del Laboratorio Crash! nella sessione su “lavoro e non lavoro” del 16 luglio 2017, durante la due giorni seminariale di Autonomia Contropotere svoltasi in Val di Susa. Qui è possibile scaricare l’intervento in pdf.

Riannodare/sciogliere i fili

Per costruire una prospettiva politica autonoma sulla pratica contemporanea dello sciopero è necessario partire dal riannodare le fila del ragionamento, a partire dal momento storico dove tende a rompersi il rapporto stretto e diretto che ha caratterizzato l’ultimo “assalto al cielo”, per quel che concerne le nostre latitudini. È infatti col tramontare del Decennio rosso che progressivamente la ristrutturazione capitalistica rovescia i rapporti di forza che si erano costruiti a partire dal contro-uso antagonista che era stato possibile realizzare nei punti più avanzati della messa a lavoro e del disciplinamento: la grande fabbrica fordista, con la soggettività che l’operaismo italiano definì come operaio-massa quale elemento trainante di una ricchissima stagione di lotte. Prendiamo dunque il discorso a partire da quella dissolvenza, aiutandoci con le parole che seguono, uscite nell’aprile del 1977:

«Le grandi fabbriche dove si era riusciti ad imporre le esigenze operaie sono ora tendenzialmente smantellate, frammentate e divise in decine di microreparti sparsi nel territorio […]. All’operaio-massa è stata sottratta una sua antica forza: quella di essere l’operaio dello sviluppo (fin dall’introduzione del Taylorismo) e di poterlo quindi arrestare rifiutando il proprio ruolo. […] la distribuzione della produzione sul territorio, cui i padroni sono stati costretti […] presuppone fino in fondo lo stato piano nella sua versione “socialista” […] Per anni gli enti locali hanno funzionato o tentato di funzionare come stato in sedicesimo, creando le infrastrutture necessarie perché il progetto della fabbrica sociale potesse passare: asili nido per permettere alle madri di fare il lavoro nero [ecc… …] L’operaio-massa è diventato operaio crisi, ha rallentato il suo potere e con esso sono entrate in crisi le strutture organizzate che le sue lotte avevano prodotto […] la struttura della grande impresa in Italia […] lavora non più facendo fluttuare il capitale in modo che vi siano effetti di domanda di lavoro laddove vi è eccesso di investimento, ma invece tentando di portare il capitale dove c’è la forza lavoro. Ma per portarla dove c’è la forza lavoro non si possono fare cattedrali nel deserto […]. I poli di sviluppo (Taranto, Napoli…) non hanno prodotto effetti di stabilità […] incrementi di produttività […] effetti economico-politici che giustifichino la grandezza degli investimenti. Ha funzionato […] il comando politico che la grande impresa, l’impresa multinazionale, sono in grado di costruire a carico di una forza lavoro ufficialmente precaria e la cui precarietà è usata come elemento addizionale rispetto al comando politico»1.

Di questo testo ci pare significativo rimarcare il nodo dello spalmarsi delle funzioni della fabbrica sul territorio verso la costruzione di una “fabbrica sociale”; l’idea di operaio-crisi; il tema dell’impresa multinazionale e della precarietà. È infatti a partire dall’analisi e dall’interpretazione di questi elementi che la teoria e la prassi rivoluzionaria hanno da allora iniziato a disseminarsi e divergere in molteplici direzioni (tutte per lo più “infruttuose” in termini generali, dicendolo coscienti del peso della sconfitta politica subita allora e dell’enorme potere dei processi capitalistici da lì dipanatisi). Ci sembra tuttavia importante, nell’impossibilità di una discussione complessiva di tutte queste direzioni critiche, sgombrare subito il campo da un paradigma che ha avuto una certa rilevanza nei Duemila all’interno della teoria critica. Ci riferiamo in particolare a quella direzione che ha tradotto l’operaio-crisi (e la sua interpretazione politica di allora, l’“operaio sociale”) in maniera piuttosto lineare nel verso di una “cognitivizzazione del lavoro”, che ha fatto del “cognitariato” una categoria per lo più oscurante e che ci pare che politicamente abbia per lo più girato a vuoto. Si fa riferimento ovviamente a un discorso eterogeneo e sfaccettato. Tuttavia quando vediamo che anche di recente c’è chi adotta tale prospettiva ripetendo come fossero ricettine e strumenti a-storici e universali alcuni snodi del passato, ci viene ancora di più l’idea che sia necessario sparigliare le carte e ri-aprire un campo di ragionamento. Insomma, non si sa se chi scrive che mentre nel passato si è assistito al passaggio dall’operaio di mestiere all’operaio massa, oggi ci troveremmo di fronte al passaggio “dall’operaio cognitivo di mestiere all’operaio cognitivo massa” (sic!), stia semplicemente delirando, lo faccia per accattonaggio politico, o soffra di strabismo (in senso letterale: ossia l’incapacità di vedere la profondità delle cose). Poco importa e soprattutto nulla conta nelle dinamiche del reale. Insomma, sgombrare il campo di questi inutili residuati ideologici, sapere che i santini pietrificati dei Maestri sono buoni solo come quadri da appendere al muro, e riguardare ai “fondamenti” sapendo che la tradizione rivoluzionaria è fatta per essere tradotta nel presente e dunque tradita, con un approccio sempre eretico al cantiere marxiano e alle sue storie.

