Geopolitica e mondo in tensione: uno sguardo di parte
Relazione a cura della redazione di Bologna di InfoAut.org al seminario di Autonomia Contropotere, Val di Susa, 15-16 Luglio 2017
Per provare a tracciare un quadro delle attuali linee di tensione e di scontro, nonchè dei possibili scenari a venire nell’ambito delle relazioni internazionali e della geopolitica nel 2017, finalizzato a comprendere quali possano essere gli spazi che si aprono per le mobilitazioni, non possiamo che partire dallo scambio tra Merkel e Trump a margine del g7 di Taormina che costituisce di fatto il più importante esito della passerella siciliana.
La Germania sembra aver compreso che l’egemonia americana sul globo è sempre più in discussione, se con egemonia intendiamo un sistema di dominio ideologico oltre che economico e militare, campi nei quali gli USA sono ancora al vertice mondiale. Sembra che oggi la direzione sia quella di una prevalenza americana globale, più che di una sua egemonia. Ad un processo di dispersione di potenza in molteplici attori, statali e non, sembra accoppiarsi una sempre più radicata tendenza all’emersione di un mondo multipolare, dove ognuno cerca di ritagliarsi un ruolo inedito e inatteso se si pensa che siamo a meno di trent’anni dal trionfo americano simboleggiato dal crollo dell’URSS e dal conflitto in Kuwait di qualche anno dopo.
Questa dispersione di potenza va collegata allo scenario per il quale la controparte capitalista non è ad oggi riuscita a trovare un’opzione complessiva di uscita dalla crisi sistemica inaugurata con la bolla dei subprime del 2007. Questa crisi continua a far sentire i suoi effetti, scaricandosi nel peggioramento delle condizioni materiali di vita di centinaia di milioni di persone, e non sembra contestualmente profilarsi, almeno nel medio periodo, un ciclo di innovazione capitalistica che possa mettere fine ad una fase dove i profitti sono costruiti essenzialmente in ambito finanziario e dove lo scoppio di nuove bolle speculative è sempre all’ordine del giorno, innescando potenzialmente nuove spirali.
Il punto di non-ritorno e l’innesco della possibile crisi, che avrebbe portata dirompente sul lungo periodo, dei rapporti atlantici tra le potenze tedesca e americana sembra poter essere quello di un’eventuale apertura di relazioni strutturata tra Germania e Cina a partire dal progetto di rivoluzione logistica consistito nella Belt and Road Initiative, meglio conosciuto come Nuova Via della Seta. Teniamo conto che proprio sulla questione logistica si sfidano Usa e Cina, entrambe impegnate nella costruzione di infrastrutture sia fisiche che telecomunicative ed informatiche che possano essere utili agli interessi dei propri capitalismi.
Proprio il tema della logistica e della gestione e del dominio dei flussi, intesi come ambiti cardine della competizione infra-capitalistica, saranno uno dei temi futuri di scontro su cui le lotte possono assumere rilevanza straordinaria quando si insedino in snodi cardine dello sviluppo capitalistico. Basta rimanere in Italia per accorgersene: quanto successo in Val di Susa sembra essere, letto con gli occhi di oggi, una anticipazione del presente, che si ripropone anche in relazione a quanto successo in Salento, dove il Movimento NoTap contesta uno dei più importanti progetti infrastrutturali nel campo dell’energia portato avanti dall’Unione Europea.
Cartina di tornasole della questione logistica è la questione migrante, l’altro principale flusso su cui è necessario ragionare, e mettere in relazione proprio in uno sguardo unico insieme alla questione logistica. In un’epoca in cui il paradigma dei muri sembra imporsi ovunque, quello che è necessario dire che in questo ambito la controparte sembra più costruire meccanismi di accumulazione flessibile sui corpi di chi migra, costruendo una maggiore difficoltà e una maggiore repressione finalizzata a rendere più docile colui che riesce a raggiungere le nostre coste. Setacci più che muri, inclusione differenziale e basata sul just-in-time più che rifiuto puro e semplice. La destabilizzazione a mezzo guerra e di politiche neocoloniali soprattutto nell’Africa Subsahariana va riletta così alla luce dell’essere un piano funzionale a proseguire percorsi di sfruttamento nelle metropoli, dove spesso la forza-lavoro importata è impiegata proprio nell’ambito della dimensione logistica, nei processi di connettività e di circolazione delle merci. La risposta non può essere di conseguenza uno sterile umanitarismo, ma deve affrontare il nodo sistemico della valorizzazione del migrante cogliendone le radici economiche e politiche profonde.
