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Rintracciare le matrici della violenza: dall’uomo alle istituzioni. Parte prima

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Questa è la prima parte dell’intervista sull’esperienza della Mala Servanen Jin di Pisa [qui la seconda parte]. Questo materiale è stato la base di discussione da cui è partito il workshop “Donne e conflitto: quale prospettiva antagonista nelle lotte femministe? A partire dell’esperienza delle compagne di Pisa ” del Seminario Autonomia Contropotere di luglio.

Nel contesto della mobilitazione femminista globale Ni Una Menos a Pisa esperienze di lotta pregresse e un nuovo protagonismo delle donne si sono intrecciati nello spazio dell’assemblea delle donne in lotta. Uno sguardo antagonista sulla condizione femminile ha costruito nuove ipotesi di conflitto sul terreno della riproduzione sociale, del welfare e del corpo della donna come campo di battaglia. Come si è sviluppata questa assemblea? Come si è arrivate all’occupazione di Mala Servanen Jin – La casa delle donne che combattono? Quale il rapporto con tra le lotte nella loro profondità sociale e gli spazi politici di partecipazione come quelli rappresentati dalla rete Non Una di Meno? Qui una conversazione con le militanti di base che hanno permesso una circolazione tra questi ambiti e immaginato con altre donne la progettualità di Mala Servanen Jin.

Da dove nasce l’assemblea delle donne in lotta? Potete raccontare l’esperienza dell’8 marzo 2015 e del percorso di lotta sui buoni spesa?

G: Nei quartieri di Sant’Ermete, del CEP e in Gagno, tre anni fa abbiamo aperto degli sportelli di lotta, non solo per il diritto alla casa ma sportelli per i diritti. Tanta gente si avvicinava con una marea di problemi: dai problemi abitativi, fino al pignoramento e ai problemi economici in genere. Ma pure tanto altro. La cosa che ci ha fatto riflettere è che ai nostri sportelli si rivolgevano tante donne. Dopo l’incontro allo sportello, rispetto a ogni bisogno di lotta specifico, si organizza un percorso insieme: contro i servizi sociali, oppure contro l’APES, l’azienda che gestisce le case popolari, oppure ancora contro la Caritas. Conoscendoci con queste donne emergevano anche altre problematiche: il lavoro, anzi, l’essere costrette a fare quasi sempre 3-4 lavori, lavori come le pulizie o il fare le badanti. La cosa bella che è venuta fuori è che nonostante il sacrificio da parte di queste donne la lotta non veniva vista come un ulteriore sacrificio, nonostante l’iniziare un percorso di lotta significasse trovare del tempo per venire all’assemblea, ai presidi, ai picchetti antisfratto. Questa dinamica è cresciuta sempre di più. Anche le pretese nella lotta aumentavano.
Tramite lo sportello e le assemblee del comitato di Sant’Ermete abbiamo iniziato a buttare giù questo progetto che parlava dell’ottenimento di un assegno sociale organizzando in pochissimo tempo la mobilitazione del sette marzo di due anni fa (l’8 cadeva di domenica e anticipammo di un giorno). Questa necessità venne fuori anche dagli incontri con gli assistenti sociali. Si trattava di scontri pesanti e umilianti. Avere un percorso con l’assistente sociale, essere seguite, significa venir controllate in casa, sentirsi fare i conti in tasca, sentirsi giudicate su che vita si conduce, cosa si fa, dove si va, come si vive. Si tratta di un rapporto forte che abbiamo sempre affrontato assieme con chi lotta con noi. Qualcuno del comitato accompagna sempre chi ha un incontro con l’assistente sociale. L’elemento importante è che con la lotta non ti accontenti mai. Se ottieni la casa popolare lottando questo non significa che sei tranquillo e sereno, anzi, c’è qualcos’altro da risolvere con la lotta: il lavoro, la disoccupazione, i contributi economici.
Tante delle donne che si organizzavano nei comitati, una volta iniziato a lottare e a prendere consapevolezza, hanno iniziato anche a pretendere di cambiare completamente la propria vita. Magari c’era quella che all’assemblea la sera non veniva perché doveva andare a casa a badare ai figlioli, oppure durante le manifestazioni era quella sempre penalizzata a sistemare i figlioli, invece si è visto che con la crescita soggettiva si iniziava a dire “voglio lottare anche io, i miei figli non devono essere un ostacolo”. Abbiamo anche visto discussioni su questo all’interno delle coppie. Ciò ha dato forza a quello che siamo riuscite a costruire dopo: iniziare a pretendere non soltanto come madre o come lavoratrice ma anche come donna. Sulla mia vita e sul mio corpo decido io. Tante volte ne hanno proprio parlato, anche con me, mi dicono: “ma ti rendi conto, io fino a solo due anni fa dovevo riuscire a fare incastrare tutte queste cose, ora invece fa parte della mia vita, della vita delle persone”. Non si riesce a vivere senza la lotta, ormai è la priorità per vivere sereni, anche in mezzo ai problemi, perché comunque hai un’alternativa.
Questo l’abbiamo visto bene anche con le lavoratrici della Sodexo. Attraverso gli sportelli, una volta che si instaura una fiducia, poi ti vengono a parlare di tanti altri problemi. Oltre a lottare sul proprio posto di lavoro contro i vari sindacati confederali, si trovavano ad affrontare anche i mariti e le famiglie: “ma cosa stai a fa’?”, “ma sei impazzita?”, invece queste donne sono andate a dritto, ma questo è stato possibile perché abbiamo costruito insieme un percorso anche di fiducia e di alternativa.

