
Dopo la Diaz, sulle torture di stato la testimonianza di Enrico Triaca

Per quanto ne possa dire Manganelli, capo della polizia, che si dice soddisfatto della sentenza di Cassazione, ricordando però che si tratta di “qualche comportamento errato”, la testimonianza di Triaca ribadisce che, oggi come allora, non si può parlare di “mele marce” ma che è l’intero frutteto ad essere marcio.
Di Enrico Triaca, per insorgenze
Sono stato arrestao il 17 maggio 1978. Prelevato da casa fui portato in tipografia, in via Pio Foà a Monteverde, per la perquisizione dei locali. Qui appena gli agenti hanno rinvenuto il materiale dell’organizzazione si è precipitata un’orda di poliziotti. A quel punto sono stato portato in questura, a San Vitale, dove venni perquisito come risulta da un verbale firmato da Domenico Spinella (capo della DIGOS). Nel pomeriggio sono stato spostato nella caserma di via Castro Pretorio, dove è cominciato l’interrogatorio. Verso sera è arrivato il “professor De Tormentis” che mi ha indirizzato qualche battuta dicendomi, tra l’altro, che eravamo paesani, dopodiché si appartò con Spinella. I due confabularono qualcosa. Appena finito dissero agli agenti che bastava così e ordinarono di riportarmi in questura. Uscimmo nel cortile dove c’era un furgone. Si aprì lo sportello laterale e si affacciarono due poliziotti con casco antiproiettile e giubbotto suscitando lo stupore degli agenti che mi tenevano, ma “De Tormentis” ordinò di consegnarmi a loro e Spinella confermò l’ordine.
Il trattamento
 Fui caricato, mi misero le manette dietro la schiena, mi bendarono steso  a terra e il furgone partì. Nessuno parlava, si sentiva solo un leggero  bisbiglio e un rumore di armi, caricatori che venivano inseriti,  carrelli che mettevano il colpo in canna. Cercavo di capire cosa stava  succedendo: “Vogliono farti sparire, eliminarti? Ma sei stato prelevato a  casa, portato in tipografia, quindi la cosa e pubblica”. Allora  razionalizzavo che la cosa non era possibile. Allora mi chiedevo:  “Vogliono pestarti? Ma questo potevano farlo a Castro Pretorio, di certo  non sto andando in Questura”.  Dopo una mezzora circa, ma calcolare il  tempo in certi frangenti è difficile, penso comunque di non essere  uscito da Roma, il furgone si fermò. Mi fecero scendere, salimmo delle  scale e mi introdussero in una stanza. Lì venni spogliato, mi caricarono  su un tavolo e mi legarono alle quattro estremità con le spalle e la  testa fuori dal tavolo, accesero la radio con il volume al massimo e  cominciò “il trattamento”. Un maiale si sedette sulla pancia, un altro  mi sollevò la testa tenendomi il naso otturato, e un altro mi inserì il  tubo dell’acqua in bocca.
 L’istinto è quello di agitarti nel tentativo di prendere aria ma riesco  solo ad ingoiare acqua. Nessuno parla tranne“De Tormentis” che da  ordini, decide quando smettere e quando ricominciare, fa le domande. Poi  ti viene somministrato qualcosa che si dice dovrebbe essere del sale,  ma tu non senti più il sapore, dopo un po’ che tieni la testa penzoloni i  muscoli cominciano a farti male e ad ogni movimento ti sembra che il  primo tratto della spina dorsale ti venga strappato dalla carne, dai  muscoli, dai nervi. Quando l’ossigeno comincia a mancare il corpo si  ribella e si manifesta con violenti spasmi, violente contrazioni nel  tentativo di prendere ossigeno: uno, due , tre spasmi e “de Tormentis”  ordina di smettere. Un paio di respirazioni e si ricomincia: uno, due,  tre contrazioni, «Stop»; uno, due, tre, «Stop». Dopo un lasso di tempo  indefinito cominci a non reagire più; cerchi di estraniarti ma la testa  che viene continuamente mossa e le fitte che ciò ti procura ti  costringono a restare lì. All’ennesimo stop entra in campo un’altra voce  che dice di smettere, che può bastare. Ne nasce una mezza discussione  con “De Tormentis” che invece insiste per continuare, ma l’altra voce ha  paura e s’impone e così vengo slegato, messo a sedere sul tavolo. Con  l’alcol mi massaggiano braccia e spalle, mi rivestono tra le battute  divertite di due maiali. Per accertarsi che la bendatura regga mi fanno  uscire sul pianerottolo dove al centro è sistemata una sedia che mi  fanno urtare per verificare che non vedo, quindi riscendo una rampa di  scale e poi ne imbocchiamo un’altra sulla sinistra, più piccola e meno  illuminata che da direttamente nel garage. Qui vengo caricato nel  furgone, si sente il rumore di una porta automatica e si parte. Tornati  in questura, nel cortile vengo sbendato e consegnato a due guardie che  mi portano in cella di sicurezza.