Venendo agli USA, l’ascesa di Trump segnala la crisi della seconda globalizzazione, quella turbocapitalista e neoliberista iniziata con i travagli dell’economia mondiale degli anni Settanta e messa in forma Reagan e Thatcher alla fine di quel decennio, in seguito all’avanzata dei movimenti sociali che si era verificata nel mondo occidentale in tutti i Settanta. La situazione interna americana non è stata mai attraversata, se non in poche fasi della sua storia, da linee di tensione così ampie. A Trump e alla sua ondata neo-mercantilista si contrappone il capitalismo dei big data e della retail revolution, alla Google, alla Facebook, alla Amazon, che sulle frontiere aperte e sulle libertà liberali ha costruito le sue fortune. Al momento Trump è riuscito solo nell’attacco ulteriore alle forze sociali che si erano liberate nel post-2008, ma sembra avere il suo più forte punto di difficoltà nell’impossibilità del progetto di realizzare nella pratica il suo “Make America Great Again!”, ovvero nell’impossibilità di rilanciare la dinamica economica ed occupazionale.
Questioni come l’ascesa sempre più profonda dei processi di automazione o l’esplodere della disoccupazione tecnologica non si risolveranno con muri o con dazi finanziari, bensì con un cambio di paradigma sul rapporto lavoro-salario che è la nemesi assoluta del turbocapitalismo rappresentato da The Donald. La possibilità di un approfondimento di una fase di innovazione capitalistica nel senso dell’automazione, la creazione ulteriore di disoccupazione, soprattutto giovanile, lo svilupparsi ulteriore della gig economy può condurre a ulteriore approfondimento di battaglie sul tema dello sganciamento del salario dal lavoro e sul tema del welfare, che sarà sempre più cannibalizzato da banche alla costante ricerca di capitali per mantenere la propria posizione di mercato in uno scenario di continua creazione di diseguaglianza sociale.
La questione discussa sopra in relazione alla Germania si affianca al tentativo di globalizzazione in salsa cinese proposta da Pechino. In particolare, è rilevante il progetto della Nuova Via della Seta, che sembra al passo coi tempi nella sua capacità di intravedere nell’approfondimento della politica della logistica la cifra dell’attuale architettura globale. Un progetto di connessione infrastrutturale di rilevanza assoluta, che considera la dimensione commerciale e quella energetica, che prevede l’inserimento sempre più forte della Cina nell’ambito della risoluzione delle controverse militari e politiche nei paesi interessati dal progetto, che comporta una ridefinizione anche della finanza mondiale, con miliardi di yuan pronti ad inondare il globo e a mettere in discussione il “privilegio del dollaro” su cui si fonda la potenza americana sin dal 1945. Se la Cina dovesse immaginare una alleanza, puramente tattica, con la Germania e l’Unione Europea a guida tedesca del futuro, basata sul rinsaldare i legami eurasiatici soprattutto sul piano commerciale, per l’egemonia statunitense potrebbero esserci grosse gatte da pelare.
