Esaminare la repressione con Marx: “drenaggio” degli immigrati e lotta alla sovrappopolazione carceraria
da Charta Sporca (articolo di Fabienne Brion, traduzione di Andrea Muni)
Delinquenza ed etnicità
Alla constatazione secondo cui “la prigione serve a ridurre i crimini” Michel Foucault opponeva, già nel 1975, l’ipotesi che la prigione, piuttosto, abbia la funzione di “produrre la delinquenza, vale a dire un tipo specifico, politicamente ed economicamente meno pericoloso (e al limite utilizzabile) di illegalismo; [la prigione serve inoltre, secondo Foucault] a produrre i delinquenti: una categoria umana al contempo marginalizzata e strettamente controllata. [In terzo luogo] la prigione serve a produrre il delinquente stesso come un soggetto patologico” [1].
L’odierna lotta alla sovrappopolazione carceraria sembra aver paradossalmente accreditato l’idea che la prigione sia degradante e inumana soltanto per via dell’eccessivo numero (e delle pessime condizioni di vita) dei detenuti che vi risiedono. Su questa convinzione di base, infatti, l’Europa è andata recentemente riformando l’intero sistema (e l’intero regime) penale, l’utilizzo della prigione e lo statuto giuridico dei detenuti. Alcuni autori contemporanei – valendosi delle ricerche dei criminologi francofortesi Rusche e Kirchheimer, e distanziandosi dalle teorie sulla sovrappopolazione carceraria oggi più in voga – ritengono che (ad oggi) esista una stretta correlazione tra la disoccupazione e l’inflazione carceraria, e che questa correlazione sia non solo un elemento essenziale al sistema di produzione capitalista, ma anche (e soprattutto) la vera causa delle variazioni dei tassi di detenzione. Le prigioni (secondo Samuel Myers e William Sabol) servirebbero infatti sostanzialmente ancora oggi a “drenare” la “classe dei lavoratori superflui”, ossia la classe socialmente più minacciosa (quella che Spitzer definiva la “dinamite sociale”). Ma a quale scopo, secondo questi autori, le prigioni si farebbero carico di questa funzione “drenante”?
Su scala individuale: le pene e le misure penali, in periodi di bassa congiuntura economica, funzionerebbero come equivalenti (o supplenti) di quei meccanismi di controllo sociale che, invece, in periodi di alta congiuntura economica, sarebbero incentrati sul lavoro [2].
Su scala sociale e collettiva: le pene e le misure penali permetterebbero allo Stato di regolare e gestire la popolazione “sovrannumeraria”; i procedimenti penali sono infatti molto utili per tenere sotto controllo, e calcolare razionalmente, le dimensioni di quello che Marx chiamava l’“esercito industriale di riserva” [3].
Sulla scala del sistema di produzione: le pene e le misure penali servirebbero ad una continua auto-legittimazione dell’apparato statale capitalista; esse prevengono infatti – prima ancora di abbassare alcuni uomini al rango di individui “ridondanti” [4] – ogni possibile messa in discussione della legittimità di un modo di produzione che riduce gli esseri umani a pura “forza-lavoro”, e la “forza-lavoro” a semplice merce. In quest’ottica, le pene e le misure penali svolgerebbero quindi un ruolo di tutela dell’“ideologia egualitaria così essenziale alla legittimazione politica di tutte le relazioni capitaliste di produzione” [5].
Il “grand renfermement” (grande reclusione) degli stranieri in atto in Europa può essere criticamente analizzato almeno su tre distinti livelli. 1) A livello ideologico (quello che Marx avrebbe chiamato la “sovrastruttura”) esso ci impone di analizzare, storicamente e politicamente, la “coscienza” che oggi abbiamo della effettiva relazione tra etnicità e delinquenza. 2) A livello giuridico-politico esso ci obbliga invece a studiare i meccanismi e i processi politici che inducono l’aumento del tasso di detenzione di individui che non sono cittadini dell’Unione Europea. 3) Ad un livello più generale, il “grand renferment” degli stranieri dovrebbe essere analizzato come un effetto del sistema economico peculiare alla nostra società e delle sue principali funzioni – il livello che Marx avrebbe chiamato la “struttura”.
