Da una finanziaria all’altra
Riflessioni sulle politiche economiche del “nuovo” governo
di Renato Strumia, da Collegamenti
Nel settembre 2022 una coalizione di destra-destra ha ricevuto, per la prima volta nel dopoguerra, il mandato di governare il paese, con 12,3 milioni di voti su 51 milioni di elettori.
Una volta ancora il voto ha premiato quello che appariva l’elemento di novità, con l’investitura personale di una leader politica a lungo apparsa “fuori dai giochi” e priva di responsabilità nello sfascio progressivo del sistema paese. Era accaduto prima con Renzi, Di Maio, Salvini e compagnia cantante: meteore transitate veloci nel firmamento della politica, per poi disintegrarsi senza lasciare traccia, se non qualche scoria ancora depositata nel sottosuolo tossico del paese.
La vicenda di ”Giorgia” sembra inscritta nel solito tragitto, che porta i politici a conquistare il potere usando toni incendiari e agitando polemiche violente, per poi rientrare nei ranghi, delimitati dalle compatibilità e dai limiti intrinseci dell’azione di governo. Quello che stupisce, nella nuova formazione al governo, è la velocità e l’intensità di questo processo di allineamento, del tutto prevedibile e scontato.
La continuità delle politiche con la linea Draghi (del cui governo peraltro facevano parte sia Forza Italia che la Lega) è impressionante, su tutte le questioni di fondo. Tuttavia, è interessante rilevare i punti con cui il governo ha cercato di smarcarsi, “vendendo” gli elementi di rottura, prevalentemente identitari e categoriali, come strumento per dare soddisfazione al proprio elettorato di riferimento. Nient’altro che un tranquillizzante: “ora ci siamo noi, cominciamo a dire qualcosa di destra, dateci tempo, prima o poi le faremo anche…”.
Ovviamente non ci interessa qui fare un elenco delle uscite improvvide, delle gaffes istituzionali, degli incidenti di percorso, da parte di un personale politico il più delle volte inadeguato, assurto improvvisamente a cariche insperate, sia in campo politico che manageriale (basti pensare all’amministratore nominato che cita Mussolini, alle uscite surreali dei vari ministri, da Sangiuliano a Santanché, passando per il sempreverde Salvini…).
Più utile ci sembra provare a ragionare sulla direzione in cui sta andando chi da ormai un anno gestisce il potere e che vuole restare al comando per un tempo prolungato (“tutta la legislatura”, come da formula di rito), sebbene tutti sappiano che il terreno è sempre sdrucciolevole e che gli attori in campo non manchino mai di pensare a opzioni B, prima ancora che si sia dispiegata a pieno l’opzione A.
Partiamo dunque dalla prima legge di stabilità (per il 2023), varata in fretta a poche settimane dalla vittoria, in condizioni avverse: sia per la partecipazione di fatto a una guerra non secondaria (come il conflitto russo-ucraino), sia per l’impellenza di un occhiuto controllo da parte comunitaria, che ha subito messo sotto la lente le prime prove del governo “sovranista”.
Al che si è subito capito che il nuovo governo non avrebbe neanche alzato un sopracciglio senza il benestare di Ursula Von der Leyen e dell’approvazione unanime di tutti i commissari europei, ai quali peraltro era bastato il fatto che Draghi in persona avesse guidato l’impostazione della legge di bilancio e l’indirizzo programmatico a venire.
E infatti gran parte dei provvedimenti erano inseriti nella linea tracciata. Due terzi della manovra (21 miliardi) erano utilizzati per calmierare le bollette di luce e gas, dopo l’impennata dei prezzi dovuta alla guerra e alla condotta speculativa dei colossi del settore. Il 2022 ha comportato un rincaro della bolletta energetica che ha cubato sul sistema italiano per 90 miliardi di euro e circa la metà di questa cifra è stata assorbita dalle tasse statali, determinando un impensabile picco delle entrate. Lo Stato ha guadagnato anche come proprietario di partecipazioni, perché ENI ha chiuso l’anno scorso con 13.3 miliardi di euro di utili, garantendo ricchi dividendi a tutti gli azionisti.