C: La protesta del 7 marzo è stata fatta con le donne dei quartieri, con le donne di Prendocasa, con le donne della Sodexo e le ragazze del CUA. La cosa bella è stata che alcuni di questi percorsi di lotta non si erano mai incrociati prima. Abbiamo fatto delle assemblee, mi sembra due, prima del sette. Già quelle assemblee erano state potenti perché i discorsi trascendevano la data in sé. Venivano fuori tutta una serie di aspetti che avevamo tutte in comune. Ad esempio quello lavorativo o della precarietà in generale. C’era poi la questione del reddito. Lì a quelle assemblee abbiamo scelto di fare un blocco delle casse al supermercato Coop di Cisanello, il più grande, con la rivendicazione della reintroduzione dei buoni spesa alla Società della Salute (il consorzio di servizi sociali e sanitari della provincia di Pisa) che da quel momento venivano tagliati e sostituiti con il dirottamento dell’utenza della Società della Salute alla Cittadella della Solidarietà al CEP gestita dalla Caritas.

G: Venivamo da un percorso di quasi un anno con il comitato di sant’Ermete in cui avevamo fatto varie altre iniziative di blocco ai supermercati proprio sulla questione dei buoni spesa. Negli incontri con gli assistenti sociali non venivano più dati questi contributi alle famiglie. Abbiamo fatto vari blocchi al Carrefour, all’Esselunga, alla Pam, quasi tutti i supermercati chiamando i direttori generali dei supermercati a degli incontri con la rivendicazione di abbassare i prezzi di un calmiere di beni che avevamo definito in base alle esigenze che avevamo riscontrato. Abbiamo fatto tre incontri con i direttori dei supermercati. I blocchi infatti li mettevano in difficoltà. C’era tanta gente che si aggregava alla mobilitazione mentre faceva la spesa e passava con il carrello pieno mentre le casse erano ferme.

M: dopo gli incontri coi direttori dei supermercati, in primavera la Società della salute ridimensionò l’erogazione dei buoni spesa in vista dell’apertura della Cittadella della solidarietà gestita della Caritas, quella su cui abbiamo riaperto un percorso ultimamente. Noi avevamo deciso dunque di andare in contropiede rispetto a questa ristrutturazione puntando all’erogazione di un assegno sociale dopo che ci eravamo viste come assemblea delle donne in lotta, in quanto donne. Infatti l’assegno sociale che rivendicavamo non riguardava più la spesa in sé ma anche oggetti di cartoleria per i bambini, pannolini. Era un discorso più ampio: un assegno sociale per le donne che non riescono ad accedere a livelli di consumo dignitosi, coinvolte in tutta la sfera femminilizzata del lavoro.

La nascita dell’assemblea delle donne in lotta fu un fatto veloce e super informale. Mandammo un messaggino a tutte le donne dei comitati, di Prendocasa. Ci incontrammo in Gagno ed eravamo in 50 con un intersezione appunto di tutte le compagne: c’erano le donne di Prendocasa, dei quartieri, le ragazze del CUA e del CASP. Quindi già da subito questa dimensione di trasversalità e intersezione tra le lotte era evidente.
Dopo questo momento, dal quale sono passati due anni, ci siamo continuate a interrogare su come poter verificare questa ipotesi più in profondità ma senza correre il rischio di aprire un percorso femminista standard.

assegno sociale

Il percorso di attacco ai supermercati venne chiuso con l’interruzione della progettualità sul tema legata al Comitato di sant’Ermete?

G: Sì, Ma a partire dal fatto che quella giornata riuscì bene, anche a livello mediatico e di discorso pubblico, decidemmo di continuare il percorso che avevamo intrapreso e che ci avevano portato fin lì: la battaglia ai servizi sociali per i contributi economici e i buoni spesa, e la battaglia all’interno del quartiere di Sant’Ermete per la costruzione delle case popolari nuove e per la sua vivibilità con la lotta per la messa in sicurezza del cavalcavia che collega il quartiere al resto della città.
Lì dai blocchi ai supermercati siamo passati all’attacco più sistematicamente, quasi tutti i giorni, ai servizi sociali, negli uffici degli assistenti sociali affrontando percorsi differenti: sia sui buoni spesa, che sugli affitti, sui contributi economici. Poi alla Caritas ci siamo rientrate come utenza, abbiamo iniziato a inchiestare quel servizio andandoci, facendoci la spesa.