 

Punti di vista

Per quel che ci riguarda, per costruire oggi una nuova prassi dello sciopero è necessario partire dai conflitti e dalle lotte, dai comportamenti di classe e dai suoi movimenti. In questo senso il processo di organizzazione e scontro sociale che da anni viene definendosi nel settore logistico nei nostri territori ha “riaperto per noi” il problema della sciopero. Ossia di una pratica definita del conflitto capitale-lavoro che da decenni era per lo più (tranne rare eccezioni) stata progressivamente normata, addomesticata, resa blanda partecipazione alla vita democratica. Gli scioperi nella logistica hanno invece dato nuova linfa allo sciopero come azione soggettiva di interruzione di un rapporto sociale (di dominio), come pratica conflittuale che si definisce sull’immediatezza del rapporto di forza.

Guardare dall’interno e attraverso le lotte nella logistica consente inoltre di tentare, quantomeno in forma approssimata, un primo aggiornamento del contesto delineato dalla precedente citazione, tentando brevemente di abbozzare lo scenario attuale dentro e contro il quale agiamo. La logistica è infatti un prisma e un punto di osservazione privilegiato per indagare le mutazioni contemporanee, essendo il collante delle odierne catene del valore globali ed esplicandosi nella capacità di mettere in relazione tra loro profili e regimi di lavoro tra loro distinti e differenti, facendo ricorso alla continua “evoluzione” dei sistemi di trasporto e delle tecnologie comunicative. La progressiva distribuzione della fabbrica sul territorio è stata resa possibile anche grazie all’implementazione di una serie di tecniche logistiche di interconnessione delle varie fasi produttive, tanto che quel processo di scomposizione e ampliamento del raggio di azione della produzione capitalistica iniziato negli anni Settanta si è da allora progressivamente esteso e ampliato quantitativamente (geograficamente) e qualitativamente (come capacità di sussunzione). Ecco allora che oggi si prefigura una grande fabbrica globale senza pareti, un sistema di produzione logistico che lega estrazione delle materie prime, loro lavorazione, l’assemblaggio dei prodotti, la loro messa in funzione, la loro distribuzione e il loro consumo, a livello compiutamente planetario. Ecco dunque che il ciclo di capitale, guidato dai processi di finanziarizzazione e reso possibile sui piani del comando dalla “quarta rivoluzione industriale”, è sempre più orientato a una logica logistica e guidato (in termini di definizione degli standard e di capacità di dettare i ritmi) dalla distribuzione che tende quasi a sopravanzare la produzione quale “cuore” del sistema capitalistico. Per questo emergono tra le prime aziende globali compagnie essenzialmente logistiche come Amazon, e per questo le lotte nella logistica hanno una rilevanza di carattere strategico. È proprio il progressivo definirsi di un tessuto sempre più allargato ed esteso della produzione che ha ricoperto il territorio di una maglia metropolitana sempre più fitta, costituita in una dialettica tra potere dello Stato e “sregolazione” neoliberale che ha punteggiato i territori di magazzini, strade, hub, edifici di varia natura, nuove aree abitative… definitivamente sfrangiando e mettendo in evaporazione la città-fabbrica descritta da Alquati, la metropoli fordista che si dissolve nell’urbanizzazione diffusa a scala planetaria. D’altro canto questo rapporto tra innovazione produttiva e trasformazione urbana è costituivo del rapporto di capitale. Questo infatti “crea spazio”, e sin da quella che viene definita come “rivoluzione industriale” si è sviluppata congiuntamente una “rivoluzione urbana”. La fabbrica non è mai stata infatti un luogo puntuale racchiuso in quattro mura, ma punto di concentrazione di una forza-lavoro e di un processo produttivo inseparabile da un intorno urbano che la nutriva e innervava. Tenere assieme industrializzazione e urbanizzazione ci pare d’altro canto decisivo anche per riuscire a tenere assieme lavoro produttivo e riproduttivo.