“Hanno visto in tanti”
 “De Tormentis” ha sparso una quantità di indizi su di sè da essere ormai  facilmente identificabile; la voce “fuori campo” presente nella stanza  della tortura non è difficile da capire a chi appartenga. Non poteva  essere certo un semplice poliziotto ad ordinare a “De Tormentis” di  smettere. Nel cortile di Castro Pretorio oltre a Spinella e “De  Tormentis” con la sua squadretta c’era una coorte di almeno 10  poliziotti. Erano e sono in molti a sapere.
 Come scriveva Pasolini, io so. Io so i nomi dei torturatori, io so i nomi di chi tali abusi ha coperto, ma non ho le prove.
Il carcere
 Dopo tre giorni di permanenza nelle celle di sicurezza (altro abuso  perché le leggi di allora non permettevano di trattenere un detenuto per  un tempo così lungo in questura) venni tradotto nel carcere di  Civitavecchia, dove sono stato per circa una settimana. 24 ore su 24  chiuso in cella senza possibilità di andare “all’aria”, con un secondino  fisso davanti alla cella. Poi trasferito a Sulmona, anche lì 24 su 24  in una cella sotterranea, con una finestrella a sei metri di altezza,  una turca, senza lavandino, con un tubo che fuoriusciva sopra la turca  da cui sgorgava in continuazione acqua dal quale potevo lavarmi o bere,  il letto incementato al centro della cella, e una puzza di muffa che  toglieva il respiro……… mi venne in mente Silvio Pellico.
 Dopo una settimana circa, sono stato nuovamente trasferito, questa volta  a Volterra. Qui ci fu il salto di qualità: la cella era una “normale”  cella di isolamento, con letto, bagno, lavandino e due porte una di  fronte all’altra. Una di queste portava al cortile dell’aria: una cella  un po’ più piccola senza tetto, ma almeno si vedeva la luce del sole, il  cielo. Qui riuscii ad avere dopo tanto una sigaretta dal lavorante  della sezione, una Stop lunga senza filtro. Me la fumai con un gusto  indescrivibile, poi mi sdraiai sul letto perché mi girava tutto. Dopo  un’altra settimana circa sono stato nuovamente trasferito, a Rebibbia  questa volta, sempre in isolamento. Ricevetti la prima visita degli  avvocati, che mi spiegarono come fino a quel momento nessuno era  riuscito a sapere dove stavo, che fine avessi fatto (Desaparecidos).
 A Rebibbia il passeggio era ampio con tutto intorno vetrate che davano  su corridoi interni. Dopo qualche giorno trovai i vetri tappezzati di  carta plastificata ed ogni tanto apparivano fessure dalle quali, seppi  in seguito, mi spiavano i parenti delle vittime per i confronti.
La condanna per calunnia
 Ci fu poi l’interrogatorio con il magistrato Achille Gallucci al quale  denunciai le torture raccontando come si svolsero i fatti. Lui mi  rispose che mi sarei beccato una denuncia per calunnia e così fu. Il  giorno dopo, o forse quello ancora, ricevetti il mandato di cattura per  calunnia, dopo lunghe e approfondite indagini Sic!.
 Venne istruito il processo per direttissima, ed in quella occasione ci  inserirono il porto abusivo di armi. Gli avvocati fecero presente che  non potevo essere processato per porto d’armi in quel frangente perché i  tempi per la direttissima erano scaduti, ma il giudice se ne fregò e  andò avanti.