Per offrire un esempio pratico, a rinforzo di queste premesse teoriche, vorrei chiamare in causa l’esempio del paese in cui vivo e lavoro: il Belgio. Nel mio paese infatti il tasso di detenzione dei cittadini belgi è rimasto stabile (negli ultimi vent’anni) nonostante il numero di cittadini belgi di origine straniera non abbia mai smesso di aumentare [6]; mentre al contrario, il tasso di detenzione degli “stranieri” è in continua crescita nonostante gli stranieri censiti siano in netto calo (compresi quelli appartenenti alle etnie più rappresentative della popolazione carceraria) [7]. Se la causa della sovra-presenza di stranieri nelle carceri belghe fosse collegata alla loro origine etnica, alla loro cultura, o alla loro religione, allora la loro integrazione nella popolazione nazionale belga censita avrebbe dovuto automaticamente generare un aumento del tasso di detenzione dei cittadini belgi: ma i numeri mostrano che le cose non vanno affatto così, e che anzi accade tutto il contrario. Il tasso di detenzione dei cittadini belgi è rimasto stabile negli ultimi anni nonostante il netto incremento di cittadini belgi di origine straniera. Il concetto di etnicità del criminale spesso ci impedisce persino di guardare ai più semplici dati. L’“etnicità del criminale” infatti non è altro che un nome utile a rivestire uno dei tanti sistemi che permettono all’apparato penale di collegare i trasgressori alle proprie infrazioni. L’etnicità è una “causa assente” che non esiste se non come il prodotto dei propri supposti effetti; è una “causa” ricostruita aprés coup, a posteriori; una “causa” che non è altro che l’“effetto ideologico” degli apparati, dei rituali, delle pratiche e degli atti materiali che la producono come tale. I concetti di delinquenza e di etnicità sono due strumenti fondamentali attraverso cui si va fabbricando in Europa una nuova “classe pericolosa”. Il concetto di delinquenza induce a tenere d’occhio particolari gruppi etnici statisticamente sovrarappresentati tra i detenuti, mentre al contempo, il concetto di etnicità estende il sospetto di delinquenza e di pericolosità all’insieme dei gruppi etnici a cui ‘automaticamente’ rinvia la nazionalità dei detenuti.
Questo circolo vizioso si riproduce incessantemente senza che nemmeno si ponga il problema di distinguere, all’interno dei membri di queste comunità stigmatizzate, tra cittadini stranieri, persone con la doppia nazionalità (belga e straniera) e persone che hanno ormai la sola cittadinanza belga (pur essendo di origine straniera). Prendendo a prestito una felice espressione di Erving Goffman, si potrebbe dire che la sola utilità prodotta dal collegamento tra delinquenza ed etnicità è quella di diffondere indiscriminatamente gli effetti dello “stigma” penale a tutti i membri di un gruppo etnico che è già affetto da uno stigma “tribale”. Un tale meccanismo, per fare un’analogia storica, è paragonabile a quello innescato tra Otto e Novecento dal concetto criminologico-psichiatrico di “degenerazione”. Con l’unica differenza che lo stigma della “degenerazione” colpiva degli individui che, a quei tempi, appartenevano ad una certa classe sociale (e non funzionava invece – come accade oggi – in termini di nazionalità, di origine nazionale o di mancanza di laicità).
Oltre ad innescare uno “stigma” sociale, l’equazione delinquenza-etnicità produce anche, all’occasione, dei deleteri effetti di identificazione: non solo nel senso banale di “identificazione poliziesca”, ma anche e soprattutto degli effetti di identificazione intesa nel senso psicanalitico del termine. Se infatti consideriamo – con Althusser, Lacan e Genet – che il soggetto sorge da un’interpellazione che gli proviene dalla società (o dall’Altro), riusciamo forse a capire meglio come gli individui di un certo gruppo etnico, ritenuto particolarmente delinquente, non possano che tendere identificatoriamente a costituirsi in soggetti rispondendo all’«interpellazione» criminalizzante che gli proviene dalla nostra società.