Allo stesso tempo non è detto che l’iniziativa cinese abbia la forza di realizzarsi in una fase in cui il paese è attraversato da profondi squilibri interni, da bolle che potrebbero esplodere come quella del settore edile e delle costruzioni, nonchè da una tensione anche ai livelli alti del potere, nonché ad un innalzamento della tensione del Pacifico con gli Stati Uniti che sembra poter essere foriero di problemi per entrambi i contendenti ed essere epicentro di potenziali conflitti durissimi dato che gli interessi nell’area non sono mediabili. Sia Cina che Stati Uniti sono attraversati da ondate di nazionalismo, promosso e fomentato dalle elites al governo, che sembrano anche in questo caso riproporre la guerra come strumento di risoluzione delle controversie tra capitali votato al dominio transnazionale. Uno scenario che per la Cina appare disastroso comunque più che per gli Stati Uniti, data l’enorme disparità tuttora esistente tra le reciproche componenti militari: se la transizione verso il secolo cinese si realizzerà, dovrà passare per un durissimo scontro bellico.
La guerra è uno strumento di narrazione del mondo, oltre che una messa in forma plastica del conflitto, e in quanto immaginario che agisce su una realtà punta anche a distruggere immaginari antagonisti. La guerra è elemento di ritorno per gestione crisi capitalistica a partire delle principali potenze globali. E’ quanto è successo nei confronti della più grande sfida all’ordine politico e ideologico globale seguito alla crisi dei subprime, ovvero quella portata dai processi insurrezionali in Maghreb e Mashreq dal 2011 in avanti. Non paghi delle devastazioni sociali compiute grazie alle contro-rivoluzioni condotte da personaggi quali Essebsi in Tunisia, Morsi ed Al-Sisi in Egitto, Assad in Siria, il progetto neo-colonialista continua con la frammentazione politica agita e condotta from behind in Libia, trasformata, come suggerito anche dal nostro Minniti, in una frontiera esterna, il limes meridionale dell’Europa, da fare diventare progressivamente un campo di concentramento a cielo aperto.
Ma il processo è sempre più anche retroattivo, con le periferie delle nostre aree metropolitane che sono sempre più gestite nei termini del dominio neo-coloniale che le politiche dei governi occidentali esportano, ottenendo in ritorno la destabilizzazione che prende carne negli attentati terroristici. Questa situazione ci parla anche della difficoltà di riuscire a concepire l’idea di un “piano europeo delle lotte” che abbia come unico orizzonte la geografia dell’Unione Europea quando le frontiere di questa ormai sono in Libia e in Turchia..l’Unione Europea è uno spazio disegnato dalle logiche del Capitale e non deve essere per forza un feticcio da agire politicamente proprio mentre tra l’altro questa sembra dissolversi.
Questo elemento mette ulteriormente in luce la novità del processo rivoluzionario confederalista del popolo curdo che cogliendo questa dimensione costitutiva ha aperto un percorso di organizzazione oltre il tema dello stato-nazione, non a caso venendo subendo la fortissima ostilità a livello militare di tutte le potenze dell’area oltre che dello Stato Islamico. Quando affermavamo che la pace era un fucile in spalla ad una guerrigliera curda, oppure che il contrario di guerra non era la parola “pace”, bensì “conflitto”, intendevamo esattamente descrivere la situazione attuale, dove l’opzione della pace è nelle mani del conflitto rivoluzionario curdo che nonostante questo non riesce ancora ad essere traducibile sul nostro territorio in un potenziale mobilitativo che sarebbe necessario. La difficoltà di reagire al dispiegarsi dell’elemento bellico, alla sua pervasività, alla sua ripetizione e banalizzazione che stiamo registrando negli ultimi anni ci mette di fronte una sfida non più rinviabile, dato che l’intensificarsi dei conflitti assume carattere sempre più strutturale per scaricare sulle popolazioni i costi della crisi finanziaria capitalistica.