 Venne chiamato Domenico Spinella, capo della DIGOS. Il giudice gli  chiese il motivo del trasferimento dalla questura a Castro Pretorio, ma  lui negò che fossi stato portato in questura ma direttamente a Castro  Pretorio. Gli avvocati presentano alla corte un verbale firmato da  Domenico Spinella nel quale affermava che alle 12,30 venivo perquisito  negli uffici della questura, ma il giudice se ne fregò, non chiese  chiarimenti e continuò. Chiese a Spinella i nomi degli agenti di turno  alle celle di sicurezza, lui rispose che non poteva ricordarli ma che il  giorno dopo avrebbe portato il registro delle presenze. Il giorno dopo  venne un agente e disse che il registro delle presenze era sparito, ma  il giudice se ne fregò e si convinse, “al di la di ogni ragionevole  dubbio”, della mia colpevolezza, così fui condannato.
 Tutti i giornali evitarono qualsiasi commento limitandosi a riferire della mia condanna, si distinse L’UNITA’ che ebbe l’ardire di scrivere sul numero dell’8 novembre 1978:  «L’avvocato Alfonso Cascone ha invece avanzato apertamente il sospetto  che le accuse di Triaca alla polizia fossero false e che il suo  assistito avesse mentito poiché – pensando di essere considerato dalle  BR un delatore – temeva rappresaglie. Il reato di calunnia, ha detto  quindi il legale, sarebbe stato compiuto in “stato di necessità”.  Nonostante i dubbi suscitati dal comportamento della polizia durante il  processo, dunque, uno scorcio di verità è arrivata inaspettatamente  proprio da uno dei difensori del tipografo delle BR».
 L’avvocato Alfonso Cascone presentò una denuncia contro il giornale che venne immediatamente archiviata.
Le manovre per fare di me un pentito
 Continuai a restare in isolamento a Rebibbia per altri due, forse tre  mesi, dopodiché sono stato messo in socialità con i miei coimputati ma  tempo qualche settimana fui nuovamente trasferito a Volterra, sempre in  socialità.
 Il 27 dicembre del 1979 su La Nazione di Firenze esce un  articolo con tanto di foto che, facendo riferimento a «indiscrezioni non  smentite provenienti dal palazzo di giustizia», mi attribuisce  confessioni fatte ad Achille Gallucci, con tutta una serie di fatti e  circostanze che avevano portato la polizia ad arrestare molti militanti  delle Brigate Rosse. Il tutto, secondo il giornale, sarebbe avvenuto nel  carcere di Fossombrone nel quale, in realtà, non ero mai stato.
 Dopo questo articolo venni impacchettato e trasferito. Appena fuori da  Volterra il blindato si fermò. Salì un carabiniere in borghese che fece  scendere i due militi di scorta e mi tolse gli schiavettoni. Cominciò  una tiritera per convincermi a collaborare con i metodi classici  dell’intimidazione: «abbiamo saputo che a Volterra volevano ucciderti»,  mi disse. Gli risposi che non avevo nessuna intenzione di collaborare e  che se mi riportavano a Volterra mi facevano un favore. Replicò che mi  avrebbero portato in un carcere tranquillo dove non c’erano altri  prigionieri politici, così potevo pensare con calma alla proposta che m  aveva fatto. Il segnale sarebbe stato la revoca del mandato ai miei  avvocati. Lui avrebbe capito e sarebbe venuto subito. Me lo dovetti  cibare per tutto il viaggio. Come provavo a tirare fuori le sigarette,  lui pronto mi infilava in bocca una delle sue malboro e l’accendeva……..  non ho mai avuto un compagno di viaggio così premuroso. Finalmente  arrivammo a Sulmona, dove prima di entrare nel carcere mi salutò facendo  risalire sul furgone i due carabinieri della scorta. Finii nuovamente  in isolamento. Dopo due, forse tre mesi e varie proteste mie e degli  avvocati, fui trasferito in una sezione dove era possibile la socialità,  non prima di subire i soliti avvertimenti: «guarda che qui ti  ammazzano. Non è uno Speciale, qui la sorveglianza è scarsa, qui non  girano coltelli ma spade», e via dicendo. Tempo un mese, mi trasferirono  nel carcere speciale di Trani. Pensai che finalmente si erano decisi a  mollarmi, ma mi spagliavo di grosso. Dopo due-tre settimane mi  trasferirono di nuovo.