Althusser, già in Ideologia e apparati ideologici di Stato [8], elaborava la tesi attualissima secondo cui l’ideologia non sarebbe affatto una semplice idea, bensì qualcosa di immanente agli apparati, ai rituali, alle pratiche e agli atti in cui essa, di fatto, esiste come realtà. Proseguendo la ricerca althusseriana, anche il filosofo Warren Montag ritiene oggi che le idee siano “in questo senso, delle cause che non possono mai essere ricostruite che aprés coup, a posteriori, e che non siano altro che un effetto di cause materiali” [9]. Non solo Foucault quindi, ma anche gli stessi Althusser e Montag, ci invitano a considerare il concetto di delinquenza come nient’altro che un effetto ideologico generato dell’esistenza materiale della prigione e degli apparati repressivi che le sono collegati. Il concetto di delinquenza (e di delinquente), infatti, non è che la ricostruzione e la giustificazione a posteriori di una “causa” che, in realtà, non è che l’effetto di una precisa pratica materiale: la pena di detenzione.
La delinquenza non è un concetto che attribuiamo a tutti gli autori di infrazioni penali (il che sarebbe per certi versi più comprensibile), ma è piuttosto un concetto che attribuiamo a tutti gli individui che sono (o sono stati) detenuti in prigione (magari solo per ragioni cautelari), ed un concetto che tendiamo naturalmente ad estendere ai gruppi etnici di cui tendenzialmente i detenuti fanno parte. L’etnicità del delinquente, pensata come causa della sua delinquenza, è ciò che siamo indotti a pre-supporre per spiegare e giustificare a noi stessi lo sconvolgente soprannumero degli stranieri in prigione; ma questa nostra pre-supposizione, a sua volta, non è che uno dei tanti elementi che, giorno dopo giorno, contribuiscono a dare corpo, e a far apparire come “necessario” e razionale, il tipo di “selezione etnica” dei criminali operato dal sistema penale (“selezione” di cui il concetto di delinquenza non è che il risultato finale). Un esempio su tutti è il reato di immigrazione clandestina: come non vedere che esso è immanente al “grand renferement” degli stranieri?
Che fare contro la sovrappopolazione carceraria?
L’attuale tipo di lotta contro la sovrappopolazione carceraria (e contro il “grand renfermement” degli stranieri) non fa che produrre e riprodurre indirettamente il nesso tra nazionalità straniera e delinquenza. In Belgio, ad esempio, molte famiglie provenienti dall’immigrazione si ritrovano oggi con dei figli che non non possono acquisire la cittadinanza a causa dei loro precedenti penali: una situazione paradossale che fa sì che, nel momento in cui tutti i membri di una famiglia ottengono la cittadinanza belga, il membro “delinquente” (cioè quello che è già stato in carcere) rimanga giuridicamente uno straniero. Una tale forma di prevenzione, basata sul dubbio concetto di “pericolosità” sociale, è la stessa che – tra il XIX e il XX secolo, durante il passaggio dalla formula liberale alla formula nazionale e sociale – ha favorito la promulgazione di inaudite leggi repressive che permettevano di incarcerare, ante delictum, i vagabondi e di mettere sotto sorveglianza un’intera classe sociale (considerata “pericolosa” o degenerata), col “nobile” pretesto di “difendere la società” [10]. In maniera omologa, a cavallo tra il XX e il XXI, nel momento storico di passaggio dalla formula sociale a quella neo-liberale, molte nuove leggi stanno comparendo per permettere agli stati di sorvegliare, rinchiudere o allontanare gli emigranti in nome della necessità di difendere la società europea [11].
Il trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio del 1992, non istituisce semplicemente la cittadinanza europea; all’articolo K.I del capitolo VI esso definisce anche i pericoli che minacciano l’Europa e i suoi nemici [12]. La politica migratoria dell’Unione ricade infatti inevitabilmente su tutta una serie questioni di interesse comune quali: 1) le condizioni di entrata e di circolazione degli abitanti di paesi terzi; 2) le condizioni del loro soggiorno, della loro possibilità di ricongiungersi alla famiglia, e la loro opportunità di trovare un impiego; 3) la lotta contro l’immigrazione irregolare e contro il soggiorno o lavoro a scopi illegali negli Stati membri; 4) una cooperazione in vista della lotta e della prevenzione al terrorismo, al traffico di droga o armi e ad altre gravi forme di criminalità internazionale.