Le bollette, dicevamo, pesano molto sui bilanci familiari: ma il governo Meloni, caritatevolmente, ha alzato a 15.000 euro la soglia dell’ISEE sotto la quale si ha diritto a un bonus. Peccato che i 21 miliardi stanziati per il 2023 siano poca cosa rispetto ai 62 che lo stesso governo Draghi aveva impegnato nel 2022 per la stessa finalità: infatti hanno coperto solo le esigenze del primo trimestre e dopo il 31 marzo il provvedimento è stato rimosso: i prezzi del gas sono diminuiti in estate, ma ora per l’autunno si rischia di tornare agli aumenti selvaggi.
Il calo del prezzo del gas è venuto in soccorso, ma per il petrolio è andata diversamente (anche perché l’Opec-plus non risponde più ai comandi Usa): il governo ci ha messo del suo, non prorogando la sospensione delle accise sui carburanti e facendo così risalire il prezzo di benzina e gasolio a livelli record. I provvedimenti mirano a ripristinare la logica del mercato e scaricare sui consumatori i maggiori oneri, amplificati dal carico fiscale. Intanto la prosecuzione del conflitto e la recisione del legame Europa-Russia costringono ad acquistare gas liquefatto dagli altri partner (Algeria, Azerbaigian, Usa e Qatar, in primo luogo) con prezzi di molto superiori a quelli praticati per decenni dal precedente fornitore. Sarà quindi molto improbabile un ritorno al calmieramento delle bollette, attuato in modo sporadico perlomeno per le famiglie più in difficoltà: anche la sospensione degli oneri di sistema è stata revocata, per tornare alla normalità.
Il sostegno alle famiglie a basso reddito per i consumi domestici si è affiancato peraltro a quello concesso al sistema delle imprese, attraverso i crediti di imposta, che voleva evitare la chiusura degli impianti e il fallimento aziendale: problema esplosivo che riguarda in primo luogo le aziende energivore. Un problema che è tanto più grave in un paese che ha una dipendenza energetica pari al 76% e che si è affidato ai combustibili fossili fino all’ultima meta, senza sviluppare autonomamente le varie fonti alternative disponibili (eolico, fotovoltaico, idroelettrico). Errori che si pagano e che portano poi a ritorni di proposte inaccettabili, come il nucleare di nuova generazione.
Tornando alla manovra abborracciata dell’anno scorso, non è mancato un segno distintivo nella predisposizione dei provvedimenti fiscali, che dovevano in qualche modo soddisfare gli impegni dei governi precedenti nell’abbassare il cuneo fiscale (a vantaggio di dipendenti e imprese), ma anche cominciare a sdoganare in forma sontuosa gli interessi dei mandanti elettorali: evasori, partite iva, piccoli esercizi artigianali e commerciali, modesti agricoltori, piccola impresa. Non solo balneari, dunque, ma tutto quel mondo di ceti medi, abituati a non pagare le tasse e talvolta (magari) in difficoltà vera, soprattutto per l’impatto che il Covid ha avuto su settori non marginali della ristorazione, dell’artigianato, del commercio e in generale della piccola impresa semi-familiare.
Le risorse per proseguire l’abbassamento del cuneo fiscale sono quindi state circoscritte inizialmente a 4 miliardi di euro, concedendo una riduzione di 3 punti percentuali per i redditi fino a 20.000 euro lordi annui e 2 punti soltanto ai redditi fino a 35.000 euro. Con il decreto lavoro (annunciato provocatoriamente il 1° maggio) la percentuale è poi salita per i restanti mesi: 6% di riduzione per redditi sotto i 35.000 euro e 7% per quelli sotto i 25.000 euro. L’aumento totale in busta paga corrisponde a una cifra lorda oscillante tra i 60 ed i 100 euro, che non costano nulla ai padroni e sono a carico dell’Inps e quindi della fiscalità generale. La misura non è strutturale, ma limitata al 2023. Lo riprenderemo con l’esame della legge finanziaria 2024.