Intanto in Siria ed Iraq, i cui governi sono stati sconvolti da una grave crisi di legittimità sfociata nella Rivoluzione del Rojava e nella guerra civile, mentre le truppe delle Ypg liberano Raqqa e l’Iraq vede la restaurazione affermarsi sulle parti di territorio prima gestite dall’IS, si gioca la partita più importante per i movimenti su scala globale. Una volta battuto sul campo lo Stato Islamico, si aprirà una grande sfida per la rivoluzione confederalista, dato che Usa, Russia, Turchia, Arabia Saudita, Iran non sembrano pronti a fare compromessi e intendono imporre subito i propri interessi nazionali. Anzi, come mostrano le tensioni tra sauditi e Qatar delle ultime settimane, sembra riaccendersi la competizione per il dominio del Levante, e ciò che resta dell’Isis in termini di leadership e di risorse conquistate in questi anni sembra subito aver la capacità di riciclarsi a strumento utile dove più conviene. Vedi attentati terroristici in Iran delle scorse settimane, dove la mano saudita non parrebbe proprio disinteressata, e vedi attentati terroristici in Occidente, utili alla politica dell’ipersecuritarismo nazionalista, ottimo specchietto per le allodole dove incanalare la frustrazione sociale dovuta alla barbarie neoliberista.
L’Isis, prodotto dalla strategia del “caos creativo” statunitense, e dagli interessi turchi e sauditi di destabilizzazione dei regimi sciiti della Mesopotamia, arginato nella sua prospettiva di radicamento statuale grazie alla strepitosa pagina di storia scritta da Ypg e Ypj, sembra aver finito la sua missione di destabilizzazione dei territori dove si è insediato, avendo nel frattempo giocato anche un decisivo ruolo nell’attacco ai processi rivoluzionari curdi, rallentati e indeboliti nonostante la sconfitta. Ma il suo progetto fascio-nichilista, sebbene disarticolato nelle sue forme proto-statali, continua a diffondere terrore con attentati a ripetizione, e non sembra perdere appeal come alternativa alla miseria delle vite condotte nelle periferie dei centri occidentali, nelle quali il tema delle povertà e dell’esaurimento delle forme di welfare, nonché delle lotte che vi si sviluppano intorno su terreni come l’abitare e la vivibilità dei quartieri sono un punto decisivo su cui costruire discorso e radicamento.
La sconfitta delle rivoluzioni del 2011, come era prevedibile, ha dunque portato prima a restaurazioni autoritarie e poi a politiche di potenza finalizzate a risolvere scaricando su nemici esterni le contraddizioni che erano alla base delle insorgenze rivoluzionarie. Sarà da vedere se anche in quadranti come il Sud America avremo uno scenario simile, con la differenza che i processi rivoluzionari neo-bolivariani di paesi come Bolivia e Venezuela e i tentativi di socialdemocrazia sviluppatisi in paesi come Brasile e Argentina sembrano avere, oltre all’esplicito e decisivo elemento del sabotaggio americano, anche diverse motivazioni endogene alla base delle loro sconfitte, oltre che caratteri peculiari che rendono difficile lo stesso loro inserimento in un unico paradigma analitico.
E’ in corso infatti una profonda crisi del modello progressista ed estrattivista dal quale la possibile indicazione di uscita dovrebbe passare per la saldatura tra una composizione urbana insofferente alle ricette di austerità neoliberista ed all’arricchimento delle borghesie nazionali ed una indigena/campesina capace di sviluppare modelli di democrazia comunitaria radicale. Soprattutto il Brasile è paradigma di questo scenario, con la restaurazione di Temer che è arrivata in seguito all’esplosione delle contraddizioni del governo di Dilma esacerbate dal duo di grandi eventi Mondiali-Olimpiadi e dalla repressione nei confronti delle proteste che vi si erano sviluppate intorno. Sarà il Venezuela, e lo svolgimento degli eventi attuali, a definire il futuro del progetto bolivariano del XXI secolo, che dovrà però, se vuole avere ancora vita, interrogarsi su come riuscire a declinare sè stesso una volta che i primi passi verso l’eguaglianza sociale sono stati fatti e dove la transizione a forme più sviluppate di socialismo va implementata nella pratica con l’ulteriore attacco alle diseguaglianze sociali e ai poteri di un’oligarchia che cerca di organizzarsi oggi nella forma della contro-rivoluzione sfruttando un contesto tornato favorevole.