Ispirandosi a queste direttive il Belgio ha, ad esempio, emendato numerose volte la legge del 15 dicembre 1980 sul soggiorno, il trasferimento, l’allontanamento e l’accesso degli stranieri: nel 1995 e nel 2005 sono stati emendati gli articoli relativi alla tratta e al traffico di esseri umani [13]; nel 1999 e nel 2005 le disposizioni relative alle organizzazioni criminali [14]; nel 2007 e nel 2013 le disposizioni sul matrimonio di convenienza (o forzato) e sulla coabitazione legale di convenienza (o forzata) [15]. Tutti questi provvedimenti hanno comportato – secondo l’articolo 23/1 sulla decadenza del diritto di cittadinanza, inserito nel 2012 nel Codice di cittadinanza belga – l’istituzione di numerose nuove infrazioni che prevedono come pena la perdita della cittadinanza europea. Una pena che, lungi dal prevenire l’illegalità, tende piuttosto a favorirla.
Il “grand renfermement” degli stranieri è davvero capace di “sifonare” tutti gli individui “ridondanti”? Nonostante tutte le misure ulteriori che si sono aggiunte negli ultimi anni alla prigione (allontanamento, trasferimento, decadenza dalla cittadinanza europea), parrebbe proprio di no. Ma riesce almeno, questo nuovo “grand renfermement” degli stranieri, a dissuaderli dall’emigrare? Niente affatto.
Secondo David Nelson e Thomas Stubbs [16], il modello neoliberale di sviluppo economico mette in concorrenza paesi in cui il sistema di produzione capitalistico si trova a gradi profondamente differenti del proprio sviluppo. Questo scarto produce strutturalmente sia la disoccupazione nei paesi di più antica industrializzazione, sia la proletarizzazione di quelli in via di sviluppo. La “brutale tettonica della colonizzazione neo-liberale” [17] ha mandato sulla strada dell’esilio milioni di uomini, donne e bambini che fuggono dai loro paesi pur sapendo che il rischio di morire prima di arrivare in Europa è elevatissimo [18]. Immaginare che il rischio della pena possa dissuaderli dall’emigrare non è che il sintomo, nel migliore dei casi, di una grossolana ingenuità.
La restrizione della libera circolazione dei lavoratori è capace di fermare l’inarrestabile flusso migratorio? No. Riesce almeno a canalizzarlo? In maniera del tutto particolare. La chiusura del principale canale di accesso ai nostri paesi ha generato infatti un sovrainvestimento dei canali rimasti aperti: quelli illegali. Per fare un’analogia storica si potrebbe pensare al meccanismo poco virtuoso innescato dal proibizionismo americano: nel momento in cui dei beni o dei servizi sono proibiti, pur continuando ad essere fortemente richiesti, si ha come contro-effetto l’emergenza di nuovi mercati e organizzazioni criminali specializzati nell’offerta dei beni che sono proibiti. Allo stesso modo, una volta proibito l’accesso “normale” ai nostri paesi, molte persone vi accedono attraverso forme e metodi illegali.
La restrizione della libertà di circolazione dei lavoratori ha infatti inficiato e deviato il funzionamento di istituzioni importanti come l’asilo, il matrimonio, la coabitazione legale o l’adozione, contribuendo così, paradossalmente, a produrre una parte dei pericoli che, dal 1992, i governi degli Stati partecipanti della nascente Unione Europea si erano proposti di eliminare (con la ratifica del trattato costituente dell’Unione Europea in materia di cooperazione e di affari interni).
Un volta preso atto che 1) la prigione è “totalmente incapace di ridurre i crimini” [19], 2) che l’attuale forma di lotta contro la sovrappopolazione carceraria è impotente nel ridurre il numero dei detenuti, 3) che la reclusione degli stranieri è incapace di ridurre il numero dei disoccupati, e 4) che l’immigrazione un atto criminale non serve a ridurre il numero dei migranti; non sarebbe forse giunto il momento di provare a sostituire, a queste convinzioni che hanno condotto solo a fallimenti completi, delle ipotesi capaci di fare del tempo e del corpo di queste persone qualcosa di diverso da puri tempo e forza-lavoro (e della loro vita qualcosa d’altro che una “nuda vita” [20])? Non si potrebbe pensare a delle leggi volte a ridefinire le condizioni di attribuzione e di acquisizione della cittadinanza europea (estendendola magari a tutti coloro che già vivono stabilmente e legalmente in Europa)? Non sarebbe il caso di cominciare a mostrare che “l’operazione politica che dissocia gli illegalismi e ne isola la sola delinquenza” [21] contribuisce a produrre un’idea di società che è radicalmente separata dalla reale composizione della popolazione? Non si potrebbe sostituire alla divisione del demos tra un popolo soggetto della legge e un popolo oggetto della legge, la più equa distinzione tra un popolo che è nella legge e un popolo che ne è fuori? Non si potrebbe sostituire alla stratificazione per nazionalità del mercato del lavoro, una stratificazione basata sulla legalità (o sull’illegalità), in modo tale che i due nuovi risultanti mercati del lavoro divengano ben distinti e classificabili?
