Di emergenze e nuove possibilità da esplorare
“L’Italia ha venduto il Colosseo alla Francia, Venezia affonda
2030 e un giorno sì e uno sì scoppia una bomba
2030 e stiamo senza aria
Ma odio ce ne abbiamo in abbondanza
Prima divisero Nord e Sud, poi città e città
E, pensa, adesso ognuno è chiuso nella propria stanza”
Qualcosa di simile si respirava in quei giorni a Parigi in stato di emergenza. Quando dopo gli attentati di novembre 2015 si iniziava a percepire nel mondo Occidentale una paura strisciante rispetto a ciò che non si può prevedere, a detta di chi se ne dovrebbe occupare, ciò che non si può controllare e che arriva da lontano ma si esperisce nei nostri territori, alle nostre latitudini, sulle nostre esistenze. Chiusure, muri invisibili, razzismo, necessità di risposte, bisogno di sicurezza, sono tutte facce della stessa medaglia che, se da un lato possono essere recuperate dalle misure repressive e di inquadramento sociale dello Stato, dall’altro sono legittime esigenze di una popolazione che è stata depredata da innumerevoli decenni di mezzi propri – decisionali e gestionali – per affrontare le crisi e che si vede obbligata ad affidarsi a una gestione sistemica, già sapendo quanto sia fallimentare, delle emergenze.
L’atmosfera è quella di un mondo sull’orlo di un baratro, di equilibri post apocalittici da testare, l’aria è irrespirabile (per l’inquinamento) e gli scaffali sono vuoti ma nessuno sa veramente per quale motivo lo siano. Un po’ sicuramente ci piace la sospensione dell’ordine delle cose, giustamente. Fermarsi, per alcuni significa una vacanza – forzata – ma apprezzata dalla vita. La paura di essere colpiti, rimane però individuale, così come il cercare soluzioni o procurarsi misure di prevenzione, ed è tipicamente capitalistico. A Parigi le metropolitane erano vuote, oggi a Torino c’è il 20% di traffico in meno rispetto al solito. Ma la paura c’è per tutti, Beppe Sala diffonde uno spot su instagram dal nome #Milanononsiferma, per sollecitare al consumo e non cedere alla paura : “Ogni giorno abbiamo ritmi impensabili, ogni giorno portiamo a casa risultati importanti, perchè non abbiamo paura”, dice. Le misure governative riguardano la punta di un iceberg, ossia la chiusura di quei luoghi in cui, se attraversati, aumenterebbero le probabilità di diffusione di contagio. Risultano piene di contraddizioni, di restrizioni, di scomode limitazioni. Il Decreto Legge prevede l’equiparazione dei militari a funzionari di pubblica sicurezza e le manifestazioni sono vietate.
Abbiamo già scritto sulla teoria dello shock economy di Naomi Klein, sul capitalismo dei disastri, di come eventi catastrofici siano l’occasione per il sistema capitalista di guadagnare e riprodursi, sia perchè in precedenza all’evento traumatico – nella normalità di come tutto funziona – i costi vengono scaricati sui soggetti considerati subalterni, ed è ciò che ne costruisce il terreno per avverarsi; sia perchè in seguito all’evento traumatico gli stessi soggetti ne subiranno i costi, i vincoli, le conseguenze, l’impossibilità di decisionalità sui propri territori. Ciò ha riguardato i terremoti, le catastrofi naturali, uragani e tsunami, i crolli delle infrastrutture.. costituendo spazi aperti per il capitalismo affamato di guadagni, in cui mafie, imprese e grandi interessi si spartiscono la torta. Le epidemie aggiungono un pezzo in più in questo scenario: così come il terrorismo è qualcosa che viene percepito, perchè così viene narrato dall’informazione dominante, come incontrollabile, anche le epidemie diventano variabili impazzite per le quali non c’è esperto che avrebbe potuto prevedere, prevenire, perchè non c’è modo di ricostruire la catena del contagio e fermarlo. Ciò spiega l’ansia da parte dello Stato di approvare in fretta e furia provvedimenti che implicano l’auspicarsi il male minore, perchè affrontare un collasso di tale portata sarebbe ben diverso dal gestire una ricostruzione post terremoto, che in qualche modo si può permettere di lasciare incompiuta. In questo caso, una malagestione nel momento in cui l’epidemia sfociasse in una pandemia fuori controllo, significherebbe totale crisi, innanzitutto delle strutture sanitarie non adeguate a sostenere un evento simile, basti pensare che nella sola città di Torino qualche mese fa a fronte dell’”emergenza influenza” si iniziasse a parlare di sanità privata come soluzione all’inadeguatezza del pubblico, e consequenzialmente il collasso delle strutture economiche e sociali. Quali saranno dunque le contromisure che potrebbero essere messe in atto? Quali saranno i costi reali di un’eventuale pandemia, considerando che all’oggi sono 150 i miliardi già spesi per l’emergenza coronavirus ? Chi ci guadagna oltre alle azioni legate alle aziende farmaceutiche per la sperimentazione dei farmaci antivirali e alle strutture private che sostituiscono pezzi del pubblico che non è in grado di sostenere?
Siamo ancora in tempo per pretendere risposte per tutti, per costruire un discorso capace di evidenziare come il cambiamento climatico sia strettamente legato al rischio di pandemie e come gli studi su di esso possano portare anche a una prevenzione di queste, per costruire possibilità di solidarietà di fronte a misure che costringono a un adeguamento all’anormalità senza dare alternative valide: chi pagherà i giorni di lavoro persi, chi sosterrà madri che in assenza di servizi all’infanzia e scuole si sobbarcano le conseguenze, come non accettare di essere sottoposti a rischi mortali e come riprenderci il diritto alla salute, quali sono le condizioni lavorative del personale sanitario in una situazione di emergenza ma soprattutto nella quotidianità ?
Per concludere.. quanto sia inutile invece, criticare l’assunzione di responsabilità singola e collettiva a fronte di un evento come questo e quanto sia giudicante nei confronti di chi è sottoposto effettivamente al rischio di contagio, lascia così tanto il tempo che trova che nemmeno merita di essere sviscerato. Sostenere che, se non ci si preoccupa per le morti per inquinamento annue, sia ridicolo preoccuparsi del coronavirus è solo presunzione e polemica sterile. Essere più colpiti da ciò che ci accade da più vicino è quanto ancora di umano ci possa restare, a partire da questo costruiamo possibilità di rifiuto verso l’alto.
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