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Cos’è l’università oggi? Alcuni spunti di discussione


Trasformazioni recenti dell’università

Sembra non avere fine la crisi economica e sociale che, soprattutto negli ultimi anni, ha colpito non solo il mondo universitario, con il continuo e costante smantellamento del welfare studentesco e di quello che ormai è il defunto “diritto allo studio”; ma ha anche attaccato le condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione scaricando i suoi costi sulle classi sociali che già faticavano ad arrivare alla fine del mese.

Analizzando dal punto di vista universitario questi ultimi anni, partiremo dal tracciare una breve cronologia delle riforme universitarie che si sono sviluppate parallelamente allo svilupparsi del nostro collettivo; riforme che ci portano a parlare di crisi dell’università come ascensore sociale e di nascita dell'”università-azienda”. Il nostro collettivo nacque in un contesto di conflittualità che si stava diffondendo in tutta la penisola, con l’emersione di una nuova rottura all’interno del mondo della formazione rappresentata dalla mobilitazione contro il ddl Moratti, mobilitazione che si poneva l’obiettivo concreto di mettere in crisi la ridefinizione da parte di quel DDL del sistema universitario nazionale.

La legge Moratti diede di fatto inizio ai processi di precarizzazione di massa all’interno del sistema universitario, con l’obiettivo di avvicinare questo al modello di università-azienda, tramite la trasformazione degli atenei in vere e proprie imprese votate al profitto più che alla crescita culturale degli studenti. Questi ultimi sarebbero dovuti diventare utenti-consumatori dell’azienda (pagando tasse e servizi costosi), la quale attraverso lo sfruttamento dei lavoratori (docenti, ricercatori, personale tecnico) e l’appropriazione della ricchezza costituita dai saperi prodotti all’interno di essa avrebbe conseguito profitti sempre maggiori.

Da quel momento, per tutti gli ultimi dieci anni, i governi di centro-destra e centro-sinistra hanno approvato continue riforme per ridefinire la funzione dell’università all’interno della società sui dettami del Bologna Process, progetto coordinato a livello europeo alla fine degli anni ’90.

Il Bologna Process, con la sua ricetta di “licealizzazione” dell’università e di inserimento della misurazione quantitativa del sapere tramite crediti, ha segnato la vita di milioni e milioni di studenti e precari, che con questo progetto hanno fatto il loro ingresso ufficiale nel sistema dello sfruttamento e della precarietà a cavallo tra università e mondo del lavoro, con l’aumento nei corsi di laurea della presenza di stage e tirocini gratuiti presso le aziende, di contratti a tempo determinato, introduzione di cooperative lavorative esterne e ricattabilità sul posto di lavoro.

Nel 2008 ci ritrovammo a fare i conti con l’ennesima riforma che non voleva guardare alle esigenze e alle necessità degli studenti e delle studentesse, bensì accreditarsi come un ulteriore passo in avanti verso la tanto ambita realizzazione di un sistema di università-azienda e d’élite. L’università doveva riprogrammarsi, con la creazione di una rigida selezione di classe effettuata tramite diversi dispositivi di gerarchizzazione economica, numeri chiusi e barriere d’accesso. La riforma Gelmini con i suoi tagli lineari e l’introduzione dei CDA a capo della governance degli atenei, sono problemi contro  i quali si sono espressi anni di lotte incapaci però di portare ad una vittoria e ad un ritiro del provvedimento.

Sono infiniti i danni che l’incrociarsi di tagli, riforme e impatto della crisi hanno apportato al sistema universitario. Ci ritroviamo ancora una volta quindi a interrogarci sul come portare avanti la lotta, e a porci una domanda: “Chi decide sulle nostre risorse e sul denaro pubblico? Che ne è di questi soldi?”. La risposta possiamo facilmente trovarla: i nostri soldi e le nostre tasse universitarie (che sono in costante e continuo aumento!) servono ancora oggi solamente al fine di poter ridurre le spese statali per l’istruzione pubblica e aumentare così le risorse disponibili all’accumulo di capitale. E’ fondamentale perciò immaginare un percorso di lotta di lunga durata, consapevoli che l’università e il mondo della formazione sono già attraversate dal privato e dalle logiche di mercato, che diffondono precarietà e sapere-merce, che un ragionamento rinchiuso unicamente alla battaglia a quanto si muove all’interno delle facoltà non è sufficiente.