Bisogna cambiare il dispositivo per cambiare mentalità
Nel 1976 il criminologo svedese Sellin ha mostrato, nel suo celebre libro Slavery and the Penal System, come l’abolizione della schiavitù nel sud degli Stati Uniti abbia generato indirettamente un utilizzo spregiudicato del sistema penale volto a rimpiazzare gli schiavi di colore (liberati dopo la Guerra di Secessione Americana) con i detenuti condannati ai lavori forzati (perpetrando così larvatamente la stessa forma di economia schiavista). La schiavizzazione dei carcerati, se possibile, si presentava allora come una forma ancora più spaventosa e assassina della precedente: era infatti sufficiente muovere un ingranaggio della macchina penale per assicurarsi la riproduzione della forza-lavoro (non appena questa moriva a causa del lavoro forzato) [22]. Ma se per Sellin la funzione assegnata al sistema penale americano di metà Ottocento era quella di assicurare, all’occorrenza, la perennità del modo di produzione schiavista; la funzione assegnata oggi al nostro sistema penale è quella di assicurare il modo di produzione capitalista operando le necessarie riconfigurazioni della popolazione connesse alla trasformazione della formula di governo “sociale” in quella neo-liberale.
Agli “emigranti” – la cui condizione di partenza è quella di una scelta tra venire o contravvenire – la società capitalista sostituisce degli individui intrinsecamente “illegali” o “delinquenti” che, letteralmente, non possono «venire» (nel nostro continente) senza “contravvenire” (a qualche legge).
Vorrei notare, in conclusione, che sia le retoriche “umaniste”, sia quelle “gestionali” sulla sovrappopolazione carceraria hanno purtroppo lo stesso valore strategico di quelle “punitive”. Ciò che mi preme segnalare in conclusione è piuttosto l’incredibile e inquietante efficacia della sintesi ideologica operata attraverso la criminalizzazione degli immigrati e il “grand renfermement” degli stranieri.
Essa ha un efficacia a monte: come una profezia autorealizzantesi, la “criminalizzazione” degli immigrati induce gli agenti di polizia a indirizzare un’attenzione “particolare” verso tutti quei giovani uomini il cui aspetto fisico denota una probabile origine straniera. E un efficacia a valle: i precedenti penali obbligano molto spesso le persone che escono dal carcere all’esercizio illegale di un attività legale o direttamente all’illegalità, aumentando così la criminalità invece di combatterla.
Immaginando Foucault che radicalizza il teorema di Thomas [23], potremmo concludere sforzandoci di tenere sempre a mente che le “sintesi politiche della verità” non sono altro che “la costituzione del necessario nel campo dell’esperienza”. Il nostro compito politico potrebbe essere allora quello di insistere sulla invisibile performatività di queste sintesi politiche (e veritative), sulle loro praticissime e ben reali performances; dovremmo riuscire a guardarle in faccia queste idee, con coraggio, sentire come esse governano la nostra apprensione delle situazioni ben prima di essere reali nelle loro conseguenze. Dovremmo sforzarci, infine, di mostrare fino a che punto le “idee” (come quella di etnicità del criminale o di delinquenza) abbiano un’esistenza materiale, mostrare come queste sintesi – prima di divenire “cause” – non siano altro che effetti delle reali pratiche sociali che le costituiscono. Dobbiamo denudarle, per guardare alla loro carne reale: agli apparati, ai rituali, alle pratiche e ai più banali atti in cui esse esistono materialmente: questo è ciò che si tratterebbe di provare a trasformare. Bisogna cambiare il dispositivo per cambiare mentalità, non viceversa (anche questo ci ha insegnato Karl Marx).