A suo tempo la metropoli aveva spazzato via la città storica di matrice medievale, oggi la città-fabbrica si trasfigura nel farsi globale della fabbrica. Siamo in altre parole probabilmente posizionati su un punto limite, in cui la storia iniziata con la rivoluzione industriale è giunta a un esito “estremo” ma inscritto nella sua costituzione sin da principio, e proprio in questa striatura i suoi tratti caratteristi tendono a de-generare.

L’industria è d’altra parte in primo luogo una forma di costruzione della (merce) forza-lavoro, un laboratorio di produzione di soggettività capitalistica che dota la peculiare merce-umana di tutte le bizzarrie fantasmagoriche della merce per come le inquadrava Marx:

«A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d’uso, non c’è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano. È chiaro come la luce del sole che l’uomo con la sua attività cambia in maniera utile a se stesso le forme dei materiali naturali. P. es. quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare»2.

Ecco allora, che questo “potere logistico” della produzione dello spazio capitalistico e delle soggettività che lo abitano va però correttamente inquadrato. Proprio in quanto “rapporto” (antagonistico), il capitale produce uno spazio che porta sempre anche il segno del conflitto. La metropoli nasce contro il 1848 come dispositivo logistico per eliminare la possibilità di erigere le barricate data dalla vecchia Parigi popolare e per aprire grandi viali alla circolazione di truppe e merci. Ma la metropoli sono anche le migliaia di “mani invisibili” che determinano la contro-logistica delle barricate nella Comune di Parigi! Ancora oggi nel posizionarsi rispetto alla metropoli non si può guardarla come mero dispositivo di dominio dal quale sottrarsi, ma quale rapporto di potere in costante mutamento da rovesciare e posta in palio del conflitto di classe. Le infrastrutture metropolitane non sono solo fredde pietre, ma un caldo campo di conflitto.

Come scrivevamo due anni fa in “Crash! nella metropoli”:

«Prendiamo il territorio come un complesso amalgama e assemblaggio di forme di vita, inscritte entro una morfologia che lega assieme storia, modelli giuridici, dispositivi politici, di controllo, di normazione, flussi economici, trame mediali, prodotti architettonici. Un territorio che oggi è sempre più cangiante, migrante, in continua trasformazione. In breve: il territorio come il prodotto costantemente mobile di relazioni sociali. Dunque di sfruttamento, lotte, amicizie, inimicizie, tensioni. Questa materia è un’eterogenea strutturazione di rapporti di dominio e liberazione, sfruttamento e insubordinazione. Il territorio non va dunque a nostro avviso ridotto ad ambiente ostile predisposto dalla produzione capitalista, non è un grande carcere che cattura le possibilità di insorgenza. Ma non è nemmeno l’idealizzazione di quartieri proletari solidali e pronti alla lotta, laddove invece in assenza di intervento politico sono spesso l’anomia, la solitudine, la disgregazione, il gioco d’azzardo e una rabbia incanalabile anche in progetti reazionari a farla da padrone.

Il territorio è piuttosto il prodotto in divenire di una relazione antagonistica, una trama conflittuale, un campo tensivo che non esiste come forma predefinita, né tanto meno unitaria. La forma che esso oggi assume è quella di un processo di urbanizzazione sempre più estesa. Un divenire metropoli che, articolandosi su differenti scale, tende a ricoprire ogni ambito geografico. E la metropoli non è il background contro cui o per cui le lotte si battono, ma un battleground attraverso il quale le lotte si definiscono! Uno spazio di contesa sempre meno segnato dalla capacità di pianificazione delle contro-parti. L’urbanizzazione e la produzione neoliberale ci dicono proprio questo: da un lato lo Stato funziona come ente che deve garantire l’installazione di piattaforme logistiche per la mobilità e la circolazione del capitale e delle merci (e difendere, anche militarmente, tali strutture), lasciando alla (ir)razionalità del privato lo sviluppo della metropoli. Quarant’anni di tale sistema governamentale hanno prodotto un tessuto urbano sempre più disarticolato. Ed è proprio tale “confusione” dei territori che apre enormi praterie per l’ipotesi antagonista.

È a partire da tali considerazioni che riflettiamo e ci muoviamo con pratiche politiche orientate nella direzione della (contro)-territorializzazione. Ciò significa in primo luogo sollevare un’istanza di potere che opera nell’ottica di una secessione offensiva di pezzi di territorio»3.