Come si accede al supermercato della solidarietà? Come funziona la tessera?

G: Non devi superare la soglia di reddito di cinquemila euro e iniziare un percorso con gli assistenti sociali. Con loro fai un colloquio e da questo loro decidono quanti punti assegnarti. Tu al supermercati entri con la tessera che vale tot punti. Altri punti vengono attribuiti sulla base di altri criteri: anzianità, disabilità. Questa struttura ha tre scaffali con i beni di prima necessità: latte, pasta e legumi.

M: L’attenzione verso la potenza espressa in quella lotta e alle donne che vi parteciparono con le contraddizioni che incarnavano ci rimase impressa. Affrontavamo anche gli sportelli di lotta con questa nuova attenzione in più. Quest’anno abbiamo trovato l’occasione per riprendere queste ipotesi che ci giravano nel cervello e di metterle nella direzione dell’8 marzo.
Il 26 novembre alcune di noi sono state al corteo di Roma. Io personalmente, che c’ero, non mi immaginavo una partecipazione di quel tipo. Un corteo enorme. Dopo abbiamo iniziato a seguire con attenzione le mobilitazioni della rete. Fu lanciata la data dell’8 marzo rispetto alla quale ha aiutato tanto il fatto che non fosse una data di corteo nazionale a Roma ma una data territoriale, sulla quale avevamo la possibilità di incidere in una maniera differente. Abbiamo iniziato ad andare alle assemblee di Non una di Meno Pisa. Le prime volte andavamo come compagne rappresentando i nostri percorsi di lotta, in quel momento però il discorso era ancora tutto in mano al femminismo istituzionalizzato. Il cambiamento grosso si è avuto quando abbiamo iniziato a costruire tutte assieme Non una di Meno Pisa, rivederci tutte tra di noi e capire cosa portare dentro. Abbiamo rifatto l’assemblea delle donne in lotta con lo stesso meccanismo dei messaggini per convocarla, con la differenza però che dopo due anni c’erano tantissime donne in più che gravitavano attorno ai nostri percorsi. All’assemblea delle donne in lotta, quando siamo tutte siamo più di cinquanta con attività diverse: c’è chi fa la badante, la studentessa, la dottoressa. Si tratta di un percorso assolutamente trasversale per estrazione ed età.

G: Le assemblee di Non una di Meno Pisa sono state faticose. Frecciatine e attacchi venivano continuamente rivolti alle nostre lotte e ai nostri percorsi. Per questo era importante arrivare a quelle assemblee evitando lo scontro, concentrarci maggiormente sul far conoscere i nostri discorsi e le nostre lotte a tutte quelle soggettività non ancora inquadrate nei soggetti politici che partecipavano a quell’assemblea. Abbiamo messo in difficoltà gli altri soggetti politici nel momento in cui in quell’assemblea hanno iniziato a parlare delle lotte della Sodexo verso l’otto marzo. C’era un portato di realtà che non poteva essere ignorato.

Di come la soggettività che si organizza nelle lotte e lo spazio politico di Non una di Meno non fossero in contraddizione e di come anzi potessero entrare in relazione…

In quell’assemblea c’erano e ci sono dei collettivi formati da tempo o realtà ben definite come la Casa della Donna. Però, soprattutto all’inizio c’era tanta gente random, che si affacciava lì per la prima volta e sentiva quella cosa come il suo percorso politico. Tante giovani, non solo studentesse, anche lavoratrici, trentanni, trentacinque anni. Gente che magari ha anche ruotato attorno a varie dimensioni ma non ha mai trovato il suo spazio.

C: Esatto. Quindi noi vedevamo in ciò che Non una di Meno rappresentava una possibilità di attivazione sia per il nostro giro largo, sia per delle soggettività non ancora collocate in uno spazio politico o in un altro, che però si ritrovavano lì dentro e si volevano esprimere lì dentro.

Abbiamo dunque fatto la scelta di riconvocare in febbraio l’assemblea delle donne in lotta, mettendo assieme tutto. All’inizio è stato molto difficile. Dovevamo tenere assieme il livello dell’assemblea delle donne in lotta, che era un po’ come Non una di Meno però nostro, con tante composizioni diverse, tante rivendicazioni diverse, tanti approcci diversi, visioni e aspettative diverse.

M: Per capire che queste cose completamente differenti possono coesistere c’è un lavoro costante da fare, che dura tutt’ora oggi. Se non ci fosse stato questo contenitore di lavoro e di limpidezza nostro, secondo me sarebbe stato differente.

Ma di cosa si discuteva in queste assemblea delle donne in lotta?

M: In partenza partivi dall’esigenza di organizzarti.