Termini Imerese
 A Termini Imerese mi ritrovai di nuovo in isolamento. C’erano pochissimi  detenuti, il carcere era in ristrutturazione dopo che era stato  semidistrutto da una rivolta. Ai miei avvocati dissero che dovevo stare  isolato perché ero pericoloso. Secondo loro a Volterra stavo preparando  la fuga. In seguito dissero che era per il mio bene perché volevano  uccidermi. Capii che qui sarebbe stata lunga, infatti rimasi fino al  processo: 2 anni. Volevano farmi arrivare in aula distrutto fisicamente e  psicologicamente. Smisi di fumare e cominciai a fare yoga. Dovevo  resistere, non dovevo farmi distruggere. Cominciai a pensare che  comunque andasse avevo sempre un’ultima arma per sottrarmi all’abuso,  alla sopraffazione: il suicidio, ma solo come ultima ratio.
 I primi tempi compravo il giornale e lo leggevo tutto, compresi gli  annunci mortuari, i numeri di pagina. Poi lentamente non ci riuscivo  più, leggevo la prima riga e quando passavo alla seconda non ricordavo  più cosa c’era scritto nella prima. Così mi limitavo a leggere i titoli  finché alla fine non lo comprai più. Ho cominciato a dormire di giorno e  vegliare la notte; l’unico svago era litigare e provocare i secondini.  Una volta diedi dello stronzo a un secondino (che si era comportato  male) e per dispetto mi lasciavano la luce accesa anche la notte. Tutte  le notti mi arrampicavo sugli stipetti e allungando la scopa appiccicavo  un pezzo di carta che spalmavo con il dentifricio sulla plafoniera. Il  soffitto era alto 5 metri. Le guardie tutte le mattine passavano con la  scala e lo toglievano, ed io la notte successiva lo rimettevo…… una  goduria.
 Dopo un annetto mi chiamò a colloquio un assistente sociale: decisi di  andarci per sgranchirmi le gambe e fare un po’ di ginnastica con la  lingua. Cominciammo a parlare del più e del meno, poi mi chiese se  volevo stare ancora in isolamento. Gli spiegai che non volevo  assolutamente starci. Le avevano detto che l’isolamento era una mia  scelta, allora le chiesi come mai mi avesse chiamato a colloquio, visto  che normalmente non succedeva mai. All’inizio mi diede delle risposte  vaghe, poi si sfogò dicendomi che non poteva in così poco tempo capire  le persone. Mi confessò quindi che l’avevano mandata per testare la mia  diponibilità a parlare con i giudici; gli dissi di riferire che se  volevano togliermi dall’isolamento andava bene, altrimenti in quel posto  potevo anche morirci e non avevo intenzione di parlare con nessuno di  loro, poi tornai in cella.
 Per passare il tempo feci una stella a cinque punte sul muro e delle  scritte, il giorno dopo ci fu una sfilata di secondini tutti ad ammirare  i miei graffiti: guardavano e confabulavano nonostante io abbia una  pessima calligrafia. Mi cambiarono di cella e si trattennero dal  libretto i soldi per la riverniciatura delle pareti. Nella nuova cella  feci la stessa cosa. Questa volta mi chiamò il maresciallo che mi  rimprovero dicendo che non si facevano quelle cose perché «le stanze  erano tutte pulite e così dovevano restare per gli altri». «Quali  stanze?» – risposi, facendogli notare che stavamo in un carcere e non in  albergo e che quelle si chiamavano celle. Il maresciallo iniziò a  sfogarsi dicendomi che aveva sempre fatto servizio in carceri minorili,  che era stato spedito a Termini Imerese per punizione e che non sapeva  nulla di queste cose. Pensai che fare da psicologo a un maresciallo  frustrato era troppo; inforcai la porta e tentai di andarmene ma davanti  c’era un appuntato che cerco di bloccarmi. Mi voltai a guardare il  maresciallo che gli disse di riportarmi in cella. Intanto il tempo  passava, finalmente fui trasferito di nuovo a Rebibbia per il processo,  ma sempre rigorosamente in isolamento.