 

Per chiudere questa riflessione, ci pare piuttosto emblematico, per inseguire le tracce di una ricostruzione della forma-sciopero all’altezza dei nostri tempi, guardare all’ultima “frontiera” di espansione capitalistica, ossia la consegna just in time and to the point della merce nelle abitazioni private (pensiamo ad esempio ad Amazon, al food delivery, ecc…). Qui infatti si concretizza in maniera iconica il sistema globale di produzione/distribuzione/consumo e, ricostruendo i tracciati di queste filiere, viene in luce la moltiplicazione del lavoro quale carattere distintivo del capitalismo globale. Questa nuova logistica metropolitana che punta a realizzare valore con un click ha quale figura lavorativa emblematica i cosiddetti rider, chiamati spesso con gergo marinaro “flotte”. Nuovi marinai individualizzati che col proprio mezzo attraversano i flussi metropolitani con condizioni contrattuali e assistenziali tendenzialmente del tutto sregolate, muovendosi “all’interno” del mare confinato del territorio-Google maps, venendo organizzati da algoritmi e assemblati via smartphone. Proprio questa figura lavorativa negli ultimi due anni è stata protagonista in tutta Europa di innumerevoli processi di insubordinazione, che se non hanno sicuramente raggiunto forme radicali di conflittualità indicano tuttavia un terreno di con-ricerca da sperimentare su un “punto alto” dello sviluppo. Sia detto en passant, l’operaietà definentesi in queste mansioni lavorative sta anche sviluppando curiosi processi di identificazione dei lavoratori con la propria mansione lavorativa che, per ipotesi, potrebbero alludere a processi di soggettivazione che si producono “dall’interno” del lavoro (in contro-tendenza, dunque, con la generale svalorizzazione del “lavoro precario”) proprio nel suo essere esposto sulla superficie metropolitana. Emblematica di ciò l’esperienza della CLAP parigina, il luogo probabilmente più radicale delle esperienze di auto-organizzazione dei rider, con i lavoratori che hanno partecipato alle mobilitazioni contro la Loi Travail inserendosi coi propri striscioni nelle prime file dei cortège de tête, vestendosi di nero come tutti gli altri manifestanti, ma al contempo identificandosi e indossando i colori di Deliverooo, la loro azienda. Su questi e molti altri esempi è insomma necessario rilanciare percorsi di inchiesta e con-ricerca, riprendendo la matrice militante di queste pratiche e sottraendole alle derive accademiche e da chi le usa come innocue bandierine.

 

Automazione, metropoli, precarietà e tempo

A partire da queste considerazioni e dal punto di vista che è possibile strutturare nella partecipazione alle lotte nella logistica, vorremmo proporre (in maniera necessariamente schematica) alcuni punti e temi interpretativi, alcune considerazioni parziali, problematizzazioni e spunti di discussione attorno a quattro ambiti: automazione, metropoli, precarietà e tempo.

. Automazione La rilettura del Frammento sulle macchine dai Grundrisse di Marx crediamo sia stato uno degli spunti e delle anticipazioni più significativi lasciatici dal pensiero operaista. Contro la “cultura del Lavoro” della Sinistra, l’Autonomia scriveva sui muri «Lavoro Zero e Reddito Intero – Tutta la Produzione all’Automazione», e guardava all’ambivalenza del “furto di saperi operai” mezzificati nelle macchine aprendo al potenziale di liberazione dal lavoro che in potenza l’automazione rappresenta. Se per la “generazione militante” che ci precede queste riflessioni prefiguravano tendenze da curvare, oggi il tema dell’automazione è tornato fortemente in auge, ma totalmente in mano al nemico. Agito con lo spettro della “fine del lavoro”, che viene comunemente interpretato quale assenza di reddito, impoverimento di massa, disoccupazione, espulsione. Il che è evidentemente l’effetto immediato e il risultato voluto dall’automazione padronale. Ciò non toglie che proprio su questa linea sottile, sul possibile rovesciamento della “fine del lavoro (capitalistico)”, si situa oggi la frontiera per pensare anche i processi di liberazione. Siamo in fondo posti di fronte all’utopia, o se si vuole alla fantasia del capitale: la possibilità di eliminare il lavoro, il suo costitutivo antagonista. Capitale e lavoro sono sempre state due forze che puntano costantemente alla reciproca separazione e autonomia. Tuttavia mentre il lavoro può fare a meno del capitale, quest’ultimo non può rinunciare al lavoro. Non a caso il capitalismo dal volto buono a là Zuckerberg punta a colonizzare con Internet le parti non coperte d’Africa e ad estendere un “reddito universale di base” come garanzie di inserimento di sempre maggiori quote di lavoro-vivo in potenza all’interno del sistema capitalistico.