Il processo di costruzione dell’università attuale sta procedendo di pari passo con una ridefinizione sociale del ruolo dell’università. Fino agli anni ’90 l’università era un dispositivo di riproduzione del ceto medio in una dinamica fluida, aperta alla mobilità sociale. Più o meno massicciamente, a seconda delle condizioni economiche generali ed alle politiche dei governi, settori proletari potevano accedere al ceto medio, mentre settori di quest’ultimo ambire ad innalzare la propria posizione economica e sociale accedendo ai livelli alti dell’organizzazione sociale. L’università era quindi funzionale ad una riproduzione di un certo tipo di organizzazione sociale. 

Con l’economia della conoscenza si è creduto, a cavallo del millennio, che fosse possibile aumentare la produttività del lavoro aumentando il contenuto cognitivo nel processo produttivo, sviluppando così nuovi livelli di benessere e preminenza del lavoratore, a partire dall’aumento relativo del salario. Questo avrebbe anche ridotto le disuguaglianze sociali in quanto la redditività da lavoro sarebbe aumentata nei confronti di quella da capitale, che comunque avrebbe continuato ad aumentare, all’interno di un trend globale di crescita dell’economia che sembrava destinato, anche per questo processo, a prolungarsi indefinitamente nel tempo. 

L’università avrebbe dovuto costituire uno dei dispositivi di questo mutamento dell’organizzazione sociale, in cui buona parte della forza sociale dei lavoratori veniva riconvertita nel cosiddetto “capitale umano” a discapito di altre forme di garanzia e di conservazione delle differenze sociali di tipo welfaristico. La formazione universitaria doveva garantire l’accumulazione e l’appropriazione del capitale umano da parte dei lavoratori. Il 3+2 e il sistema dei crediti è stata la forma che questo processo ha assunto nell’università italiana. 

E’ evidente che era necessario che dei settori proletari potessero accedere all’università per far fronte all’amputazione di diritti sul piano collettivo per dotarsi di questa forma di welfare individuale. Da qui l’idea di una prima laurea di soli tre anni, propedeutica all’inserimento nel mondo del lavoro e alla possibilità di vendere il proprio capitale umano dandogli un valore espresso in crediti, immediatamente scambiabile sul mercato del lavoro. Da qui la necessità di ristrutturare il mercato del lavoro in termini di precarietà e flessibilità, che avrebbero dovuto essere garanzia e punti fermi della forza sociale dei lavoratori. Si è trattato di una rottura grossa, soprattutto nei paesi dell’Europa continentale, in cui qualcuno ha scorto un cammino liscio di liberazione e non un nuovo scenario in cui posizionarsi con una prospettiva antagonistica di classe.

E’ evidente che si trattava di una prospettiva neoliberista che al suo interno voleva semplicemente scomporre e ricomporre l’organizzazione sociale intorno ad una nuova forma di sfruttamento capitalista, più perfezionata e in qualche modo, centralizzata, in quanto i contrappesi sociali da parte del lavoro perdevano una autonomia organizzativa in termini collettivi, lasciando al mercato ed al voto la funzione di esprimere gli interessi diversificati della stratificazione sociale, lasciando le sole élite organizzate in maniera collettiva nell’espressione di interessi planetari e teleologici. Già dentro questa prospettiva la divisione del lavoro e la linea del salario venivano ricalibrate nella dequalificazione e nella iper-qualificazione dei saperi.