Per finire qualche parola sull’Italia, che se guardata su scala globale è sempre più provincializzata a elemento gestionale dei flussi migratori, a frontiera esterna del nucleo europeo intorno alla Germania. Nell’anno elettorale emerge uno spostamento sempre più a destra dell’arco politico e del discorso pubblico, giocato principalmente proprio sulla questione migratoria in termini di tema da competizione. La quasi totale subalternità all’Unione Europea esiste sia in questo ambito sia in ambito economico, dove la sovranità della grande finanza sul paese sembra realizzarsi con il possibile contributo a venire di una grande coalizione tra Partito Democratico e Forza Italia che emerge a possibile forma di gestione delle elites di nuova situazione di crisi, mentre la gestione del mondo di sotto è affidata a Lega e m5s sempre più utili idioti e incanalatori della conflittualità sociale dovuta alla crisi in luoghi compatibili con la stabilità del sistema. In particolare il Movimento 5 Stelle sembra aver perso ogni tipo di utilità, anche dal punto di vista dei movimenti, nel senso sia della destabilizzazione del quadro politico sia della sperimentazione di nuove forme di governance, come dimostrato dalle esperienze di Roma e Torino.
La figura di Minniti, oltre ogni amplificazione poco utile, è paradigma sull’accordo di fondo tra le forze politiche “responsabili” che basano su gestione flessibile delle migrazioni e sull’azzeramento della conflittualità sociale la loro intesa. In questo senso alle lotte dei lavoratori, soprattutto migranti, va necessariamente sviluppato un’intensificazione del conflitto sul tema della questione giovanile, che in un paese sempre più impoverito e invecchiato in termini demografici, con la disoccupazione a livelli elevatissimi, costituiscono il soggetto su cui è sfogata la crisi.
E’ in questo intreccio, e nella sua capacità di scagliarsi contro la probabile costruzione di un nuovo “governo responsabile” a partire dalla prossima campagna elettorale che dobbiamo aprire il dibattito. Se si vuole riflettere sulle ultime tornate elettorali continentali in termini di calo anche minimo dell’opzione anti-europeista, non si può non sottolineare la contemporanea inesistenza della ripresa del progetto europeo, e anzi da registrare è probabilmente il fatto che sia definitivamente sancita la sua perdita di appeal, cosi come un progressivo esaurimento delle forme politiche che cercavano di armonizzare appartenenza all’UE e una prospettiva riformista a livello sociale. Il tema della disintegrazione dell’Unione Europea si affianca all’imposizione di possibili ulteriori misure di austerità nel nostro paese e in tutti quelli della sponda sud del Mediterraneo per rimanere agganciati alla Germania mentre questa tenta di rafforzare il suo ruolo a livello globale.
Queste misure potrebbero riguardare soprattutto il tema dell’economia, dai salvataggi delle banche all’utilizzo di misure di riduzione ulteriore dei diritti nel mondo del lavoro, le quali potrebbero essere in potenza dinamo di un nuovo piano di scontro dal basso a venire, e in un contesto in cui l’opzione alla Syriza è già stata eliminata da quelle possibili per reagire e governarle. E’ sul che è necessario lavorare politicamente, partendo dal fatto che in linea generale, il dato delle ultime tornate elettorali sembra suggerire piuttosto l’allargarsi ulteriore della distanza tra popolazioni e opzioni di rappresentanza. Macron in Francia governerà con l’appoggio nelle urne di poco più del 20% degli aventi diritto. A delinearsi è la sempre più reciproca dimensione di disillusione e sfiducia verso il Palazzo, espressa nell’astensionismo dilagante: le elezioni francesi sono state le meno partecipate della storia, per non parlare della recente tornata elettorale italiana. Questa latenza di rifiuto però fatica a darsi una dimensione organizzativa capace di incidere sui rapporti di forza, ripiegando piuttosto in una profonda disillusione verso ogni progetto di trasformazione sociale, proposto sia dall’alto che dal basso. E’ da qui che bisogna ricostruire un’ostilità diffusa a livello sociale, partendo dall’elevato tasso di rifiuto che registriamo il quale non si accoppia però ad una crescita della mobilitazione, le quali più che su questioni astratte di appartenenze geopolitiche ci pare debbano partire piuttosto dai livelli materiali di sfruttamento.
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