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Fannulloni e start-up: un contributo al dibattito

A partire dal contributo su Start-upper e black bloc, pubblicato su queste pagine all’indomani della brutta puntata di “Piazza Pulita” che contrapponeva forzosamente i looser che vanno alle manifestazioni agli intraprendenti che (si) auto-impresizzano, il sito Commonware ha aperto uno spazio di dibattito sulle sue pagine (vedi qui).  

Riprendiamo qui il contributo di SIMONA DE SIMONI e rimandiamo alla pagina di Commonware per gli altri contributi.

“Quindi, guardate bene… no, carine, bisogna che lo facciate… guardate da vicino. Vediamo che cosa resta”

Z. Smith, Denti Bianchi

La dicotomia “sconfitti” e “intraprendenti” si presenta come l’ultimo approdo retorico, l’ultimo dispositivo discorsivo, con cui si è cercato di squalificare la soggettività ricca, variegata e conflittuale che si è riunita ed espressa a Roma nella manifestazione dello scorso 19 ottobre. Gli sconfitti, infatti, sarebbero tutti coloro che non sanno rimboccarsi le maniche e “inventarsi un lavoro”, come spesso ci si sente dire. Sarebbero persone in difetto di volontà e creatività. Gli intraprendenti, al contrario, sarebbero inarrestabili inventori del proprio futuro e, per questo, destinati al successo.

In tal modo, si mobilita un vecchio e consolidato dispositivo di soggettivazione capitalistica: lo schema già individuato da Max Weber in cui il piano etico e quello della razionalità economica transitano l’uno nell’altro senza alcuna mediazione. All’interno di questo paradigma, la vita buona si definisce come vita messa a valore nei termini della valorizzazione capitalistica. D’altro canto, il carattere apodittico e tautologico dello schema – che determina un intero orizzonte di valori – è già perfettamente riconosciuto dallo stesso Weber quando riconosce nella dottrina calvinista della predestinazione la realizzazione perfetta del primo “spirito del capitalismo”. Qui, il successo – sempre etico, professionale ed economico al contempo – si configura come un dono concesso in sorte per natura, coltivato e perseguito tramite virtù personali e sempre riconfermato in un processo circolare.

La rivisitazione pop e secolarizzata della credenza altro non è che la leggenda del/della self made man/woman, del “farsi da soli/e” secondo cui il lavoro, la ricchezza e addirittura la felicità altro non sarebbero che il compenso per l’esercizio impeccabile di virtù individuali, agite e messe a valore in modo isolato. Ma, e qui sta uno dei punti su cui il dispositivo comincia a scricchiolare, il godimento degli eventuali frutti di tanta virtù e impegno, si profila come un miraggio tutt’al più compensato da qualche palliativo isolato da fruire in modo solitario. Su questo punto, non si tratta di agitare moralismi più o meno reazionari su forme di vita anche cinicamente conformi e conformate, ma soltanto di riflettere sulla forza con cui un immaginario mobilita ed è mobilitato da energie e potenzialità soggettive. Sotto i colpi dell’austerity, l’attrattiva calvinista sembra definitivamente fiaccata.

Vediamo bene e da vicino, vediamo cosa resta. Guardare da vicino non significa svelare con un colpo di bacchetta magica cosa sta dietro l’immagine fittizia. Non significa – per quanto sempre necessario e importante – elencare tutte le buone ragioni per cui lo schema del self made è falso, ma significa individuare uno spazio di agibilità soggettiva e collettiva nel solco di un immaginario con il quale, comunque sia, bisogna fare i conti. Non esistono né volontà né coerenza individuali tali da poter sfuggire alle maglie delle contraddizioni in cui ci si trova immersi. Eppure, in termini collettivi si possono inaugurare e praticare tante contro-narrazioni, come si è fatto a Roma il 19 ottobre o in tante altre micro-relazioni e micro-situazioni che proliferano di continuo e ovunque. Non senza ironia, l’immagine del contagio assume fattezze del tutto positive e auspicabili.

A distanza ravvicinata, da una prospettiva che non intende svelare alcunché, ma tutt’al più provare a registrare delle turbolenze, si possono distinguere nitidamente almeno due piani su cui va scomponendosi la promessa (che poi è soprattutto ingiunzione normativa) della produttività-creatività-felicità e, con essa, la separazione secca tra intraprendenti/falliti (e, a cascata, un’intera famiglia di opposizioni semantiche).