Ciò detto, si tratta evidentemente oggi di ri-articolare un discorso politico che non può che fare i conti con una sostanziale irrilevanza e irricevibilità sociale immediata di una produzione sloganistica basata sul “rifiuto del lavoro”. E questo è un nostro problema. Ma anche le controparti non stanno benissimo. Oggi infatti quel processo di espropriazione di saperi al lavoro vivo per condensarli in lavoro morto (o, se si vuole, il passaggio dal capitale variabile al capitale fisso), e la progressiva diffusione macchinica col digitale e le nuove tecnologie, non può che essere ripensata, sotto due prospettive principalmente. Da un lato infatti, e lo smartphone è in ciò emblematico, assistiamo a una progressiva “ibridazione” dei corpi con le macchine, che non può che condurre a sfumare le dicotomie marxiane e portare la riflessione su quanto questo movimento si dia in termini di aumento dell’alienazione e quanto invece esso vada inteso come capacità di riappropriazione del capitale fisso da parte del lavoro vivo. O, sotto un altro punto di vista, quanto della pulsione al consumo di queste nuove tecnologie contenga spinte liberogene e quanta sia la capacità del capitalista collettivo di sfruttarle a proprio vantaggio. Ma c’è un secondo e decisivo aspetto da rilevare in proposito, che ci pare ben portato in luce dalle parole di Bifo che mettiamo in seguito. Ossia l’incapacità delle attuali (e potentissime) innovazioni tecnologiche di porsi quale argine alla tendenziale caduta del saggio di profitto:

«Un’innovazione merceologica immensa, della cui enormità dovremmo essere consci. Ciononostante lo smartphone non ha contribuito se non marginalmente a contrastare gli effetti della stagnazione, non ha rilanciato la dinamica della crescita. Intorno alla diffusione dello smartphone si sono costruite imprese di grande potenza, questo è fuori dubbio, ma l’effetto economico in termini di occupazione non è neppure lontanamente paragonabile all’introduzione dell’automobile nella produzione industriale del primo novecento. Questo significa che la crescente informatizzazione del processo produttivo, e la crescente intellettualizzazione dei processi di lavoro moltiplica la potenza produttiva e contribuisce all’arricchimento della società in termini di valore d’uso disponibile, ma non sovverte la caduta del saggio di profitto, non restituisce energia alla crescita del valore. Negli ultimi decenni la potenza produttiva ha continuato la sua espansione, si è anzi accelerata, e ha avuto una penetrazione più capillare che mai. Si tratta di un successo del capitalismo come sostiene la vulgata dell’economia neo-liberale? Niente affatto, si tratta di un effetto dell’attività cooperativa di milioni di lavoratori»4.

. Metropoli In svariati passaggi abbiamo già accennato al tema, ci limitiamo dunque ora ad aggiungere qualche riflessione che mira a rinsaldare il ragionamento sul legame costitutivo tra industria e urbano. La metropoli planetaria contemporanea ci pare infatti confermare questa ipotesi ermeneutica. Pur di fronte a trasformazioni piuttosto radicali del rapporto tra lavoro e territorio (basti qui citarne tre a loro modo iconiche: la diffusione dell’abitazione quale luogo di lavoro; il sempre maggior ricorso al lavoro migrante; la digitalizzazione del lavoro), lo spazio metropolitano rimane lo snodo dello sciopero d’oggi. Si badi bene: non stiamo riprendendo la teorizzazione negriana col suo semplificato passaggio “dalla fabbrica alla metropoli” (e il suo correlato ideologico “dalla classe alla moltitudine”, che tende surrettiziamente a fare di una fenomenologia della disgregazione di classe un vettore di forza politica), e dunque uno sguardo sulla metropoli quale essenza produttiva. Stiamo piuttosto facendo riferimento a come le lotte hanno inciso e possono incidere quali vettori di forza contro-usando e sabotando la circolazione logistica metropolitana per accumulare forza, fare male alle controparti, divenire metastasi nel ritmo del capitale.

Per quel che concerne l’Italia, abbiamo partecipato alla riflessione collettiva elaborata durante i movimenti studenteschi del 2008-2010, che ha condotto nell’autunno del 2010 alla sperimentazione di un tentativo di praticare la forma-sciopero che individuava nel blocco dei flussi urbani la propria caratteristica precipua. Il sommovimento prodotto dall’intesa su scala nazionale dell’invasione di autostrade e tangenziali, il blocco dei binari ferroviari, l’irruzione en masse sulle strade, è stato un primo tentativo di sincronizzazione di una pratica scioperante che, mutatis mutandis, abbiamo visto ripetersi nell’ultimo anno in Francia. Qui infatti la componente studentesca ha inteso la propria partecipazione al movimento contro la Loi Travail nella forma dello sciopero metropolitano, a partire dal blocco di licei e università come ad esempio fatto dal MILI. La moltiplicazione di questi blocchi ha generato degli effetti-sponda che si sono riversati nei cortei sindacali, prendendone la testa e radicalizzandoli, e snodandosi anche nell’esperienza di Nuit Debout che in fondo, come per molte delle esperienze del “movimento delle piazze” del 2011-2013, non si limita a occupare uno spazio pubblico ma tramite quell’atto incide direttamente sui flussi urbani. Il nodo irrisolto in proposito si situa tra la possibilità di questa “forma-sciopero” di trovare una propria autonoma temporalità, non riassumibile né nello spazio-tempo dell’evento né in quello della geometrica moltiplicazione.

