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Da Afrin alle elezioni anticipate, Erdogan a rotta di collo

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Da Afrin alle elezioni anticipate, Erdogan a rotta di colloLa convocazione di elezioni presidenziali anticipate in Turchia per il prossimo 24 giugno – implementata in settimana con un tandem di dichiarazioni prima dei fascisti dell’MHP di Bahceli poi dell’AKP di Erdogan – può sembrare intempestiva in una fase in cui il sultano sembra aver debellato le opposizioni interne; forte di un controllo sui media, sulla giustizia e sulle forze armate pressoché incontrastato. Ma non è così.

 

Il connubio tra nazionalismo fascista e fondamentalismo islamico prodottosi come sintesi neo-ottomana in seguito al golpe del 2016 ed al fallimento dell’ISIS è apparso ed appare tuttora prevalere sul piano interno anche grazie alla sua proiezione internazionale. Non solo militarmente tramite l’operazione Ramoscello d’Ulivo contro Afrin e quelle contro il PKK in territorio iracheno; ma anche a livello diplomatico e commerciale verso l’Africa (progetti di sviluppo in Sudan, Somalia, Libia tripolina) e l’Asia (sostegno ai Fratelli Musulmani ed ai loro padrini in Palestina, Yemen e Qatar, intervento nella crisi dei Rohingya in Myanmar – tutto con l’apporto del formidabile storytelling mediatico di Al Jazeera). Una politica estera sempre più autonoma dagli alleati storici: dopo la crisi qatariota dello scorso anno Erdogan ha accentuato le distanze con Israele, Egitto ed Arabia Saudita, cavalcato il cospirazionismo anti-occidentale e migliorato le relazioni con Russia ed Iran (per quanto, geograficamente e culturalmente, queste nazioni nel lungo periodo non possano non diventare bersaglio del neo-ottomanismo). Le frizioni con gli alleati occidentali sono aumentate con il supporto statunitense alle YPG e YPJ e con il tentativo della Francia (sostenitrice degli avversari di Erdogan nel Golfo ed in Libia) di inserirsi nel conflitto siriano. Un progetto, quello di Erdogan, che non può non avere costi proporzionali alle ambizioni.

Una delle prime preoccupazioni del presidente turco e dei suoi alleati è per l’appunto lo stato dell’economia. Il crollo della lira rispetto a dollaro ed euro, accentuatosi ad inizio aprile, ha portato il primo ministro Yildirim ad una dichiarazione esplicita di intervento diretto del governo contro la “speculazione finanziaria”. Esautorando di fatto la banca centrale, con una tale mossa si vuole arginare nientemeno che un rischio di bancarotta. La Turchia infatti presenta un alto indebitamento sia privato che istituzionale verso l’estero denominato nelle divise più forti: la combinazione di aumento dei tassi d’interesse altrui (che spinge i capitali altrove alla ricerca di rendimenti più alti e rende più oneroso ripagare il debito), aumento dell’inflazione per la quantità di valuta nazionale in circolo (e conseguente aumento dei costi delle importazioni) e declassamento dell’affidabilità di Ankara da parte delle agenzie di rating internazionali ha già messo alle corde i colossi del cemento e delle grandi opere – alla base del modello di sviluppo che è la colonna portante del regime dell’AKP. Non a caso sul finire della settimana Ankara ha richiesto il ritiro dalla Federal Reserve delle proprie riserve auree li detenute, e lo stesso Erdogan si è espresso contro la primazia del dollaro come valuta franca.

Sebbene l’anticipo delle elezioni sia mirato a prevenire un potenziale collasso di consenso in caso di precipitazioni economiche e politiche regionali, non è detto che l’operazione riesca. Le ripetute e perduranti atrocità compiute dall’esercito turco nel sud est del paese e l’ulteriore stretta sulle forme di espressione dell’identità curda; la mancata difesa dell’alleato Barzani nel referendum di indipendenza del Kurdistan Iracheno sotto le pressioni nazionaliste; la connotazione suprematista della campagna militare contro Afrin; tutto ciò ha alienato il voto curdo conservatore all’AKP, prospettando all’HDP – nonostante la  falcidia di arresti e censure – di spuntare ancora una volta l’entrata in parlamento. Mentre il puntello dell’alleanza tra Erdogan ed MHP potrebbe essere vanificato dall’entrata nella competizione presidenziale di Meral Aksener, vecchia ministra dell’interno negli anni ’90 e in grado di dirottare parte del voto nazionalista sul suo partito IYI. Qualora, nonostante gli ostacoli posti dalla legge elettorale ai partiti di recente formazione, ella riuscisse a partecipare potrebbero prodursi un parlamento senza maggioranza assoluta (diviso tra AKP+MHP, HDP, IYI e lealisti del CHP) ed un ballottaggio al secondo turno delle presidenziali dall’esito tutt’altro che scontato, nonostante l’attuale mancanza di un nome su cui le opposizioni possano convergere.

Tuttavia – considerata la polarizzazione interna ed internazionale esacerbata dal tentato golpe del 2016 – non sembra nemmeno esserci la realistica possibilità di un passaggio di consegne pacifico tra Erdogan ed un eventuale successore. Lo stato di emergenza seguito alla tentata deposizione del sultano – ed ormai in vigore da due anni – prevede la possibilità arbitraria di sciogliere raduni e la presenza di militari nei seggi elettorali, le cui schede non presenteranno contrassegni che ne certifichino l’ufficialità. Scene già viste con la strategia della tensione nelle elezioni del 2015 e le irregolarità nel referendum del 2017, che hanno avuto strascichi anche in Europa. Dopo aver lautamente sovvenzionato l’AKP come proprio cane da guardia rispetto alle migrazioni del 2015 (in cui ha avuto responsabilità la politica dello stesso Erdogan in Siria), i governanti europei sono ora freddi verso l’isteria del sultano. La disputa sulle isole dell’Egeo con la Grecia, l’irrisolta questione cipriota, la già citata rivalità con la Francia e l’indisponibilità ad ospitare passerelle elettorali da parte dei paesi nordeuropei fanno presagire nuove forzature e nuove tensioni. Mentre a maggio dovrebbe arrivare il verdetto finale della giustizia americana sul caso Atilla: banchiere turco coinvolto assieme al faccendiere Zarrab – vicino ad Erdogan – in operazioni di riciclaggio di denaro in favore dell’Iran, nonostante l’embargo imposto dagli USA. In un momento di spolvero dei guerrafondai a stelle e strisce – capitanati dal nuovo consigliere per la sicurezza nazionale Bolton – contro il paese retto dagli ayatollah per l’uomo forte di Ankara significa camminare sul filo del rasoio.

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