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I paesi emergenti non sono più la soluzione

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A metà luglio l’Economist riportava una battuta su come in Cina si fosse passati da un mercato azionario che per la sua robustezza assomigliava a un toro (bull market) a uno che costituiva una trappola per orsi (bear market). In effetti fino a poco tempo fa le intemperie finanziarie cinesi venivano considerate passeggere dagli operatori, come acquazzoni di stagione a cui sarebbe seguito il bel tempo. Tali convinzioni si basavano su una crescita dell’Impero Celeste che, pur in via di ridimensionamento, si attestava su un robusto 7% annuo, e soprattutto su un ruolo della finanza con ancora una quota da paese emergente rispetto al Pil. Nell’ultimo decennio, infatti, il valore del Pil è cresciuto di sei volte, mentre quello della Borsa di due, e la capitalizzazione della Borsa sul Pil è pari al 40%, cioè a meno della metà di molti paesi occidentali. In questi mesi l’instabilità greca ha assorbito pienamente l’attenzione europea. Ora che tale fattore appare risolto, il crollo della borsa di Shanghai di due giorni fa (-8.5%, il peggiore dal 2007, dopo una serie negativa iniziata da mesi) appare per quello che è: una potenziale crisi della Cina, indice delle difficoltà dei paesi di cui essa è capofila. Le cause di tale affanno sono, come spesso accade, molteplici, ma tutte riconducibili da un lato alla mancata crescita globale, specie nei paesi occidentali, dall’altro alla conseguente contrazione della capacità di vendita dei paesi che hanno fondato la propria economia sull’export. Le scelte della Fed, poi, non sono ininfluenti. Dalla seconda metà del 2014 la banca centrale americana ha abolito il quantitative easing e entro la fine dell’anno è previsto l’aumento del tasso d’interesse, insomma ha contribuito a creare le condizioni per una ritirata degli investimenti di paesi emergenti che avevano goduto delle politiche monetarie espansive. Ciò ha determinato un deprezzamento delle loro monete e fenomeni di fuga di capitali e di rifugio nel dollaro. A tutto ciò va aggiunto che la contrazione della crescita cinese ha significato una riduzione della domanda delle materie prime e quindi del loro prezzo, con pesanti ricadute su paesi esportatori come il Brasile (è notizia di questi giorni la previsione del segno negativo per l’economia carioca per il 2015).

L’aspetto più strabiliante però è costituito da come i processi di globalizzazione abbiano modificato i ritmi di sviluppo, facendo bruciare le tappe per i paesi emergenti rispetto a quelli più sviluppati. La Cina, fabbrica del mondo, ha visto il debito delle proprie aziende passare dal 98% del Pil nel 2008 al 160% nel 2014. Questo indebitamento spesso non giunge da canali bancari, è stato incentivato attraverso sconti fiscali e ha dato vita a veri e propri fenomeni di finanza creativa. Esistono così imprese manufatturiere che valgono in borsa 10 o 20 volte il loro fatturato e il loro patrimonio. Una leva finanziaria estrema dilaga proprio nel cuore dell’economia reale e fa temere per l’esplosione di una bolla. Si è, inoltre, affermato un surplus nel settore delle costruzioni con un crescente invenduto. Insomma fenomeni di finanza difficilmente separabili dall’economia coniugati con processi tradizionali di sovraproduzione. L’Economist ironizza sull’incapacità della nomenclatura cinese a gestire i mercati e si augura ulteriori e più profonde aperture, ma non possono sfuggire le strutturali similitudini che esistono nell’economia globale. Il debito è diventato l’infrastruttura dell’economia contemporanea a tutte le latitudini. Non sono scontati gli esiti di tale parabola, non è detto che esploderanno bolle con un contagio a livello internazionale, ma perlomeno possiamo riconoscere che in questa fase i paesi emergenti non fanno più parte della soluzione dei mali che affliggono l’economia mondiale.

 

29 luglio 2015


* L’articolo è stato pubblicato sull’edizione odierna del quotidiano Il Manifesto con il titolo ‘Cina e globalizzazione: il debito, infrastrutture delle economie contemporanee’

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