In effetti nello scenario di crescita economica di inizio millennio poteva profilarsi all’interno di questo nuovo paradigma una riedizione su nuove basi della lotta di classe, come in effetti stava accadendo, mediante una riaggregazione politica degli interessi del lavoro, ma per vari motivi che non stiamo qui a riprendere questo non è avvenuto con effetti devastanti sulle organizzazioni di classe e anzi le crisi economico-finanziarie, da quella dei mutui sub-prime fino a quella attuale, hanno di nuovo cambiato lo scenario, portandoci su un terreno in cui l’impoverimento e la disuguaglianza aumentano e i redditi da lavoro precipitano.

Per il dispositivo universitario si è trattato di una sorta di stallo. Ormai non più riproduttore di un ceto medio arbitro della mobilità sociale, ma neanche dispensatore di capitale umano e di nuovo welfare per i lavoratori dell’economia della conoscenza. Le cifre delle immatricolazioni precipitano ai livelli del pre 3+2 perché l’afflusso di proletari si blocca in una istituzione di cui si conoscono i costi, ma non i benefici e la laurea triennale diventa una ritualità vuota, mentre si taglia sul diritto allo studio. Per il ceto medio rimane una prospettiva di massa in termini relativi, ma a questo punto dentro la crisi il sapere si dequalifica nel senso che si polarizza la distribuzione dei redditi e l’università diventa passaggio obbligato in cui però c’è dispersione di patrimonio famigliare piuttosto che acquisizione di forza contrattuale. 

Paradossalmente, tralasciando la clamorosa inadeguatezza sul piano politico-organizzativo, i movimenti della formazione degli ultimi dieci anni non sono riusciti a costruire delle rigidità di classe dentro i processi di ristrutturazione dell’università perché la crisi economica ha depauperato il valore appropriabile in termini di capitale umano presente nel dispositivo universitario e rimesso l’accento e la centralità su nuove e vecchie povertà, ma  è anche per la stessa causa – fine della crescita economica e fallimento dell’economia della conoscenza – che si sono sabotati i processi di aziendalizzazione “di massa” dell’università agiti dall’alto.

Oggi ci troviamo di fronte ad una società che vive livelli di impoverimento e peggioramento delle condizioni di vita come costanti permanenti nel futuro – e immediatamente riscontrabili nel presente – e ad una università che, di conseguenza, configura percorsi di ristretta élite per i ricchi sempre più ricchi e di “stagnazione verso il basso” del ceto medio (per il momento orfano in termini sistemici di dispositivi riproduttivi di massa che non sia il proprio patrimonio famigliare). Aumentare il costo sociale di questo soggetto impoverito ponendo con forza la questione della decisionalità, produrre connessioni di lotta con il proletariato quando questo si mobilita. Ecco il senso di fare politica all’università oggi.

Comportamenti e aspettative studentesche

Dopo una breve introduzione se vogliamo più “storico-politica” riguardo la trasformazione dell’università in questi ultimi anni, è utile anche andare a provare a leggere le aspettative soggettive e i comportamenti di chi all’università oggi ci va ed è attualmente iscritto. Ma anche di chi ci lavora. E’ solo da questa analisi e metodo di inchiesta che possiamo sviluppare la prassi della lotta politica. Quindi è ora di chiedersi: “Perché ci iscriviamo all’università? Ha senso farla, pur sapendo che la sua funzione di ascensore sociale sta decadendo?”.

Domanda che probabilmente ognuno di noi si sarà posto qualche volta, e a cui probabilmente avrà dato una risposta che sarà stata il più delle volte negativa.
Sensazione di “vuoto esistenziale” post-laurea, paura dell’entrare ufficialmente dentro il mondo della precarietà a vita, percezione di aver sprecato anni di vita sopra i libri. È questo quello che vogliamo dalla nostra università?

L’Alma Mater è – come sappiamo – tra le università d’Europa con il costo delle tasse più alto in assoluto. Essa offre solo in pochissimi casi servizi gratuiti o scontati per i fuori-sede e gli studenti in Erasmus, al contrario, appunto, di moltissimi atenei europei, che spesso non richiedono nemmeno tasse d’iscrizione.