G, C, M: Perché non ci si conosceva tutte. Magari qualcuna di noi militanti conosceva tutte, ma le altre non si conoscevano tra di loro. Alcune erano state raggiunte solo con la catena di messaggi che avevamo inviato. È stata di presentazione con il cappello generale della violenza sociale e istituzionale sulle donne. È stato un elemento che abbiamo sempre voluto tenere e ha rappresentato il nostro cambiamento di asse rispetto al resto di Non una di Meno.

C: Rispetto a questo ognuna si presentava e diceva perché voleva scendere in piazza l’8 marzo.

M, G: All’assemblea successiva ci siamo interrogate sul cosa avremo fatto l’8 marzo. Quindi abbiamo iniziato a programmare delle date di mobilitazione su tutti i temi specifici delle lotte e dei punti. Negli 8 punti di Non una di Meno ci siamo riviste alla grande: sanità, welfare, lavoro.

M, G : Quindi ci siamo organizzate così: abbiamo fatto prima il presidio alla Società della Salute, il 22 febbraio, organizzato in una settimana. La costruzione della parte coreografica e creativa è stata importante. Come il 7 marzo 2015 avevamo le magliette e gli assegni sociali finti, così ora abbiamo fatto le mascherine. E sono stati importanti anche tutti i momenti di costruzione della coreografia. Dedicavamo dei momenti specifici. Ci vedevamo e preparavamo tutto assieme.

M: Secondo me la cosa importante, è che rimasta sempre, è che le decorazioni, l’abbellimento, non ha mai coinciso con una roba finta, non ha mai abbassato il livello dello scontro. Non c’era o fai la cosa rappresentativa o ti scontri. C’era fai la cosa rappresentativa per aumentare l’impatto dello scontro con la controparte. C’era la consapevolezza che andavi arricchendo, perché l’abbiamo reso trasversale lo scontro. C’era già chi questo atteggiamento ce l’aveva con i percorsi di lotta nel quartiere e chi è stata integrata. Anche le singole che si sono aggregate hanno trovato poi una forza distinta che è stata comunque trascinante. Non ci sono state né schegge impazzite, né chi si chiedeva dove stessimo andando. Perché appunto, non solo in Non una di Meno ma anche nella nostra assemblea, quando una donna ti dice io: “ci sono andata tre volta alla Caritas e non ho trovato niente, facciamo qualcosa”, allora tutte lo vogliono fare. Diventava una cosa anche tua.

G: Dovevamo fare tutto in un mese. 24 ore su 24. Tutti i processi erano comunque veloci. Inoltre da una parte c’era la lotta della Sodexo, che è stata di scontro pesante con i sindacati confederali, con una conferenza stampa dove i giornalisti hanno preso le parole che dicevano le lavoratrici Sodexo rivolgendole contro caposale e infermiere, creando una guerra all’interno dell’ospedale. Tutto in un tempo breve, secondo me la cosa che ha pagato è che non abbiamo sottovalutato nulla, non abbiamo dato per scontato nulla. Soprattutto l’abbiamo preparato quest’otto marzo con l’assemblea delle donne, con l’assemblea delle lavoratrici Sodexo, con l’assemblea del comitato, anche magari ripetendoci, però per avere in mente bene quello che volevamo fare. Questo ha sviluppato gente entusiasta del fatto che sempre più puntavamo il dito contro chi ci fa vivere così, contro chi ci sfrutta, contro chi ci sfratta, contro chi ci usa violenza perchè siamo donne.

8 marzo Pisa

M, G, M: L’iniziativa contro la Caritas è stata importantissima. Anche quella l’abbiamo preparata benissimo, raccontavamo di quello che si subisce lì. Ci sentivamo questa mancanza “ma come si può fare, come si può attaccare questo potere della Caritas, della chiesa legata ai servizi sociali?”. Alcune non ne capivano il funzionamento della Caritas e dei servizi sociali. Non concepivano il fatto che lì non ci fosse il cibo che loro lasciavano magari ai centri di raccolta e che, al contrario fosse un dispositivo di umiliazione, con la pasta della San Vincenzo, olio scaduto, olio di semi di girasole, pacchi aperti. Principalmente non è stata vista come una cosa nuova, “non possiamo andare contro un potere che rappresenta l’unica forma di aiuto esistente”.
Quando abbiamo fatto le tappe di avvicinamento alla manifestazione c’è stato un presidio alla Società della Salute, un presidio agli uffici del comune sulla carta SIA, e un’iniziativa alla Caritas, due giorni prima l’8 marzo, il lunedì. Abbiamo ripreso tutto anche per chi non poteva esserci. Poi quando vedi con i tuoi occhi cambi opinione.

M: ..anche di protagonismo. Quella è stata la volta in cui tante ragazze nostre si sono esposte. Io l’ho trovata una soddisfazione, perché magari avendo meno frequenza di contatto con il lavoro nei quartieri io le vedevo meno. Hanno parlato loro con i giornali, sono entrate loro. Hanno organizzato loro il rivendicare la merce nascosta nei magazzini. È stata una cosa importante. Hanno litigato loro in prima persona con l’assessore, loro che ogni giorno subivano quel servizio.