NOTE
[1] Foucault M., Surveiller et punir, Gallimard, Paris 1975, p. 29
[2] Chr. Adamson, Toward a Marxian penology. Captive criminal populations as economic threats and resources, “Social Problems”, vol. 31, n° 4, 1984, pp. 435-458 ; M. J. Lynch, «The extraction of surplus value, crime and punishment. A preliminary examination», Contemporary Crises, vol. 12, n° 4, 1988, pp. 329-344.
[3] I. Jankovic, Labor market and imprisonment, “Crime and Social Justice”, n° 8, 1977, pp. 17-31 ; R. Quinney, Class State and Crime, New York, David McKay and co, 1977.
[4] T. G. Chiricos, M. A. Delone, Labor Surplus and Punishment: A Review and Assessment of Theory and Evidence.
[5] S. Spitzer, Toward a Marxian theory of deviance.
[6] Il numero di belgi di origine marocchina è passato da 151.265 nel 1991 a 279.694 nel 2010. Mentre il numero di cittadini marocchini presenti in Belgio è passato da 142.098 nel 1991 a 81.943 nel 2010. Il numero di detenuti marocchini è passato da 740 (popolazione di fine anno) nel 1991 a 1.132 (popolazione giornaliera media). L’aumento del tasso di detenzione dei marocchini si spiega quindi con l’aumento dei detenuti marocchini e con la loro minore presenza effettiva sul territorio belga.
[7] Per quanto riguarda i marocchini: al primo gennaio 2013 essi rappresentano il 28,5% degli stranieri non europei presenti in Belgio. Come effetto delle nuove norme sul “diritto alla cittadinanza”, il loro numero è diminuito (dal 1992, anno del suo massimo storico) del 47%, ed è diminuito nonostante il continuo flusso migratorio (cf. S. Vause, T. Eggerickx, Migrations et populations issues de l’immigration en Belgique, LLN/Bruxelles, UCL/Demo/CECLR, 2013, pp. 103 et 140 (http://www.diversite.be/sites/default/files/documents/publication/rapport_statistique_et_demographique.pdf, consultato il 25 aprile 2014).
[8] Alhtusser L., Idéologie et appareils idéologiques d’Etat. Notes pour une recherche, “La Pensée”, n° 151,1970 ; Montag W., The soul is the prison of the body: Althusser and Foucault, 1970-1975, Yale french studies, n. 88, 1995.
[9] Il riferimento a Freud è qui, precisa Montag, “in sintonia con Spinoza e Althusser”.
[10] Tulkens F., Digneffe F., La notion de dangerosité dans la politique criminelle en Europe occidentale, in Debuyst C. (dir.), Dangerosité et justice pénale. Ambiguïté d’une pratique, Genève, Médecine et Hygiène, pp. 191-207 ; Tulkens F. (dir.), Généalogie de la défense sociale en Belgique (1880-1914). Actes du séminaire de recherche dirigé par Michel Foucault à l’Université catholique de Louvain, Bruxelles, Story-Scientia, 1988.
[11] Su questo punto, cf. Enriquez E., Tolérance à l’altérité et problèmes de la démocratie dans la construction de la CE, in Mappa S. (dir.), Les Deux sources de l’exclusion. Économisme et replis identitaires, Paris, Karthala, 1993, pp. 59-83 ; secondo questo autore, «la base dell’unità europea rimane l’omologazione attraverso il denaro e attraverso la guerra».
[12] Su questo punto, cfr. Brion F., Les menaces d’une forteresse. Citoyenneté, crime et discrimination dans la construction de l’Union européenne.