Ben diverso il trattamento riservato ai titolari di partite Iva: qui è scattato l’innalzamento della platea dei forfettari, che potranno optare per la flat-tax, passata da 65.000 a 85.000 euro di ricavi annui. L’aliquota super-agevolata del 15% verrà quindi applicata su un numero più esteso di titolari (e ricordiamo che l’imponibile vero e proprio è ancora più ridotto, perché ai ricavi si applica un parametro di riduzione in funzione del settore di appartenenza). Per i primi 5 anni di attività, addirittura, le partite Iva possono continuare a pagare solo il 5%. Ma c’è un ulteriore vantaggio, perché si introduce la flat-tax incrementale anche per chi prima era in regime ordinario, misura che consente a chi ha aumentato il fatturato di pagare solo il 15% su altri 40.000 euro di ricavi, applicando parametri particolari. Una misura spacciata come incentivo alla crescita dimensionale delle imprese, ma che riduce ulteriormente la base fiscale dello stato. Il pacchetto costa, nel suo complesso, oltre un miliardo di euro…
La flat-tax è la sintesi dell’impianto fiscale del governo, l’esatto contrario di una impostazione progressiva che, come prevede la Costituzione, è la premessa per una politica redistributiva dei redditi e della ricchezza. Ma i provvedimenti volti a tutelare gli interessi del popolo delle partite iva, che paga le tasse solo quando, quanto e come vuole, non si fermano qui. La tutela dell’evasione è molto più ampia.
Già prima della legge di bilancio il governo aveva tentato di portare a 10.000 euro il limite per l’uso del contante. I rilievi comunitari hanno poi consigliato un innalzamento “solo” da 3 mila a 5 mila, ma il segnale è forte e chiaro. Così come il tentativo, poi abortito per le stesse ragioni, di alzare da 30 a 60 euro l’obbligo di accettare i pagamenti con il pos (cioè, con le carte per avere pagamenti tracciabili). La Banca d’Italia ha calcolato che 1% di contante in più significa maggior evasione in un range tra +0,8 e +1,8%. Sdoganare il contante, in particolare nel nostro Paese, significa un corposo regalo alle mafie, alla criminalità, all’economia sommersa, al lavoro nero.
Il rilassamento del rigore finanziario e della trasparenza fiscale è poi palesemente rivendicato nell’estesa campagna di rottamazione delle cartelle, con condono fiscale incluso, seppur negato (stralcio sotto i mille euro). Un grande classico della politica nostrana.
La sbandierata politica del “non dare fastidio a chi fa” si è tradotto ancora una volta nel differimento al 2024 di plastic tax e sugar tax, per 600 milioni di euro totali, consentendo un’ulteriore tregua per le imprese che dovrebbero pagare per le esternalità negative delle loro produzioni (plastiche da smaltire, bevande zuccherate nocive alla salute).
Proroga anche per l’esenzione Irpef su redditi dominicali e agrari (248 milioni di costo nel 2023): per il settore agricolo è ormai una costante dal 2017 e dal 2016 le stesse attività sono esentate anche da IMU e IRAP. Non stupisce che la Meloni sia stata accolta trionfalmente al Congresso della Coldiretti…
Una voce importante della manovra è la tassa sugli extraprofitti delle imprese: già nel 2022 Draghi aveva toppato alla grande, mettendo in previsione un gettito da 10 miliardi di euro, con una norma scritta male, tesa a colpire con un’aliquota del 25% l’aumento del fatturato delle imprese energetiche rispetto all’anno prima. Poche aziende hanno pagato e il risultato è stato appena un quarto del previsto: inoltre molte (incluse le aziende di stato) hanno fatto ricorso, denunciando una distorsione delle leggi di mercato, inaccettabile per delle società quotate, e si rischia di ripetere l’esperienza della “Robin Tax”, imposta da Tremonti nel 2009 e cassata dalla Suprema Corte nel 2015. Rischio quanto mai reale, tenendo conto anche del fatto che l’incremento del fatturato è riconducibile all’aumento dei prezzi della materia prima importata, che non sempre è possibile trasferire per intero al consumatore in un mercato vincolato: non a caso sono esplosi gli utili di Eni (che estrae petrolio e gas direttamente), mentre sono calati quelli delle utilities (Enel, Iren, A2A, ecc.) che producono energia comprando per lo più all’estero le risorse occorrenti.