C: Lo sforzo grosso che abbiamo fatto noi e che ci ha fatto emergere è stato questo: se vogliamo parlare di violenza di genere dobbiamo partire prima di tutto dalle violenze che subiamo quotidianamente, quindi sapere riconoscere quali sono. Questo è stato l’approccio anche rispetto all’assemblea delle donne in lotta. Per fare questa cosa qui abbiamo fatto emergere elementi come la Caritas o l’assistenza sociale. Perché il fatto di trovare come controparte gli uomini violenti che sono in casa e invece non riconoscere la violenza di genere che subisci ogni giorno nella tua vita, in tutti i contesti, lavorativi, sociali, a scuola, la violenza delle istituzioni nelle loro varie forme, è una roba superficiale, in cui tutti si possono nascondere dietro quella bandierina ma non sono in grado di reagire (femminismo istituzionale).

G: Nella tua quotidianità subisci sempre. Come puoi trovare la forza di reagire a un uomo violento in casa se poi nella tua quotidianità subisci violenze, vessazioni, umiliazioni? Si pone il tema di che cos’è per noi la violenza.

Come si è arrivate a tematizzare la violenza nello schema dall’uomo all’istituzione?

M: Alcune volte ci è stato contestato di non essere femministe, perché noi parlavamo non solo della violenza “domestica”. Nei punti dell’8 marzo c’è anche un altro tipo di contraddizione. Noi a questa obiezione rispondevamo con il motto femminista “ripartire da sé” e glielo ribaltavamo contro. Noi partiamo da noi stesse e noi siamo questo. Noi, in tutti i passaggi della vita quotidiana, vogliamo toglierci i panni delle vittime, assumere quelli delle “sopravvissute” – abbiamo usato questa parola – e quindi non stare più alle umiliazioni. Questo però, nelle nostre vite di pezzenti, significa andare dall’assistente sociale, significa parlare con la Capuzzi (assessora al sociale) e dirle che è una stronza perché non ci da le case. Alcune non riescono ad afferrare qual è il punto, ed è stato difficile spiegarlo anche al nostro interno. Perché la questione della violenza di genere noi l’abbiamo sempre posta dicendo che non volevamo affrontare solo la questione delle botte. Molte volte, anche prima della Mala, dicendo: “per ora non è quello che ci interessa”, poi ci siamo interrogate anche su quello.

In che senso “non vi interessava”?

M: Non avevamo gli strumenti per affrontarela, anche solo gli strumenti dei centri antiviolenza. Invece sul rifiutare l’umiliazione per costruirti la tua forza, l’autodeterminzione e l’autonomia, devi partire dalla base della tua vita, dalla tua quotidianità. E quindi anche nel fare volantinaggi, azioni etc, queste impazzivano, perché c’era il pregiudizio forte, ovviamente verso di noi, che sarebbe sfociato tutto nel fare gli scontri da qualche parte e che noi fossimo eterodirette dai nostri compagni maschi – questo è sempre stato un loro pregiudizio.

C, G: Nei percorsi che abbiamo fatto fino a ora ci è anche capitato spesso e volentieri, in alcuni contesti, di alcune situazioni di violenza domestica. Però è a partire da una forza che ti crei in un altro ambito che riesci ad affrontare anche quell’aspetto lì. È così nella pratica. Se acquisti fiducia in te stessa di averci una forza riesci anche a reagire, sia alla violenza domestica, sia, banalmente, a essere sempre sottomessa o sottostante a tua mamma o al tuo compagno o ai tuoi figli – perché succede anche quello – chi ha figli adulti, magari madri sole e il figlio trentenne ti dice cosa devi fare, cosa non devi fare. Quindi noi abbiamo lavorato su questo duplice aspetto: da una parte riuscire a creare consapevolezza della forza politica che avevamo, e dall’altra, rispetto a Non una di Meno, farle vivere come una risorsa il fatto che ci siano delle composizioni sociali che poi nella pratica la subiscono la violenza di genere che attraverso lotte, anche diverse da quelle specifiche della lotta di genere, riescono a crearsi un’autonomia. Infatti le nostre assemblee sono state importanti e sono importanti tutt’ora perché già il fatto di riuscire a parlare di alcune cose, di riconoscere che alcune cose sono violenza, il fatto che un certo tipo di approccio degli assistenti sociali, costante e che hanno con tutte, il discutere di come avvengono i colloqui, di quello che ti viene detto e di come tu subisci quello che ti viene detto, nel senso che vieni messa completamente in discussione, la tua figura in generale: come lavoratrice, come madre, come fallimento come donna perché non hai compagno e sei sola, perché non riesci a tenerti un lavoro. Un continuo giudizio. Un meccanismo che opera anche sul lavoro perché se sei sola sei una donna e hai figli influisce immensamente sul tuo posto di lavoro. Queste cose sono venute fuori nelle assemblee. Perché sei ricattabile cento volte di più. Basta che ti spostano un turno e ti mettono in difficoltà. Perché magari ti vogliono fare il dispetto perché tu non fai tutto quello che vogliono e ti mettono in turno il pomeriggio invece che di mattina quando hai i tuoi figli a scuola, questo ti cambia l’esistenza. Infatti queste sono state le minacce che hanno fatto alle lavoratrici della Sodexo durante la lotta.