 

. Precarietà Il tema della precarietà ha, seppur in forme variegate, caratterizzato molti dei tentativi di intervento e di produzione discorsiva “di movimento” rispetto al tema del “lavoro” dell’ultimo ventennio. Lo vorremmo dire in maniera tranchant e provocatoria: è giunto il momento di buttare via questo termine. Lo diciamo da un lato a partire dalla constatazione dell’incapacità di ancorare a questo tema pratiche reali di auto-organizzazione e conflitto, e lo sosteniamo in primis a partire dalle nostre esperienze, che ci hanno visti spesso negli anni passati quali attori nel tentativo di politicizzare e usare la leva della precarietà. Ma bisogna saper apprendere dalle proprie insufficienze e aver la capacità di modificare i propri lessici e percorsi di inchiesta e intervento. In seconda battuta c’è un tema di ordine storico che sostiene questa riflessione. Detta seccamente: il proletariato è sempre stato precario. C’è il rischio che “l’eccezione” del periodo welfarista sviluppatosi negli anni Trenta statunitensi e nel Dopoguerra in Europa funzioni oggi più come gabbia etnocentrica dell’immaginazione politica che come meccanismo di attivazione sociale.

La redistribuzione della ricchezza tramite reddito indiretto e servizi, la tutela del “diritto di sciopero” e la serie di garanzie che hanno regolato quella fase storica sono state il frutto della spinta esercitata dalla Rivoluzione d’Ottobre sulle classi dirigenti occidentali, la paura che quella aveva ad esse impresso. Nonché dal potente processo di organizzazione della lotta di classe all’interno dell’“Occidente” stesso. Non bisogna inoltre scordarsi che la “precarietà” (leggasi “flessibilità”) è anche il prodotto, o se si vuole il riflesso soggettivo, dello scontro di classe del periodo da un punto di vista operaio, ossia della pulsione alla rottura del sistema di fabbrica e delle sue rigidità da parte delle soggettività operaie. In questo senso oggi il rischio di adottare la “precarietà” come punto prospettico dell’agire politico corre sempre più il rischio di “guardare indietro”. E non può che far riflettere che i punti più alti di conflittualità si producono oggi proprio laddove è massima la precarietà, come nel settore logistico. Ciò ovviamente non deve condurre al classico (e inutile) adagio del “tanto peggio – tanto meglio”, quanto a sperimentare e ridefinire le coordinate di un agire antagonista con fare eretico, collocati nelle nostre provenienze, con uno sguardo all’immediato e uno all’infinito.

 

. Tempo I tre passaggi appena accennati conducono a misurarsi con l’elemento della temporalità, sia essa quella macchinica e della Rete, sia essa la temporalità metropolitana o quella spezzettata del “lavoro precario”. La percezione soggettiva del “tempo di lavoro” è inoltre uno degli elementi che accomuna la serie di interviste che abbiamo sviluppato con la rubrica “Stralci di inchiesta” proposta su Infoaut. Quello che ci pare emerga è infatti il diffondersi di una percezione secondo la quale l’elemento primo di insoddisfazione e rifiuto che emerge in nuce sia quello di un tempo di vita che sfugge sempre più dalle proprio mani. Il comando sul lavoro può infatti attivarlo e disattivarlo a proprio piacimento, mettendo a lavoro l’intera vita. Anche qui, una precisazione. Affermando ciò non facciamo riferimento tanto al discorso sulla messa a valore delle capacità timiche, affettive, cognitive del lavoro. Parliamo di una cosa più semplice, ossia di come il tempo di vita sia del tutto nella mani della gestione padronale, che può usarlo “alla spina” senza pagare nulla se non nel momento dell’erogazione. Sempre il Moro di Treviri scriveva che «è in corso una guerra civile secolare per la riduzione del tempo di lavoro», e chi oggi stia vincendo questa guerra è evidente. Durante la Comune i rivoluzionari sparavano sugli orologi. Dobbiamo capire come poter riprendere simbolicamente quella pratica per riappropriarsi di tempo sociale sottratto al comando politico sul tempo.