Per il 2023 il governo Meloni ha modificato il meccanismo (50% di aliquota su un incremento dei profitti superiore al 10% rispetto agli anni precedenti), ma soprattutto ha ridimensionato la previsione di gettito (ora attestata a 2,5 miliardi di euro). Ad inizio agosto poi, con un blitz pre-vacanziero, il governo ha varato una tassa sugli extra-profitti delle banche, che ha provocato uno smottamento in borsa del settore, con la perdita secca di dieci miliardi di euro di capitalizzazione in un solo giorno. Messo alle strette, entro le 24 ore il governo ha posto dei paletti che riducono nettamente il prelievo: si parla ora di non oltre due miliardi (sugli oltre 25 di utili netti annuali previsti). Ma la partita non è chiusa: le banche si appellano al mercato e alle norme comunitarie e anziché pagare e tacere puntano a un negoziato con il governo per ottenere un forte sconto…
Vedremo a conti fatti quanto entrerà, certo viene da sorridere pensando ai 40 miliardi di tasse da extra-profitti (su banche, assicurazioni, società energetiche e farmaceutiche), vagheggiati in campagna elettorale un po’ da tutti i partiti dell’arco parlamentare!
Restando sulla tassazione dei capitali, la manovra introduceva tre “novità” sui redditi finanziari: la tassazione al 26% delle plusvalenze sulle cripto-valute; una tassa sull’emersione di patrimoni (3,5% del capitale + 0,50% per ogni anno di maturazione di plusvalenze), come riedizione aggiornata dello scudo fiscale di tremontiana memoria; l’affrancamento al 14% delle plusvalenze “latenti” a fine 2022. Qui vale la pena soffermarsi: in pratica se il risparmiatore ha dei guadagni sugli investimenti in corso, può pagare il 14% ed “affrancarli” subito, anziché aspettare la scadenza o la vendita, quando dovrebbe pagare il 26%. Uno sconto di dodici punti percentuali sui guadagni da capitale: non male per chi specula, invece per lo Stato pochi, maledetti e subito!
Sul mercato del lavoro le mosse del governo sono state un chiaro ritorno all’indietro, con la reintroduzione dei voucher e la possibilità di usarli fino a 10.000 euro l’anno per utilizzatore (impresa) e fino a 5.000 euro (lavoratore). Hanno potuto usarlo le imprese fino a dieci addetti (inclusi discoteche e night-club), con il vantaggio di poter cannibalizzare integralmente il lavoro stagionale legato al turismo. Il voucher è la forma pura dello sfruttamento del lavoro a basso costo: esclude ferie, malattia, disoccupazione e permessi; non a caso era stato abolito nel 2017 in seguito alla minaccia di un referendum abrogativo. Ora è ritornato in grande stile come complemento importante della precarizzazione del lavoro. Un fenomeno in atto da almeno tre decenni, ma che ha raggiunto nel luglio 2022 il record dei contratti a termine (3.176.000), principale vettore della ripresa occupazionale post-pandemica.