C, M: tutte queste cose venivano fuori dalle assemblee nostre. Con difficoltà perché magari erano tante cose e diversificate di come vivevi sul tuo posto di lavoro. Tutta una serie di ricatti e di umiliazioni sulle quali lì per lì non ci ragioni. Poi li senti pure da quell’altra e dici fanno così con me, anche con me, anche con me, allora questa cosa è sistematica, non sono io la stronza. Un riconoscimento comune che avveniva a una velocità stratosferica.

Carla: un’altra cosa emersa nelle prime assemblea, da parte magari di quelle che venivano dai quartieri, era l’approccio con la scuola. Anche lì se non puoi dare il contributo volontario ti fanno sentire una merda e sei giudicata perché invece magari di fare delle spese per te stessa dovresti mettere i soldi per i tuoi figli e dare il contributo volontario. Le istituzioni ti dicono che quello è un contributo volontario che non sei obbligata a dare ma c’è ugualmente questo ricatto qua.

M: Noi sostanzialmente abbiamo politicizzato questo ricatto. Non è un problema tuo, ma è un problema di tutte, ed è un ricatto che ti fanno perché vieni umiliata. Il riconoscimento su questo era fortissimo. Da sola riuscire a dire “il contributo non te lo pago, è un mio diritto e me lo devi garantire e quei soldi li voglio usare per altro e non sono una stronza se faccio così” è un discorso che da sole non si riesce a fare.

G: anche queste misure di aiuto delle istituzioni che nell’ultimo anno abbiamo visto, come la carta SIA, noi abbiamo voluto prima inchiestarli per capire di cosa si stava parlando e poi sbugiardarli come bandi truffa. Spesso si riempiono la bocca “il nuovo bonus per i poveri”, poi vai a vedere i criteri per accedere a questi bandi sono assurdi, non ci accede nessuno. Noi abbiamo provato a fare le iscrizioni e non ci accediamo. A partire da questo si è ragionato sulla doppia violenza che subiamo. Lo dico per esperienza, l’ho visto in altre donne con i figli, c’è sempre questo peso di far quadrare sempre la giornata, di sbatterti a fare duemila lavori. C’è sempre una vita sotto giudizio. Come si diceva prima ad esempio nella scuola, con gli altri genitori che ti guardano male perché non hai versato il contributo volontario. Non è mica la preside che ti viene a chiedere il contributo volontario, è lo stesso genitore che magari ti punta il dito o ti manda un altro genitore a chiederti i soldi. Ed è normale che se te sei sola e non hai una rete intorno, subisci e basta. Te la vivi male. E svolgi la tua vita da vittima, ovunque al lavoro, a casa. Come possiamo trasmettere la forza per reagire alla violenza domestica quando poi fino alla sera subisci e basta. Proviamo a ribaltare questa cosa per trasmettere una forza. Anche soltanto a livello di saperi. Perché tante dicono “sì ma tanto è così, lo devo fare”. Invece no, assieme capisci che non è così. La cosa bella infatti è che tante di noi non stanno andando a lavorare. Donne abituate a fare quattro lavori al giorno. Per dirti, l’esempio di una compagna nostra che ha deciso di vivere qui, lavorava, faceva tre lavori al giorno, ora ne fa uno. Rifiuto del lavoro nel senso che quest’esperienza per noi è proprio di riscatto, è riprenderci del tempo..

G: …riprenderti la tua vita. Questo lo abbiamo visto in tante donne di come cambia il rapporto con il lavoro. Ci sentiamo sempre, ci confrontiamo su quello che ci succede a lavoro, sulle ritorsioni, le piccole ingiustizie: “lo sai che ieri mi hanno fatto così…” oppure “bisogna organizzare che ci resto un mese, poi mi faccio mandare a casa, poi gli facciamo un bello striscione perché è proprio un maschilista”. Come possiamo ignorare il fatto che tutti i giorni veniamo umiliate e sfruttate?
Anche tra i compagni poi ci sono delle abitudini che inizi a scardinare. Un compagno del comitato è stato costretto a cambiare le sue abitudini perché la sua compagna ha iniziato a prendersi del tempo per le assemblee, per lottare, e lui pure ha dovuto cambiare. Ed è contento di questa cosa, dice: “ora ci siamo dati i turni per chi pulisce casa”

M: Il coinvolgimento è aumentato passando dal fare assemblea una volta alla settimana ad avere una casa tutti i giorni. Quando dicevamo “ci sarà l’8 marzo ma non ci basta” non erano solo parole. La cosa bella di questo percorso è che ogni cosa che dicevamo era vera.
La gestione dei tempi, anche nostra, e di tante altre che lavorano. Sono contraddizioni che ci sono sempre, ma con questa crescita, spinta di comunità e queste risposte collettive agli attacchi, bè questo posto da quando lo abbiamo rioccupato è veramente la nostra casa. alcune di noi si sono trasferite a settimane qui, facciamo i turni settimanali di trasferimento!

