Dal 15M al 22M: intervista con Íñigo Errejón
Íñigo sottolinea l’importanza politica epocale del 15M nell’aver aperto un ciclo di protesta dentro e contro la crisi, in rottura con l’assetto politico (sistemico) precedente. La sua emersione, nella Spagna colpita dalle misure di austerity e dal violento processo di impoverimento che ne è conseguito, ha sedimentato pratiche e immaginari differenti, che continuano ad essere operanti nelle mobilitazioni di queste ultime settimane. Il 15M ha in sostanza costruito una legittimità sociale a questi discorsi e queste pratiche, traducendo pubblicamente sentimenti di incompatibilità e malessere che prima venivano confinati al borbottio privato. Il suo merito è stato soprattutto quello di aver dato (esser stato) espressione non ideologica ma sostanziale di questo malcontento già presente nella società, costruendo una critica collettiva alle contraddizioni del regime spagnolo emerso dopo il 1978.
Da quell’ormai lontano maggio le dinamiche di piazza e le istanze emerse nelle proteste successive hanno segnato tanto una continuità che una discontinuità con quanto emerso il 15M. In primo luogo c’è stata una territorializzazione delle lotte, su singole vertenze specifiche, una traduzione locale di quello che nel 15M emergeva come discorso più generale. Le Mareas e la “battaglia” di Burgos, nel quartiere Gamonal, hanno ulteriormente sviluppato le qualità antagonistiche presenti nel corpo sociale come latenza. Se a Burgos si è assistito ad una radicalizzazione della lotta, a partire da un No costituente e determinato (un po’ come nelle nostre latitudini col movimento NoTav) le Mareas hanno mostrato che si può vincere, bloccando nei fatti la privatizzazioni degli ospedali nella zona di Madrid.
Íñigo sottolinea con giusta insistenza il carattere di novità e di imprevisto che il 15M ha rappresentato nel panorama spagnolo (e, aggiunguiamo noi, europeo). A chi si limita ad uno sguardo sul politico e la sua (presunta) autonomia, lamentando che nonostante tutte le manifestazioni “No cambio nada” e che il potere resta in mano alle oligarchie – un dato di fatto che non si può rimuovere – il nostro risponde che il portato della mobilitazione degli indignados sta tutto nel cambio di cultura politica che quella stagione ha prodotto, con la conseguente messa in crisi della legittimità della classe dominante.
Qui lo sguardo si fa più interessante, andando oltre le letture unilateralmente ottimistiche con cui si è soliti interpretare l’emergenza di ogni nuovo movimento come imemdiatamente realizzante trasformazioni rivoluzionarie. Íñigo suggerisce piuttosto che le tendenze contestatarie e le istanze che da esse promanano non sono necessariamente “di rottura” (“rupturistas”). Gli Indignados ieri, chi si mette in Marcha por la Dignidad oggi, non operano tanto una critica della rappresentanza quanto dei soggetti che ne occupano lo spazio politico. La precisazione è importante perché mostra – aldilà di evidenti differenze di intensità e radicamento nella società (là mobilitazioni di massa che investono lo spazio pubblico, qui la cattura elettorale grillina) – gli elementi comuni con fenomeni nostrani che in mancanza di altre adeguate definbizioni si è soliti identificare come “populismo” (popolo Viola, M5S, “forconi” vari… ecc). Di questo sentire diffuso e sostanzialmente indifferente si possono dare diverse interpretazioni, possono ad esempio essere facilmente declinate in discorsi e proposte destrorse. Íñigo evidenzia allora l’importanza del 15M proprio nell’aver impedito una curvatura reazionaria di un malesssere diffuso e generico e di averlo anzi qualificato in termini “progressisti”, partecipazionisti, redistributivi. È il movimento che trasforma!
Un ultimo aspetto su cui l’intervista dedica ancora il giusto spazio è la sostanziale capacità di tenuta dello Stato e delle oligarchie di cui incarna gli interessi. Íñigo ammette la grande capacità mobilitativa ma non nasconde il grande limite soggettivo di questi movimenti nell’incapacità di rompere l’impalcatura dei poteri statuali. Come dire, la dimensione sociale, ricca e potenzialmente sviluppabile, fatica nel trovare una traduzione politica capace di incrinare i sostegni, gli equilibri, la capacità di governo e dominio del potere statuale in mano alla classe dominante.
Ultimi due aspetti su cui si sofferma l’intervista sono quello del rapporto tra tendenze autonomiste/indipendentiste e movimento, del come queste si sovrappongano, potenziandosi e contraddicendosi e quello dell’Europa e del debito.
Rispetto al primo nodo Íñigo pone l’accento sul permanere di profonde fratture territoriali nella Spagna del post-franchismo e sull’incapacità di risoverle restando fermi alla Costituzione del 1978. Un tema che inizia ad emergere timidamente in alcune riflessioni interne al movimento ma che può anche essere facilmente utilizzato dall’oligarchia ben salda nei posti di potere madrolegni per contrapporre su base identitaria il centro alla periferia “anti-spagnola”. L’ultimo punto su cui abbiamo concentrato l’intervista è il rapporto tra questo ciclo di mobilitazioni in Spagna e la dimensione politica europea, tra necessità di una continentalizzazione delle lotte e l’attuale incapacità di proposte ricompositive efficaci. Íñigo osserva che su questo piano si può oggi parlare forse di minoranze iper-organizzate ma incapaci di tradursi in un discorso maggioritario, nonché fenomeni di mobilitazione ancora concentrati quasi esclusivamente nell’Europa meridionale. Il sentimento popolare non fatica ad individuare la natura europea delle direttive che informano le misure di austerity ma sono necessariamente obbligati a misurare la propria capacità d’esercizio di potere politico su una scala necessariamente nazionale, locale. Il problema che tocca i movimenti è oggi quello della traduzione: come articolare in situ istanze di trasformazione anti-sistemiche generali, senza fermarsi su dimensioni puramente astratte o di principio.
Prima parte dell’intervista – Dal 15M ad oggi: continuità e rotture
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Seconda parte dell’intervista – Fratture territoriali, Europa e Debito
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