Alle imprese poi vantaggi senza precedenti: a) chi assume a tempo indeterminato 36 mesi di esenzione totale dei contributi (48 mesi per le Regioni svantaggiate del sud); b) bonus del 60% sull’intero imponibile Inps per 12 mesi per chi assume giovani Neet sotto i 30 anni; c) cumulabilità (almeno parziale) dei due incentivi. Nella finanziaria 2024 si pensa di prorogare le misure, continuando ad abbassare i costi d’impresa.
Il ritorno al passato si è poi concretizzato, con il Decreto Lavoro, nell’abolizione finale del decreto dignità: la ministra Calderone ha eliminato la causale per i contratti a termine fino a 24 mesi e introdotto la possibilità di prorogarli di altri 12 mesi per determinate causali o con un accordo contrattato con i sindacati. Mentre sta maturando anche un ulteriore peggioramento dell’indennità di disoccupazione, è già esplosa l’abolizione del reddito di cittadinanza, a partire da agosto, per tutti coloro che sono considerati “occupabili” e non rispettano requisiti molto stringenti a livello di situazione familiare. Per loro si apre un percorso a ostacoli di ordine burocratico, che prevede vari passaggi per la messa a disposizione (per inutili corsi di formazione, inesistenti posti di lavoro e inaccettabili contratti capestro), con la prospettiva di avere 350 euro al mese per 12 mesi soltanto. Poi il nulla e la disperazione…
Nelle città e nelle province più colpite (Palermo, Napoli, Caserta, Torino…) restano senza reddito le famiglie più svantaggiate, a decine di migliaia, con cortei e tafferugli, ma soprattutto disagio, degrado, tensione e dispiegarsi dei tanti modi semi-legali o totalmente illegali per sopravvivere.
Allo stesso tempo per i “garantiti” si rafforza il “welfare aziendale”, esentando da tasse e contributi varie componenti salariali: dopo avere alzato, una tantum, a 3.000 euro l’anno la soglia di esenzione per i fringe benefits nel 2022, il governo ha detassato al 5% le mance di chi lavora in bar e ristoranti e abbassata dal 10% al 5% l’aliquota sui premi aziendali collegati alla produttività. Un occhiolino di riguardo governativo verso un nuovo “patto tra produttori”, che erode la base fiscale e contributiva, nella logica “si salvi chi può”.
E sulla vicenda pensioni resta in piedi, come prevedibile l’impianto della legge Fornero, con qualche proroga di deroghe: prorogata al 31.12.2023 quota 103 (62 anni d’età e 41 di lavoro), con una platea potenziale ormai ridotta a poche decine di migliaia di lavoratori; lo stesso è valso per opzione donna, con l’introduzione di requisiti restrittivi in termini di età e condizione personale (74% di invalidità, assistenza a familiari con handicap, rischio di licenziamento, presenza di almeno due figli).
Il piatto forte però è stata, per il 2023, la manovra sulla rivalutazione delle pensioni, che ha rappresentato il principale fattore di discontinuità con il governo Draghi.
Contravvenendo a norme già emanate, il governo ha tagliato la percentuale di rivalutazione delle pensioni, che a novembre 2022 l’Inps aveva fissato al 7.3% per tenere conto della forte inflazione in corso d’anno. Le pensioni avrebbero dovuto essere rivalutate per scaglioni, garantendo l’indicizzazione piena a quelle più basse e una rivalutazione proporzionale (ma difendibile) per quelle medio-alte. Invece il governo è passato a un meccanismo per fasce, che copre al 100% solo le pensioni fino a 2.100 euro lordi al mese e all’85% quelle fino a 2.600 euro lordi al mese. Per quelle superiori a quel livello, la misura dell’indicizzazione è precipitata dal 57% al 32%, a seconda delle fasce, con risparmi stimati nel biennio di circa 17 miliardi di euro.
Le risorse così risparmiate sono state spalmate, sfruttando una propaganda populista, sulle pensioni più basse, in modo da portare almeno a 600 euro al mese quelle degli ultra-75enni (misura che adesso Forza Italia vuole portare a 700 euro per il 2024); la manovra però ha consentito un taglio strutturale e permanente agli assegni di milioni di pensionati più “ricchi”, che non recupereranno mai più quanto l’inflazione ha eroso del loro potere d’acquisto.