C, G, M: la cosa potente potente è che non siamo solo noi che facciamo le militanti 24H no stop, riesce a fare questa vita gente che ha figli, casa, lavoro, mariti, genitori anziani… e sono militanti in una maniera nuova! C’è la voglia di essere presenti non appena si può. C’è un’attivazione senza competizione.

8 marzo Pisa 5

G, M: Abbiamo iniziato dicendo che per noi l’8 marzo era solo l’inizio. Abbiamo iniziato così questo percorso delle donne. Lotto sempre. C’è un’idea di continuità che è stata fatta nostra. Tutte le donne che prima dicevano “non ci sono oggi dalle sei alle 8”, ora dicono “non ci sono”, ma a casa. Quindi ci sono donne che a casa la notte non ci sono. Tu hai mai visto donne che dicono al marito, “no scusa non ci sono perché vado a dormire in un’altra casa”?

M: Questa dimensione è importante per la trasversalità. Perché nei percorsi di lotta in cui non c’è una dimensione temporale continua e difficile per chi non ha molto tempo dare il proprio contributo. Qui l’abbiamo visto ad esempio per le dottore, che lavorano tutto il giorno in ospedale e non hanno ancora la possibilità di dire “no oggi non ci vengo”; e loro appena staccano dal lavoro tutti i giorni sono qui. Ed è una cosa comunque pazzesca che donne di 50 anni finiscono da lavoro e vengono qui.

A che livello tra le compagne militanti si è stabilita una cooperazione e rispetto a quali obiettivi? Mi sembra di capire che, da un lato, la questione del rintracciare le matrici della violenza di genere non fossero riducibili a un certo tipo di narrazione femminista (il tema dall’uomo all’istituzione); dall’altro lato questa ricerca non diventava il mettere in contrapposizione lo spazio delle lotte, con il loro valore, rispetto allo spazio politico di Non una di Meno, ma anzi c’è lo sforzo di vedere questi due spazi in una relazione possibile di reciproco potenziamento. Ma nessuno spazio è stato sacrificato all’altro, tant è che c’è stata un’autonomia dell’assemblea delle donne in lotta rispetto all’assemblea di Non una di Meno. Le iniziative prima dell’8 marzo: il presidio alla società della salute, il presidio per la carta SIA, quello alla Caritas e l’assemblea sindacale alla Sodexo, come spazi di lotta, sono stati organizzati indipendentemente dall’assemblea di Non una di Meno. Rispetto a questi livelli il lavoro di base delle compagne come si è composto? Quali sono stati gli elementi di riconoscimento tra le militanti di base che hanno permesso di organizzare la relazione tra questi spazi e questi livelli dell’agire politico? Quale tipo di cooperazione militante per mettere in circolazione questi livelli?

M: Innanzitutto ognuna di noi ha continuato a fare contemporaneamente il suo percorso di lotta specifico. La cosa che ci siamo prefissate fin dall’inizio tra di noi è stata per l’appunto questa: avere una cooperazione differente a partire dal capire quali elementi rilevanti per l’assemblea delle donne in lotta possono venire da qui o da lì o da lì.
Noi portavamo queste lotte, che rispetto al discorso generale di Non una di Meno ci incastravano tutte, all’interno di uno spazio di discussione politico. Per fare questo la cooperazione tra di noi doveva essere non funzionale ed efficiente, di più! Non ci interessava infatti produrre uno scazzo e una rottura.

G: Nell’assemblea di Non una di Meno in preparazione dell’8 marzo venivano fuori le proposte di ogni collettivo. Lì noi abbiamo portato le nostre tappe di avvicinamento e abbiamo deciso che dopo l’8 marzo volevamo occupare un posto.
Perché poi, per tornare alla questione dei differenti livelli da mettere in relazione, le tappe di avvicinamento sono potute essere qualcosa di vero e non semplicemente degli appuntamenti dove si portava una critica, ma al contrario momenti vissuti dalla gente che ogni giorno viveva quel problema. In tutti i percorsi noi curiamo un metodo. Ad esempio nel comitato di sant’Ermete si fa assemblea ogni settimana. Dall’inizio abbiamo affrontato questa sfida delle donne, anche prendendola dal lato politico e traducendola nel contesto di quartiere. Questa continuità e questo lavoro ci ha costruito una fiducia attorno negli anni. C’è tanta fiducia.