 

Organizzari con-, per, attraverso il conflitto

Come ultimo tema di questo intervento, vorremmo proporre alcuni lineamenti di lettura sul come organizzare il conflitto, come organizzarsi in esso e per esso, come organizzarsi con quei segmenti lavorativi attorno ai quali è possibile immaginare la riapertura di processualità di ricomposizione di classe. Nella consapevolezza che il tema del “lavoro e non lavoro” è solo uno dei terreni attorno ai quali è necessario intervenire nell’ottica del rilancio di un’ipotesi rivoluzionaria a-venire. Ma al contempo nella chiarezza rispetto al fatto che questo terreno di scontro e organizzazione per troppo tempo è stato abbandonato o lasciato in subordine e che, di fronte al progressivo svanire delle sue classiche forme di organizzazione (sia da parte sindacale che da parte padronale) si aprono praterie da indagare e rispetto alle quali è necessario strutturarsi per poter cogliere le occasioni per l’incendio.

In questa direzione ci pare che il tema dello “sciopero” sia un territorio aperto all’irruzione dei sussurri della storia, e la recente diffusione della semantica dello sciopero (non da ultimo l’8 marzo) ne è indicatore. Ma prima di approfondire tale elemento vorremmo partire nuovamente da un riferimento alla fine del Decennio rosso e dei nodi irrisolti dai quali occorre ripartire, facendolo con un estratto dall’ultimo paragrafo de La tribù delle talpe scritto da Sergio Bologna e uscito nel 1978, a chiusura di un paragrafo chiamato “IWW a Torino”:

«Nel 1964 Tronti aveva lanciato il progetto: “Lenin in Inghilterra”, possiamo noi oggi lanciare il nuovo motto: “IWW a Torino”? Abbiamo bisogno di mediazioni pratiche, di un settore di forza-lavoro concreto su cui innescare questo progetto. E non vedo altro settore che quello della circolazione delle merci, dai porti all’autotrasporto, un settore in potente espansione, dinamico […]. D’altro canto è con gli autoporti che si batte la rigidità della classe operaia […]. La storia della Fiat come storia del ciclo dell’auto, continua ormai sul piano del decentramento multinazionale; resta in Italia il comando Fiat sull’intero processo di circolazione delle merci. Mezzo milione di camionisti, decine di migliaia di lavoratori portuali, decine di migliaia di lavoratori del trasporto aereo, su ferrovia, del traghetto, centinaia di migliaia di lavoratori degli appalti, del facchinaggio, serbatoio immenso di precariato e lavoro nero, di superlavoro ma anche di buon salario, centinaia di cooperative dove certo sindacato esercita il racketeering all’americana, dove la mafia ha i suoi puntelli […] dentro questo settore è possibile praticare il progetto: “IWW a Torino”. […] Dobbiamo usare tutte le nostre conoscenze, tutta la nostra intelligenza per decodificare e denunciare i piani dello stato mondiale, penetrare nei più perfezionati meccanismi del disordine monetario, nei laboratori ingegneristici dove si preparano gli androidi. Dobbiamo diffondere quel sapere collettivo che una parte del proletariato italiano si è formato nell’erogazione di reddito, quella capacità di penetrare nelle maglie del sistema assistenziale e previdenziale italiano in modo da appropriarsi di una quota sempre maggiore di plusvalore sociale. Dobbiamo continuare infine a far parlare le masse, gli ignoti, i senza storia ed esercitare così la critica al sistema dei partiti, alla società della rappresentanza, dello spettacolo»5.

Ci pare evidente da questa citazione: i nodi che era possibile mettere sul piatto all’interno del potente scontro di classe che ha contraddistinto quella stagione sono tutt’ora da sciogliere. Riannodiamo però le fila del discorso ripercorrendo quanto sinora discusso, proseguendo ancora una volta per tracce e spunti, necessariamente parziali e semplificati, ma che speriamo utili a una discussione politica sulle prospettive dell’ipotesi di intervento antagonista rispetto al “lavoro”.

