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Il business penitenziario. Processi di privatizzazione e valorizzazione capitalistica

Il recente Decreto Legge 24 gennaio 2012 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività) varato dal Governo Monti, nasconde un dispositivo di cui pochi si sono accorti. Si tratta dell’Art. 43 – Project financing per la realizzazione di infrastrutture carcerarie –  con il quale si introduce in Italia la privatizzazione delle carceri prendendo a pretesto l’attuale inumano sovraffollamento che affligge il nostro circuito penitenziario. Quindi, secondo la nefasta ideologia ultraliberista che anima i nostri “tecnici”, e con la complicità dell’intero arco parlamentare, non viene ritenuto economicamente vantaggioso decrementare in modo radicale il numero abnorme di detenuti abrogando le leggi che l’hanno provocato, ma piuttosto sfruttare lo status quo trasformandolo in un’occasione di estrazione di profitto da parte delle imprese private.
Vediamo come.
L’idea sarebbe quella di mettere insieme soldi pubblici e capitali privati attraverso un consorzio di imprese che si accorpano in un unico soggetto. Questa società mista dovrebbe garantire la realizzazione di nuovi penitenziari dalla progettazione alla costruzione, oltre a gestirne i servizi annessi come lavanderie, mense, aree di parcheggio, manutenzione degli impianti termici ed elettrici e il personale interno come quello amministrativo, educatori, psicologi e operatori sanitari. Rimarrebbe escluso quello addetto alla custodia che le vigenti leggi assegnano esclusivamente al Corpo di Polizia Penitenziaria e ai suoi Gruppi Operativi Mobili (i Gom, quelli che abbiamo meglio conosciuto nella carneficina del G8 a Genova, dai pestaggi indiscriminati alle torture nella caserma di Bolzaneto). Allo Stato non spetterebbe altro che erogare al soggetto pubblico-privato costruttore e gestore un canone basato sul numero di “ospiti” che, spalmato nel tempo, dovrebbe coprire i costi di costruzione, gestione e rischi d’impresa.
Una prima e immediata osservazione ci pare la seguente: anche in Italia, come in buona parte dell’occidente capitalistico, il processo di privatizzazione delle carceri introduce un cambiamento di paradigma nella gestione dei contenitori deputati all’incapacitazione del lavoro vivo in eccedenza e del conflitto. I detenuti passeranno quindi dallo stato di corpi a perdere gettati nella fornace del circuito carcerario a quello di merce in via di valorizzazione. Non sfugge, infatti, che l’estrazione del profitto d’impresa sarà basata sulla percentuale che la stessa riuscirà a dedurre dai costi di gestione della merce-detenuto alla quale lo Stato avrà assegnato un prezzo (canone corrisposto per detenuto privatizzato). E come le leggi del modo capitalistico di produzione ci insegnano, tanto l’impresa riuscirà a risparmiare sui costi di gestione, tanto più incrementerà l’accumulo di profitto. Possiamo perciò prevedere con largo anticipo in quali condizioni la merce-detenuto verrà stivata e tenuta in vita. Possiamo inoltre aggiungere un altro importante elemento che nel Decreto Monti non è menzionato perciò non escluso: come nelle carceri privatizzate americane e inglesi la merce-detenuto è sottoposta al lavoro coatto. Ciò significa che il soggetto gestore potrà assegnare appalti a quelle imprese esterne che si renderanno disponibili a far entrare in carcere prodotti grezzi da trasformare. In questo caso la merce-detenuto viene valorizzata due volte: la prima per essere detenuto privatizzato in quanto tale, la seconda come forza lavoro a basso prezzo con potere contrattuale pari a zero. In tutta evidenza stiamo parlando quindi di lavoro schiavistico nell’accezione più classica del termine.