Se questo era l’insieme delle misure in qualche modo riconducibili all’”emergenza” di una legge di stabilità stilata in corsa, ora si apre lo scenario di ciò che il governo intende fare in modo programmatico, sia per la legge di stabilità 2024, che per il resto della legislatura che ci sta davanti.
E qui si cade dal pero, perché la distanza tra le cose che sarebbe necessario fare e le intenzioni governative diventa abissale, svelando la vera natura della compagine al comando. La riforma fiscale annunciata, con legge delega da approvare entro settembre e decreti attuativi da emanare entro due anni, rappresenta un bel salto all’indietro di oltre 50 anni, a un regime precedente la riforma che nel 1973 introdusse l’Irpef (con criteri fortemente progressivi).
Nessuna delle misure annunciate affronta i veri problemi della struttura fiscale italiana, che possiamo sintetizzare in:
- Un’enorme evasione fiscale (100 miliardi) che vede lavoratori autonomi e piccole imprese dichiarare solo una piccola parte dei redditi, sottraendo percentuali tra il 65% e il 70% del reddito effettivo;
- L’elusione delle grandi imprese che “ottimizzano” il prelievo fiscale ricorrendo a paradisi fiscali europei ed extra-europei e che sono al tempo stesso beneficiarie di enormi trasferimenti, aiuti e sussidi pubblici, mentre sfruttano le agevolazioni fiscali sui reinvestimenti e innovazione, spesso ricorrendo ad abusi;
- La frammentazione del sistema, per cui diverse categorie di reddito subiscono trattamenti differenti e i contribuenti si ritrovano, pur a parità di reddito, ad avere carichi fiscali molto diversi;
- La presenza di categorie reddituali soggette a regimi sostitutivi e cedolari agevolati, che non contribuiscono alla spesa degli enti locali, con forti perdite di gettito;
- L’arretratezza del catasto dei terreni e dei fabbricati, con valori che da oltre 30 anni non vengono aggiornati, per le forti resistenze politiche a metterci mano;
- L’eccesso di tassazione sul lavoro, a causa di un prelievo fondato su tassazione del reddito e contributi sociali, quando la quota del reddito da lavoro è calata di circa 15 punti negli ultimi 30 anni sui conti della contabilità nazionale;
- La mancata utilizzazione delle banche dati esistenti, che consentirebbe un incrocio dei dati in grado di aggredire in poco tempo elusione ed evasione.
La riforma annunciata dal governo si guarda bene dall’affrontare questi nodi e accetta la balcanizzazione del fisco italiano, il ritorno alla cedolarizzazione e alla regressività dell’impostazione pre-riforma, disegnando un fisco corporativo e categoriale, gradito ovviamente alle categorie vicine alla maggioranza di governo.
La sbandierata riduzione della pressione fiscale dovrebbe concretizzarsi con il passaggio da 4 a 3 delle aliquote fiscali, e addirittura dell’estensione a tutti della flat-tax entro fine legislatura. Ma nel dettaglio non si entra, perché l’abbattimento del gettito determinerebbe lo smantellamento del welfare e non ci sono indicazioni su come finanziare il poco che resterebbe: la revisione delle detrazioni e deduzioni finirà per essere una partita di giro interna tra lavoro dipendente e pensionati. Alle imprese si promette di abbassare ancora l’aliquota IRES (scesa dal 27,5% del 2015 al 24% attuale) per gli utili reinvestiti e di eliminare gradualmente l’IRAP. Soprattutto si propone una sorta di concordato preventivo biennale alle piccole imprese, sulla base dei redditi attuali, molto distanti da quelli effettivi e accertabili con l’uso delle banche dati. E in sovrappiù ci sarebbe l’esclusione dagli accertamenti.