Se la logistica ha riaperto il problema dello sciopero come momento e luogo di organizzazione, è probabilmente su questo terreno che si gioca una possibilità in avanti di connessione con altri settori lavorativi e con una galassia più ampia di istanze per la giustizia sociale. È infatti solo all’interno dei processi di lotta che è possibile immaginare la strutturazione di questi legami, e dunque all’interno di una forma sciopero che va re-inventata. Ripensandola proprio a partire dai due elementi che abbiamo messo in luce, ossia il lavoro e il territorio. Crediamo infatti che proprio dal pensare congiuntamente queste due dimensioni sia possibile rilanciare un più ampio fronte di conflittualità. Inoltre, è proprio a partire dalla dimensione urbana che il problema politico della lotta transnazionale può essere produttivamente affrontato, andando oltre tutte le per lo più sterili ricerche intellettuali sullo “spazio politico dei movimenti”. Se infatti si guarda ai movimenti dei primi anni del nuovo millennio, è possibile notare come proprio sulla compresenza tra dimensione urbana e globale si sia giocato uno degli elementi della loro forza. Basti pensare alla sequenza di insorgenze dal 2011 al 2013 tra Maghreb e Mashreq, Grecia, Spagna, Turchia, Brasile… Questi eventi hanno fatto leva proprio sulla capacità di risonanza globale e sull’effetto contagio la loro forza, mancando tuttavia di una reale capacità di radicamento e di durata nella loro interruzione della normalità capitalistica. Per gli anni a venire dunque un programma politico minimo di pratica dello sciopero deve mirare a tenere assieme questi vettori, sperimentando nuove interconnessioni tra il blocco delle catene logistiche, il rilancio e l’estensione di una nuova forma-sciopero sui luoghi di lavoro, e rilanciando le potenzialità dell’interconnessione globale delle mobilitazioni urbane, dello sciopero metropolitano. Qui si danno le possibilità per un nuovo salto in avanti di una possibilità di emancipazione.

Ripensare dunque, per chiudere, lo sciopero come pratica politica in grado di andare oltre le metafore che la stanno guidando. Non si tratta ovvero di contrapporre una “verticalità” del politico a una “orizzontalità” del sociale e del suo piano organizzativo, ma di tracciare direzioni “oblique”, necessariamente a-lineari. Indagare dunque la politicità intrinseca che si definisce nel quotidiano movimento della classe e nella serie di conflitti che si producono, e praticare una “politica sovversiva del border” come capacità di rompere le divisioni che ci impongono e con le quali ci governano, e ponendo al contempo nuove rigidità di parte. Si tratta insomma di rifiutare la “separazione” tra sociale e politico, o meglio porsi il problema della loro articolazione.

In questo senso la forma-sciopero sulla quale ci interroghiamo, logistica e metropolitana, è già oltre la pratica sindacale istituzionalizzata e si misura oltre la momentanea interruzione del comando sul luogo di lavoro. Si misura “sulla rottura”, articola in forma inedita le differenze che scompongono il lavoro-vivo in una prospettiva di rifiuto del proprio essere merce forza-lavoro. Lo sciopero come luogo di tensione dove il fronte mobile dell’oppressione capitalistica può essere impattato, uno sciopero contro il lavoro che nella sua essenza logistica e metropolitana costruisca –parte e orizzonti comuni rovesciando all’unisono le forme di organizzazione del capitale aggredendolo proprio nel suo attuale punto di forza, la mobilità.

Ci piace chiudere con alcuni recenti frammenti di immagini. Quando è stato portato uno dei più significativi attacchi allo snodo organizzativo delle lotte nella logistica con l’arresto del coordinatore nazionale del sindacato, la risposta si è mossa su più livelli. Dopo poche ore molti magazzini e Interporti venivano picchettati. Il giorno dopo le porte del carcere venivano sbattute da centinaia di lavoratori, assalendo direttamente il luogo fisico del potere, mentre il passaggio successivo si risolveva in un corteo. Di fatto vietato dalla questura, questo corteo aveva la capacità di costituire una testa ingovernabile composta da avanguardie di lotta forgiate in anni di conflitto nei magazzini e militanti autonomi, capaci di dirigere il corteo al blocco dei binari e alla successiva rottura di tutti i divieti conquistando metro dopo metro l’agibilità ad attraversare tutto lo spazio cittadino. Da questi frammenti ci sembra possibile guardare alla nuova stagione di lotta che si sta per aprire, ricercando la combinazione di blocco della logistica, sciopero della metropoli ed “effetto contagio” dei conflitti urbani come possibile valvola per l’apertura di nuove possibilità politiche.

 

Note

1 Studi operai, La fabbrica diffusa, Collettivo Editoriale Librirossi, Milano, aprile 1977, pp. 7-14.

2 K. Marx, Il Capitale, Libro I, 1.

http://www.infoaut.org/target/crash-nella-metropoli-2015.

http://effimera.org/rifiuto-del-lavoro-ai-tempi-della-precarieta-franco-berardi-bifo/.

5 Collettivo Primo Maggio (a cura di Sergio Bologna), La tribù delle talpe, Opuscoli marxisti 23, Feltrinelli, Milano, 1978, pp. 156 e ss.

 

InterventoZscioperoZAutZCont.pdf

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