Poi ci sentiamo continuamente. Con le nostre compagne dei comitati abbiamo un continuo scambio di riflessioni e anche una continua partecipazione. La lotta della Sodexo è stata un esempio ulteriore di questa prassi. Tutti i giorni stavamo lì, nel casottino all’interno dell’ospedale allo sportello di lotta, per confrontarci e organizzarci. Sacrificio, energie e quant’altro. Ugualmente con Prendocasa e con il comitato di Sant’Ermete. Per chi magari non poteva venire alle assemblee venivano fatti dei riassunti. Tutto questo perché non abbiamo mai avuto la presunzione che le cose vengono così da sé, non abbiamo mai dato per scontato che bastasse dirlo in assemblea o che bastasse il messaggino su whatsapp per avere una partecipazione. È stato curato nella costruzione delle mobilitazioni, dagli interventi al capire l’importanza del perché noi lo stavamo facendo questo percorso dell’8 marzo. Fin da subito è stato messo in chiaro che a noi non ce ne fregava nulla di scendere in piazza l’otto marzo per far sfilare, da subito abbiamo detto che il protagonismo delle donne deve essere reale, nella quotidianità di tutti i giorni, non soltanto l’8 marzo. Su questo c’era subito intesa, forse anche data dal fatto che avevamo preparato il 7 marzo due anni prima.
In generale è proprio un metodo.
C’è un rapporto nella quotidianità della costruzione delle lotte. Anche in Sant’Ermete tutto questo ha trasformato la gente. Se quattro anni fa i discorsi erano i soliti che si sentono sempre “danno le case prima agli stranieri”, ora invece il discorso è “non ci danno le case perché il comune mette i soldi per altre cose”. Abbiamo sempre comunque fatto sì che questi livelli si incrociassero.

Viene fuori un’intersezione tra diversi collettivi e poi una specie di trasversalità sociale…

C: Nel nostro approccio c’è stata una discussione e una crescita collettiva: sia la costruzione dell’assemblea delle donne in lotta nostra sia nel partecipare alle assemblee di Non una di Meno. Perché comunque noi siamo arrivate ad iniziare questo percorso senza averci un discorso preciso. Abbiamo visto che c’erano delle potenzialità della composizione che si organizzava con noi. Però riconoscere anche il fatto che quelle istanze lì di Non una di Meno muovevano anche tanto altro. Tante donne si possono riconoscere nei punti di Non una di Meno, e anche nelle cose che facciamo noi adesso. Donne che prima semplicemente non lottavano. La roba di affrontare il senso di colpa in tutti i suoi aspetti della quotidianità c’è ed è vera. Nel momento in cui affronti quella cosa lì, hai una capacità di lottare che secondo me è diversa da tanti altri contesti di lotta in cui magari affronti il tuo bisogno specifico e basta. Affrontare il senso di colpa che hai perché magari sei madre, perché non riesci a fare quell’altro, perché non ce la fai, è una cosa potente. Questa cosa ha fatto sì che anche l’assemblea di Non una di Meno cambiasse tantissimo in questi mesi. Perché comunque ci abbiamo buttato dentro pezzi di realtà in quell’assemblea. E anche quelle che si sono approcciate a quello spazio con un’ideologia femminista più istituzionale hanno dovuto riconoscere se stesse in quella roba e quindi anche riconoscere le nostre rivendicazioni piano piano. Questo è stato un percorso però. A volte anche quelle che nell’assemblea di Non una di Meno sono avvocatesse piuttosto che ricercatrici etc nei discorsi che facevamo noi di quanto la precarietà incida completamente sulla tua vita, nel fare delle scelte nel non farle, e quindi nell’attaccare le istituzioni per questi aspetti anche da un punto di vista di genere, tutto questo ha aperto loro un mondo.
Infatti la roba alla Società della Salute contro gli assistenti sociali o quella all’Inps contro la precarietà poi alla fine erano condivise. C’è stata una crescita della soggettività nostra e loro, insieme, e questa cosa non è stata casuale.

Su questo abbiamo attuato anche delle scelte rispetto ai soggetti da attaccare. Da una parte quelli nostri soliti, con questo nuovo tipo di approccio, e dall’altro il tentativo un po’ maldestro di parlare anche a questo tipo di composizione per attaccare assieme le controparti. Secondo me questa operazione l’abbiamo tentata ma fino all’8 marzo non ci è riuscita particolarmente, invece siamo riuscendo farla sempre meglio dalla Mala Servanen Jin. Infatti l’idea di occupare era un po’ per non tornare semplicemente ai nostri percorsi precedenti. Anche il corteo dell’8 marzo per me è stata una cosa bella. Eravamo sì coreografiche, ma i cori e le azioni che abbiamo fatto era dirette a delle cose mirate: il lavoro, l’inps, la casa, nei giorni prima l’azione alla società della Salute.

[qui la seconda parte]

8 marzo Pisa 8

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