A tasse salatissime corrispondono anche alti numeri di facoltà a numero chiuso, che precludono l’ingresso a moltissimi giovani che sognano di iscriversi all’università (spesso il numero chiuso riguarda le facoltà scientifiche). Questo fenomeno è una deriva della legge Gelmini, che tentò di far corrispondere il numero chiuso in base al rapporto numerico tra docenti e studenti; per questo molti professori si sono ritrovati costretti ad inventarsi corsi di laurea “finti” per riuscire a ricevere fondi o finanziamenti per la ricerca. In merito ai test d’ingresso e quindi al numero chiuso, crediamo sia diritto di tutti e tutte poter accedere ad ogni forma di sapere, in modo libero e gratuito, senza alcun tipo di preclusione, che si basa sulla compilazione di un test a crocette che fa dello studente un mero numero x.

In questo scenario si aggiunge, come abbiamo già analizzato anche precedentemente, la condizione di precarietà a vita per quanto riguarda i ricercatori, che probabilmente non saranno mai assunti a tempo pieno, in quanto, soprattutto per le facoltà umanistiche, i fondi stanno subendo dei tagli a dir poco drastici, soprattutto dopo l’ultima riforma della legge di stabilità targata governo Renzi. Assistiamo, con la quest’ultima riforma, ad un ulteriore de-finanziamento del fondo di finanziamento ordinario, per un valore di circa 34 milioni di euro. Ma è il dato relativo al personale amministrativo, tecnico e ausiliario che ci mostra le reali intenzioni del governo: questo sarà ridimensionato per oltre 2mila unità.

Tasse salatissime, carenza di servizi accessibili, costo dei libri troppo alto, esclusione tramite il numero chiuso, tagli al welfare studentesco, precarizzazione a vita… cosa  ci spinge a continuare ad iscriverci all’università?

Una risposta plausibile, potrebbe essere che la vita universitaria, ancora oggi, ci gratifica e ci soddisfa a livello personale, sia dal punto di vista culturale che sociale. Ma ovviamente questa ipotesi è comunque debole, sapendo che “l’ascensore si è rotto” e che quindi oggi avere una laurea non significa trovare subito, appena si esce dall’università, un lavoro appagante rispetto agli studi appena conclusi, ma finire nel tunnel (senza uscita?) della precarietà e dell’incertezza. Dunque cos’è l’università oggi? Un mero passatempo? Un lasso temporale che siamo disposti a passare, sapendo che dopo ci ritroveremo davanti al nulla? Oppure può ancora essere un luogo di attraversamento in cui possiamo quotidianamente intercettare forme di conflitto, movimento e maturità politica da cui partire e avviare processi di trasformazione sociale e politica che ci porteranno a “riprenderci tutto”? Può essere un luogo in cui sviluppare forme alternative rispetto al sapere mainstream che l’università-azienda ci vuole propinare? Può essere un luogo in cui costruire momenti di socialità, cultura, iniziative, dibattiti autorganizzati dagli studenti stessi che decidono di riprendersi uno spazio per viverlo alternativamente?

Verso la fine dell’università come luogo arricchente in termini di reddito e posizione sociale perché la direzione che stanno prendendo le istituzioni in Italia in merito ai percorsi formativi sembra proprio quella di una progressiva restrizione dell’accesso al mondo universitario ad un fascia di pochi garantiti, che potranno permettersi tasse sempre più alte o studentati di lusso. Probabilmente ciò comporterà una vera e propria scissione dell’università tra università d’élite e università “di massa”, non solamente in termini economici, ma anche in termine di sapere e offerta formativa che verranno trasmessi.

Guardando al presente, possiamo già cogliere i primi segnali di questa eventualità, segnali che ritroviamo in fenomeni come numero chiuso, Codice Etico e decadenza degli studi. Il numero chiuso genera negli studenti e nelle studentesse che si trovano ad affrontare il test (ma anche successivamente) uno spirito competitivo che si può ritrovare, ad esempio, all’interno delle peggiori multinazionali, con datori di lavoro che minacciano di sostituirti con qualsiasi altro aspirante lavoratore, se non ti prostri ai suoi piedi; come nel mondo del lavoro, anche in questo caso viene a mancare la collaborazione tra gli studenti, la voglia reciproca di aiutarsi e sostenersi, la socialità, il viversi la vita universitaria insieme. 