Possiamo quindi concludere che queste autentiche fabbriche del dolore, della vendetta sociale, del rancore razzista e della cinica rappresaglia sui più deboli, viste così “tecnicamente” appaiono come un ottimo business; pur tralasciando un altro indotto di circolazione di denaro generato dall’organica corruzione all’italiana in tema di assegnazione di appalti pubblici, clientele, interessi economici di quei loschi comitati d’affari che qualcuno si ostina ancora a chiamare immotivatamente Partiti, e quant’altro. Altro dato da tenere presente, a proposito di delinquenti, quelli veri, è che le potenti lobby dei costruttori sono ben rappresentate in Parlamento a mezzo dei propri manutengoli a libro paga. Quindi in tema di privatizzazione carceraria esse avranno tutto l’interesse a premere su quei loro stipendiati perché siano promulgate leggi sempre più carcerogene e introdotti corposi inasprimenti delle pene edittali secondo un’esigenza più che evidente: «Più numerosi saranno i detenuti nelle mie carceri, più tempo vi rimarranno, più accumulerò profitto». Molto semplice.
Ma, come si dice, non è tutto oro quel che luccica.
Vediamo più o meno sommariamente come funziona il business carcerario negli Usa, una delle prime nazioni ad averlo adottato. Approssimativamente negli ultimi trent’anni, a causa di leggi che hanno criminalizzato spietatamente quelle che sono percepite come “classi pericolose”, l’America si è trovata a pagare un prezzo enorme in termini sia sociali che economici per assicurare percezione di sicurezza ai cittadini appartenenti alle “classi virtuose”. In un periodo quindi relativamente breve il tasso di carcerazione è triplicato arrivando a 731 detenuti ogni 100mila abitanti, in assoluto uno dei più alti al mondo, corrispondente a circa l’1% dell’intera popolazione. Il dato fa riferimento a ogni tipologia delle misure restrittive: dietro le sbarre, arresti domiciliari, braccialetto elettronico e libertà vigilata. Un boom carcerario senza precedenti che si è trasformato in una ghiotta occasione di business per l’industria dei penitenziari privati. Un esempio ci viene offerto dalla Corrections Corporation of America, un’impresa quotata a Wall Street che gestisce 66 penitenziari la quale, recentemente, ha offerto qualcosa come 250milioni di dollari per acquistare altre carceri che diversi Stati avevano messo in dismissione. Sarebbe stato un affare davvero gigantesco se inaspettatamente qualcosa non fosse andato storto: dai dettagliati rapporti di alcune importanti authority di controllo risultava che il business carcerario non era poi così vantaggioso per gli Stati che l’avevano accettato, e anzi in alcuni casi, conti alla mano, il passivo pubblico era evidente. Il risultato è che Florida, Michigan, Louisiana, e Arizona, prima tra i più pervicaci sostenitori della privatizzazione carceraria, ora ci hanno ripensato decretandone il blocco.
Quest’ultima pur breve disamina per arrivare dove? Facile: ad affermare senza timore di smentite che il Governo delle oligarchie finanziarie criminali internazionali guidato da Mario Monti si propone di importare un modello fallito, per altro proprio laddove e stato inventato.
Quel che rimane è l’immagine più riprovevole di un Paese, l’Italia, ritenuta terreno ancora fertile per una nuova accumulazione originaria del Capitale. Un Paese dove il carcere come fabbrica del terrore, della tortura e dell’insensata violenza brucia vite umane inservibili a un mercato del lavoro sempre più disumano al quale non è rimasto altro che raschiare il barile. Affermiamo quindi che il “pianeta carcere”, in quanto organico al rapporto di produzione, deve essere inserito a giusta ragione nella nostra agenda del conflitto esattamente come ogni altro luogo della produzione materiale o cognitiva che sia. E non si può attendere oltre: un morto ogni 2 giorni per malattie non curate, 1 ogni 4 per suicidio, in un totale di 2000 negli ultimi 10 anni non sono un trascurabile dettaglio.

 

da: Uninomade 2.0

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