L’aula bunker
 Il primo giorno di udienza mi ritrovo nella gabbia dei pentiti, ma ben  distante dagli altri e tenuto per la catena dai carabinieri. Quando  entrò la corte cominciai a protestare chiedendo di essere messo con i  compagni. Il giudice acconsentì e un carabiniere mi disse: «quelli ti  tagliano la testa». Gli risposi di preoccuparsi della sua di testa.
 Restava il nodo dell’isolamento, così continuai a protestare con la  corte. Dopo un po’ di tempo i giudici accolsero la mia richiesta, visto  che oramai il tentativo era fallito. Dal terzo piano del G12, dove ero  rinchiuso, scesi al secondo dove c’erano quelli del 7 aprile e alcuni  autonomi. Qui la scena fu divertente: quando arrivai davanti al cancello  della sezione scoprii che questi detenuti erano tutti liberi nel  corridoio, con le celle aperte (condizione di privilegio), ma quando  entrai si rintanarono tutti. Fui portato nella cella di Giuliano Naria.  Ci salutammo e mi sedetti sul letto, lui mi disse di disfare la  zampogna. Gli risposi che era meglio aspettare, infatti dopo 5 minuti  arrivò Emilio Vesce a chiamarlo. Dopo un quarto d’ora si presentarono i  secondini a dirmi che si erano sbagliati e che dovevo tornare sù. Al  terzo piano, dopo un’altro po’ d’isolamento mi misero in cella con altri  due compagnucci freschi d’arresto.
 Sospeso il processo per il periodo estivo, mi rispedirono a Termini  Imerese (sempre rigorosamente in isolamento). Chiamai il direttore e  gliene chiesi il motivo e quello mi rispose di stare tranquillo perché  aveva già scritto al ministero che in quel carcere non ero gradito.  L’isolamento continuò fino alla ripresa del processo, dove protestai di  nuovo con la corte. Finalmente mi declassificarono portandomi al secondo  piano del G12, dove non c’erano più i signorini del 7 aprile che già  facevano gli omogeneizzati nell’apposita area [il riferimento è alla  creazione di apposite sezioni carcerarie declassificate, denominate  “aree omogenee per la dissociazione dal/del terrorismo” Ndr]. Venni  poi a sapere che erano stati loro a pretendere il mio allontanamento  dalla sezione perché c’era il rischio che li ammazzassi – sostenevano –  in quanto «irriducibile».
 Ancora vivo nonostante tutto
 Qui finiscono le torture e inizia il tempo della elaborazione degli  avvenimenti, lungo il quale finalmente ripercorro gesti e azioni, fino a  rendermi conto di aver oltrepassato la linea della pazzia, di aver  fatto cose che razionalmente non si farebbero mai per chiedermi come  fossi arrivato ad uscirne. Non ho una risposta, l’unica cosa che posso  pensare è la forte convizione di ciò che ero e mi consideravo: un  militante comunista prigioniero di uno Stato bugiardo e vigliacco che ha  ancora paura di affrontare i propri fantasmi, che tenta di  giustificarsi parlando di «mele marce».
 La consapevolezza che i miei compagni mi credevano e non hanno avuto dubbi.
 Ma io so delle torture degli anni 70 e 80,
 io so della mattanza di Bolzaneto,
 io so dei morti ammazzati nelle caserme e durante l’arresto.
 Io so di poliziotti che passeggiano sulla testa di ragazzini alle manifestazioni.
 Di tutto ciò, ci sono le prove.
 Allora ti volti indietro e ti accorgi che non si tratta di “mele marce” ma che è l’intero frutteto ad essere marcio.
 Per questo ancora oggi mi dichiaro prigioniero politico, non più di un  potere giudiziario, carcerario, ma di una verità nascosta, insabbiata,  di uno Stato che senza merito si fregia del titolo di democratico, di  uno Stato reticente, connivente.
Ti è piaciuto questo articolo? Infoaut è un network indipendente che si basa sul lavoro volontario e militante di molte persone. Puoi darci una mano diffondendo i nostri articoli, approfondimenti e reportage ad un pubblico il più vasto possibile e supportarci iscrivendoti al nostro canale telegram, o seguendo le nostre pagine social di facebook, instagram e youtube.




