Ovviamente può accadere di tutto, tra ora e quando la riforma diventerà realtà. La dimensione dei problemi esistenti non è compatibile con una vera riduzione della pressione fiscale, meno che mai con una difesa corporativa degli squilibri fiscali attuali.
I tempi cui andiamo incontro non consentono gli spazi di manovra che il governo si illude si avere a disposizione. Il rallentamento economico in atto, coniugato con gli alti tassi d’interesse, le difficoltà ad attuare il PNRR, la revisione del patto di stabilità e la sospensione dell’acquisto dei titoli di stato da parte della BCE, non preannuncia nulla di buono per un paese indebitato come l’Italia. Il rialzo dei tassi, soprattutto, torna a pompare la spesa per interessi sul debito pubblico, che è arrivato a superare ogni precedente record con 2843 miliardi di euro a giugno 2023 (72 miliardi in più rispetto a un anno prima). Entro l’anno vanno rinnovati 400 miliardi di euro di titoli in scadenza ed entro il 2025 vanno pagati un totale di 300 miliardi di euro solo di interessi.
Nonostante le politiche di austerità “espansiva”, che hanno contraddistinto gli ultimi tre decenni, nessuno è mai riuscito a contenere la crescita del debito pubblico, né ad abbassare la pressione fiscale. Basti pensare che quando, nel 2011, “salì in politica” Mario Monti (ricordato come il capostipite dei sacrifici più duri) il debito pubblico ammontava a 1.907 miliardi e alla fine del suo governo (fine 2012) il debito era già salito di altri 81 miliardi, raggiungendo 1.988 miliardi. Largo circa, da allora, siamo saliti di altri 855 miliardi, vale a dire del 43%. Su dieci anni, abbiamo una media superiore al 4% annuo di nuovo debito…
Il Governo ha così il suo daffare per gestire l’uscita dal Superbonus 110%, che è stato uno dei provvedimenti più pasticciati dell’ultima legislatura, ma ha contribuito non poco a quella ripresa effimera che ci ha portato fuori dalla pandemia (+6.5% nel 2021 e +3.7% nel 2022). Al di là delle truffe, riconducibili più al bonus facciate e al meccanismo della cessione del credito, resta che la abrogazione di questo keynesismo immobiliare sta causando un crollo del mercato e del settore edilizio, spazzando via anche tutto l’indotto dei professionisti, architetti, ingegneri e periti, che hanno avuto una botta di vita durata tre anni.
L’altra grana grossa è rappresentata dal PNRR, provvedimento “salvifico” che vede ritardi pesanti nell’attuazione, sia per il rialzo dei prezzi dei materiali, sia per la cronica incapacità di spendere i fondi disponibili, legata alle incongruenze dell’amministrazione pubblica. Secondo la Corte dei Conti a marzo 2023 erano stati spesi solo il 12% dei fondi previsti, ma se vengono scorporate le risorse utilizzate dai privati in base ai meccanismi automatici, si scende ad appena un 6% per iniziativa della mano pubblica. Con effetti paradossali: solo 79 milioni spesi per la sanità a fronte di 15.536 previsti, nel contesto di uno sfascio del servizio nazionale che è sotto gli occhi di tutti; e i comuni non riescono ad approntare i progetti perché delle 15.000 persone necessarie, ne sono state assunte solo 3.000; e intanto i loro progetti già pronti vengono tagliati per fare posto alle Grandi Opere del Ministro Salvini (o Salini, come preferiscono chiamarlo i detrattori, vista la sudditanza al gruppo impiantistico che deve costruire il Ponte sullo stretto)…
Ora, quindi, si arriva al dunque, man mano che finisce la luna di miele con gli elettori e si vede la differenza tra il dire e il fare. Entrano nel vivo la “riforma” delle pensioni, le conseguenze dell’abolizione del reddito di cittadinanza, lo stallo sulla questione del salario minimo, l’esiguità delle risorse per la manovra finanziaria 2024, con in sottofondo l’accelerazione sull’autonomia differenziata.