Perché questo? L’università cerca di selezionare chi merita più di un altro un banco, piuttosto che un posto di lavoro, scatenando nello studente una sorta di “istinto di sopravvivenza”, che gli impone di rientrare dentro i tempi e gli spazi, entrambi ristretti, che l’università concede; cerca di dividere gli studenti, piuttosto che unirli, utilizzando tecniche subdole che cercano di metterli l’uno contro l’altro. Questo lo vediamo ad esempio con l’introduzione della decadenza degli studi, con la quale il Rettore si prende la facoltà di decidere che tutti gli esami dati nel corso della “carriera” universitaria decadono, se non ti laurei entro un tot predefinito di anni. 

Ancora una volta qualcuno ci obbliga a vivere l’università come se fossimo all’interno di una fabbrica, che detta i ritmi di lavoro serrato all’operaio, sfruttandolo e svuotandolo di personalità; ma ovviamente non bastavano numero chiuso e decadenza degli studi, poiché il Rettore ha pensato giustamente che lo studente universitario nel 2014 non abbia diritto d’espressione critica nei confronti dell’Alma Mater (università di Bologna), per questo ha rinnovato il Codice Etico già redatto nel 2006, aggiungendo un “innovativo” articolo, che minaccia gli studenti di non infangare il nome dell’Alma Mater, nemmeno sui profili personali sui social network personali. Minacce che parlano di pesanti sanzioni per gli studenti e ritiro del contratto per ricercatori.

Ma il Codice Etico si espande silenziosamente nella zona universitaria giorno dopo giorno… e questa volta la sua espansione è costata agli studenti 70.000€, stanziati per ripulire tutti i muri “imbrattati” di via Zamboni. E questi soldi da dove escono? Perché quando chiedevamo (e chiediamo) una diminuzione dei prezzi della mensa, dei libri di testo, degli affitti negli studentati, delle stesse tasse universitarie o dei trasporti, nessuno ci ha mai saputo dare una risposta concreta se non, “lo stato taglia le risorse per gli studi”?. Però quando c’è da ammutolire una soggettività studentesca che esprime rabbia e indignazione o semplice voglia di costruire momenti di socialità dal basso al di fuori dei momenti di lezione, i soldi si trovano in un battibaleno. Quei soldi sicuramente noi non li avremmo mai visti, perché è nell’interesse dell’università d’élite continuare ad alzare sempre di più i costi, dimezzare i servizi e pulire più muri, per costruire un’università per pochi garantiti, magari spazzando via chi non ce la fa più o chi si ribella alla Staveco, realizzando quel grande obbiettivo che è la realizzazione di una città vetrina, dove gli studenti portatori di caos e degrado vengono allontanati fuori dal centro cittadino, in modo che non possano intaccare l’ostentato sviluppo del capitalismo all’interno della propria città fatto di locali con prezzi esorbitanti, negozi di moda, strade perfettamente ripavimentate e muri scintillanti.

Probabilmente la nostra sarà l’ultima generazione i cui genitori riescono (seppur con enormi sacrifici) a permettersi di finanziarci la nostra vita da universitari, che non comporta solamente la tassa d’iscrizione, ma un vero e proprio dispendio economico che vede i già esigui stipendi dei nostri genitori disperdersi tra affitti costosissimi, mense a prezzi inaccessibili, libri e manuali di testo carissimi, trasporti non garantiti… l’elenco sarebbe infinito.

Se usciti dall’università non sapremo che direzione prendere, se il “patto generazionale” collassa, se i nostri genitori si possono permettere a malapena di pagarci l’iscrizione all’università, se gli affitti aumentano, se siamo costretti ad abbandonare l’università per trovarci un lavoro malpagato e dove verremmo sfruttati… Che fare?