(I) La falsità della promessa.

Argomentare a favore della falsità della logica su cui regge il dispositivo del self made non è difficile. Basta fare un elenco: condizioni di nascita, luogo di nascita, colore, genere, condizioni di salute, capacità, energie, interessi, fortune e sfortune della vita, formazione, ambizioni, desideri, debolezze, manie, carattere, stato d’animo, umore, capacità fisiche, disciplina, … Potenzialmente gli elenchi sono infiniti, numerosi quanto gli esseri che chiamiamo umani. Chiunque, infatti, può fare lo sforzo di pensarsi come incarnato e situato e capire facilmente che l’espressione “farsi da sé”, ancor prima che essere vera o falsa, semplicemente non significa nulla. Se mai, costituisce un tentativo maldestro di ordinare qualcosa in modo vago, astratto e disincarnato. A ben vedere, infatti, non c’è nulla nelle vite concrete delle persone che si dispieghi in modo continuo e lineare nei termini del progetto. Nemmeno le cose più soggettivamente connotate, come praticare uno sport o innamorarsi. E figuriamoci il resto, figuriamoci quando si chiamano in causa gli altri e la realtà. Ovviamente, si potrebbe argomentare in modo più sofisticato e convincente, ma qui basti assumere che la massima che dovrebbe regolare le nostre vite può essere smentita semplicemente riconoscendo che quel che facciamo risulta iscritto entro una maglia complessa di condizioni e relazioni. Non servono né argomentazioni geniali, né confutazioni da premi Nobel. E, men che meno, argomentazioni di taglio morale. Basta partire da sé. É povero il mondo che ha bisogno di eroi.

(II) Indesiderabilità della promessa

Il contenuto dell’ingiunzione-promessa auto-imprenditoriale non è desiderabile. Cosa dovrebbero essere (o cosa sono secondo un’approssimazione sempre più grottesca), infatti, le vite self made così tristemente e virtualmente rincuorate a pacche sulle spalle dall’autorità di turno? Sempre più, prende forma l’immagine diffusa di esistenze spese alla rincorsa di un riconoscimento – che raramente va al di là del piano simbolico o formale – iscritto dentro rapporti verticali e vissuto in solitudine. Vite che trovano forse un po’ di calore in qualche affetto amicale o in una relazione amorosa. Sempre che anche questi ultimi non siano stati sacrificati alla propria infelice intraprendenza o in una di quelle fughe del cervello in cui il corpo resta davvero sospeso in qualche limbo. É questo il contenuto della promessa, a guardarla da vicino. Questo è il patto a cui, molto semplicemente, si cerca di sottrarsi. Fallire – nella società del debito – vuole pur sempre dire smettere di pagare. E allora, fallire non vuol dire nulla più che smettere di pagare troppo caro per la distorsione a cui approdano anche i propri desideri e le proprie aspettative più preziose. È evidente che stia circolando, almeno sul piano dell’immaginario, una dismissione virale di atteggiamenti mimetici e che questo contagio rappresenti già una destituzione – quand’anche faticosa e spesso sofferta – di modelli soggettivi insostenibili e indesiderabili.

Si è detto spesso che il debito è il dispositivo centrale del capitalismo contemporaneo. Forse, a volte, però si riflette poco su quanti e quali beni sia richiesto di ipotecare per capitalizzare al meglio le proprie risorse. Il tempo, gli spazi di vita, il piacere, gli affetti, i legami, le responsabilità verso altri/e, persino i ricordi o i fantasmi e così via. Nell’assunzione collettiva del fallimento (come strategia opposta, vitale e partecipata, rispetto all’accettazione passiva e isolata dell’austerity) proliferano soggetti indisponibili all’indebitamento sistematico e diffuso: viene progressivamente meno la disponibilità a pagare troppo e a pagare tutto! Grazie alla capacità di negoziare le proprie identità e la propria felicità all’interno di relazioni incarnate e micro-politiche anziché di gerarchie astratte o di meccanismi impersonali del riconoscimento, la stessa dicotomia successo-fallimento tende a saltare.

_________________

(*) Nb: Le immagini che illustrano l’articolo sono tratte dal corto di animazione sovietico ‘ANTOSHKA’ (1969)

 

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