[13] La legge del 13 aprile 1995 ha introdotto nelle legge del 15 dicembre 1980 (che regolava l’accesso al territorio e l’allontanamento degli stranieri) un articolo 77 bis sulla tratta e il traffico di esseri umani. La legge del 10 agosto 2005 – modificando ulteriormente alcune dispozioni della legge precedente, allo scopo di rinforzare la lotta contro la tratta e il traffico di esseri umani – ha trasposto nel codice penale belga il piano-quadro del Consiglio dell’Unione del 28 novembre 2002, relativo alla lotta contro la tratta di esseri umani; questo piano, che mirava a rinforzare il quadro penale riguardante “l’aiuto all’entrata, al transito e al soggiorno irregolari”, ha completamente stravolto il dispositivo. La decsione dell’Unione Europea ha avuto infatti come conseguenza un terzo e nuovo capitolo, relativo alla tratta, che è andato ad emendare ulteriormente la legge del 15 dicembre 1980, ridefinendo la tratta di esseri umani come “il fatto di contribuire, in qualunque modo ciò avvenga, sia direttamente sia tramite intermediario, all’entrata il transito o il soggiorno di un cittadino non appartenente ad uno degli Stati membri dell’Unione […] violando così la legislazione di uno degli Stati membri allo scopo di trarne, direttamente o indirettamente, un vantaggio patrimoniale”. E’ evidente come una tale definizione abbia condotto rapidamente ad omologare molti «matrimoni di convenienza» al reato di «tratta di esseri umani» (cfr. CECLR, La traite et le trafic des êtres humains. Rapport annuel 2010, Bruxelles, CECLR, pp. 78-79).
[14] Cfr. le disposizioni inserite nel codice penale belga attraverso la legge sulle organizzazioni criminali del 10 gennaio 1999 e la legge del 10 agosto 2005 sulla tratta di esseri umani; tra le nuove disposizioni inserite, in particolare nell’articolo 324 ter, si dispone che una persona – che scientemente e volontariamente fa parte di un’organizzazione criminale – può essere punita con una pena da uno a tre anni di carcere anche se non ha l’intenzione di commettere alcun crimine nel quadro di questa organizzazione, e persino se non intende associarvisi regolarmente.
[15] Cfr. la legge del 2 giugno 2013 che ha modificato la legge del 31 dicembre del 1851 del Codice civile sui consolati e la giurisdizione consolare e la, legge del 15 dicembre 1980 sul soggiorno e l’allontanamento dei cittadini stranieri, allo scopo di combattere i matrimoni (e le co-abitazioni) di convenienza (Moniteur belge, 23 septembre 2013, p. 67119).
[16] Neilson D., Stubbs T., Relative surplus population and uneven development in the neoliberal era. Theory and empirical application.
[17] Davis, M., Planet of Slums. Urban Involution and the Informal Proletariat, “New Left Review”, n° 26, 2004, p. 23. Secondo David Neilson e Thomas Stubbs, il capitalismo ha generalizzato la competizione tra imprese, Stati e forza-lavoro, mettendo così in concorrenza tra loro stati che attraverso fasi differenti del loro sviluppo economico capitalistico, una concorrenza che non fa che accentuare ancora di più le disuguaglianze. Il rapporto tra il surplus relativo della popolazione e l’« esercito dei lavoratori attivi» varia in funzione del livello di sviluppo, condizionando a sua volta il numero di individui «soprannumerari » che esercitano un lavoro precario.
[18] Laacher S., Éléments pour une sociologie de l’exil, “Politix. Revue des sciences sociales du politique”, n° 69, mars 2005, pp. 101-128.
[19] Foucault M., Surveiller et punir, op. cit.,, p. 282.
[20] Agamben G., Homo sacer. Le pouvoir souverain et la vie nue, Paris, Seuil, 2008.
[21] Idem.
[22] Sellin J. T., Slavery and the Penal System, (in particolare i capitoli “The Convict Lease System” e “Chain Gangs and Prison Farms”; per quanto riguarda lo statuto delle pene e degli schiavi prima dell’abolizione della schiavitù e della Guerra di secessione invece il capitolo “The Antebellum South”; Cfr anche Brion F., Sociologie de la pénalité. Nella Carolaina del Sud, durante l’ultimo quarto del secolo XIX secolo, la durata media della sopravvivenza degli individui schiavizzati nelle colonie penali non superava i due anni.
[23] Il “teorema di Thomas”, formulato nel 1928, prevede che “se gli uomini definiscono delle situazioni come reali, queste divengono reali nelle loro conseguenze” (if men define situations as real, they are real in their consequences) Thomas W. I., Thomas D. S., The Child in America: Behavior Problems and Programs, New York, Knopf, 1928, p. 572).
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