Vogliono farci credere che al giorno d’oggi all’interno delle università nulla a livello politico si muova o si possa muovere, che non ha senso scioperare o protestare, ma se ci togliamo il paraocchi che ci stanno imponendo di indossare sul volto, ci accorgeremmo che in realtà la direzione che vorrebbe farci prendere questo susseguirsi di governi targati austerità non è certamente quella che ci siamo sempre immaginati o sognati.

Nella suddivisione che si vuole implicitamente creare tra università d’élite e università di massa, ciò che si richiede allo studente (dopo averlo spremuto fino all’ultimo centesimo, ovviamente) è di adattarsi ad una serie di imposizioni sociali e morali che lo porteranno ad essere un bravo burattino nelle mani del burattinaio; gli si chiederà di passare giornate frustranti che lo vedranno gobbo su libri e manuali per ore, senza distogliere l’attenzione dal sapere-merce che l’università azienda (o d’élite) gli sta trasmettendo dentro il cervello. Intanto intorno a lui gli spazi di socialità, di cultura, di politica, di espressione artistica verranno chiusi, murati, cosicché nessuno potrà permettersi di avere un proprio pensiero critico. Intorno a lui gli studenti verranno imbavagliati, verranno censurati sui social network e sui muri della cittadella universitaria. E lo studente potrà così essere contento nel suo mondo fatto di illusioni, dentro la sua stanza in un qualche resort universitario al di fuori dal centro della città, con la testa svuotata di qualsiasi contenuto critico.

Sarebbe interessante analizzare anche il ruolo che ha la cultura in questo scenario quasi apocalittico. L’università post-moderna prevede anche una rinnovazione tecnologica che, tramite l’informatizzazione, ha sviluppato nuovi metodi per comunicare, e non solo informazioni.

La deriva sbagliata che potrebbe però aver preso questa piega tecnologica è che si cerca di ridurre (da parte della controparte capitalista) la ricerca o il sapere prodotto a mera informazione mainstream: se lo studente produce un sapere che non è utile  ai fini di vendita o commerciali, il sapere prodotto è inutile, merce da scartare. Non esiste più ciò che è la ricerca pura, se il sapere non è adatto al fine del capitale viene abbandonato. Questo sicuramente è dovuto anche al fatto che le università umanistiche ricevono sempre meno fondi, che non permettono più alla ricerca di sviluppare forme di sapere alternativo a ciò che richiede il capitale. Se ci si chiede “Abbiamo ancora bisogno della cultura, o esiste solo l’informazione per i mass-media?” la risposta deve essere assolutamente affermativa, ma non dobbiamo abbatterci se vediamo che l’Università in quanto istituzione non apprezza ciò che produciamo, se non lo ritiene utile secondo canoni decisamente disonesti, ma affidarci a forme di collettività che, dal basso e in modo autorganizzato, possono permetterci di esprimere e diffondere ciò che abbiamo prodotto, senza alcun secondo fine.

La direzione in cui ci stiamo dirigendo, se andiamo a vedere la nuova legge di stabilità, prevede il licenziamento di tutti i lavoratori e ricercatori precari, che verranno sostituiti dagli studenti che offriranno (involontariamente) lo stesso lavoro, non retribuito. Ciò porterà alla fine della ricerca, soprattutto nel campo umanistico, e con essa una fossilizzazione del sapere e quindi una minor offerta formativa e quindi minor capacità di espressione critica, che da sempre fa scomodo “ai piani alti”.

Forse è vero che è questa la direzione che vogliono farci prendere. Ma non è certo quella a cui vogliamo arrivare. Se riusciamo a rifiutare collettivamente questa situazione di crisi, unendoci e opponendoci a questo stato di cose, a questo sistema, forse allora riusciremo a darci una risposta alla domanda che ci siamo posti inizialmente… “Ha senso fare l’università oggi?”.

 

testo scritto da C.U.A Bologna e pubblicato su Univ-Aut

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