Intanto le risorse vengono impegnate sul fronte del riarmo, nel contesto di una guerra sempre più vicina, lunga, incerta. L’impresa ucraina assorbe altri sei miliardi di euro e si profila un colossale fallimento per l’Occidente collettivo, chiamato a ricostruire un paese distrutto, dopo la presa d’atto della sconfitta. Altri 10 miliardi verrebbero destinati alla proroga della riduzione del “cuneo fiscale”, che, come abbiamo detto, rappresenta un modo per alzare di poco i salari senza farne pagare il costo ai padroni, riconoscendo contributi figurativi che peseranno solo sui futuri conti dell’Inps.
Ci sono poi altre spese indifferibili, già “prenotate”, come il rinnovo dei contratti pubblici per adeguarli all’inflazione. Non c’è spazio neanche per attuare le promesse elettorali fatte a suo tempo alle proprie clientele di riferimento: attuare la flat-tax a tutti comporterebbe, né più né meno, che il crollo verticale del sistema di welfare e la distruzione definitiva di scuola e sanità.
Sul fronte opposto, faticano a delinearsi sia una opposizione politica credibile, sia un movimento di resistenza sociale adeguato alla portata dello scontro. Le mobilitazioni del sindacato istituzionale, orfano della concertazione, si sono limitate a pochi scioperi regionali indetti a dicembre 2022 da Cgil e Uil, male organizzati e mal riusciti (come peraltro era già accaduto a dicembre 2021, con uno sciopero generale dall’esito analogo).
La CGIL ha poi riprovato a prendere l’iniziativa, con le tre manifestazioni primaverili, lo sciopero dei metalmeccanici a luglio, la manifestazione annunciata per il 7 ottobre 2023. Anche i contratti del privato scaduti (che riguardano circa otto milioni di lavoratori) potrebbero rappresentare un momento di accumulazione di forza, se fossero imperniati su recuperi forti del potere d’acquisto e una pratica democratica di elaborazione delle piattaforme con contenuti avanzati. Ma da questo fronte sono pochi i segnali di inversione di rotta.
I sindacati di base hanno cercato, a loro volta, di riprendere l’iniziativa, catalizzando in più occasioni, con tre scioperi generali tra ottobre 2021 e dicembre 2022, l’opposizione al carovita, all’impennata dell’inflazione e alla partecipazione attiva nella guerra dell’imperialismo Nato contro imperialismo russo. Non possiamo che prendere atto di una sostanziale irrilevanza, sul piano della profondità ed estensione del movimento dentro il corpo sociale. Né miglior fortuna hanno avuto le mobilitazioni “per la pace”, che restano un fenomeno di importante testimonianza etica e civile, rappresentando una larga opposizione alla guerra, viva e presente nell’opinione pubblica; ma non tali da rovesciare il tavolo e condizionare l’agire del potere.
Dobbiamo dunque continuare a lavorare sulle contraddizioni, senza attenderci, necessariamente, risultati a breve. A differenza di altri paesi europei, investiti da ondate di scioperi per il salario e per sventare riforme pensionistiche drastiche, in Italia non è ancora maturata una disponibilità alla lotta per la difesa dei livelli di vita. L’iniziativa si è per ora limitata alla difesa disperata dei posti di lavoro, qualora attaccati dalla chiusura dei siti industriali o dalla loro delocalizzazione. L’idea di passare alla controffensiva, ritornare ad attaccare, costruire conflitto e muovere verso nuove conquiste non ha ancora guadagnato sufficiente credito. Eppure, è solo da lì, dalla saldatura tra chi lotta per difendere le garanzie del passato e chi guarda alle potenzialità dischiuse oltre l’orizzonte capitalistico, che può riprendere la lotta per l’emancipazione.
I nodi, prima o poi, verranno al pettine e non chiediamo di meglio che essere smentiti…
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