Il caso Bio-on, it’s (green) capitalism baby!
È bio, green, giovane, globale, made in Italy e piace alle borse. Parole e retorica che ci si aspetta da ogni startup di successo degna di questo nome. Bio-on non fa eccezione.
“Bologna, dagli scarti delle patate nasce la plastica biodegradabile“, “Azienda bolognese crea una tecnologia per pulire il mare“, “Bio-On, semestre di corsa per le plastiche amiche dell’ambiente“, “Bio-on, polimero per filtri sigarette riduce sostanze nocive. Titolo festeggia risultato“. Solo alcuni dei titoli che hanno accompagnato negli anni il successo dell’azienda bolognese. Ma le bolle a volte scoppiano, specialmente quando dentro non hanno neanche l’aria.
A Luglio la Quintessential Capital Management pubblica un report tagliente in cui smonta il castello di carte su cui è costruita l’azienda. Scoprendo che la quasi totalità delle entrate provenivano dalla vendita di licenze ad aziende controllate (in pratica a se stessa). Insomma nessuna produzione, nessuna rivoluzione green, solo un gioco di specchi.
Immediate le reazioni: il titolo crolla in borsa, viene sospeso, partono querele ed esposti in tutte le direzioni, ma il destino della spa sembra segnato. Giornali, agenzie e la stessa borsa di Milano si affrettano a smarcarsi dalla situazioni difendendo le aziende “buone”. “Non c’è un problema sull’Aim [mercato di quotazione per piccole e medie imprese]. Possiamo migliorare i regolamenti all’infinito, ma se si vuole un mercato con regole più semplici per favorire la quotazione in Borsa delle Pmi bisogna accettare una componente maggiore di rischio. I mercati di questo tipo hanno ormai la stessa filosofia in tutta Europa e gli investitori lo sanno. Per questo prendono contromisure: maggiore cautela, maggiore analisia“ [1]. Queste le parole di Raffaele Jerusalmi, amministratore delegato di Borsa Italiana, sintetizzabili in “c’era da aspettarselo!”.
Infatti dopo lo scoppio del caso alcuni incominciano a grattare alla porta della borsa di Milano per chiedere spiegazioni, regolamenti, controllori e interviste. Spuntano i nomi delle aziende “Nomad” (Nominated advisor) ovvero quelle chiamate dalla borsa a certificare lo stato di salute delle imprese quotate. Un caso di esternalizzazione e privatizzazione del lavoro che dovrebbe fare la Consob. Ma queste non sono tenute a vigilare realmente sulle aziende che assistono, si limitano a certificarne la bontà nel momento in cui fanno il loro ingresso nella borsa e poi sono “a loro disposizione”, ovvero a disposizione dei loro benefattori, infatti chi paga i Nomad non è, come ci si potrebbe aspettare, la borsa o la Consob, ma direttamente l’azienda che ha bisogno della revisione. Ma chi potrebbe vedere un conflitto di interessi in questo meccanismo non ha nulla da temere, dato che il Nomad, come ci spiega nuovamente l’ad di Borsa Milano “non può detenere una partecipazione superiore al 10% nel capitale delle società che assiste. Il fatto che sia pagato per svolgere un’attività, tra l’altro molto complessa, non costituisce un vero conflitto di interessi“. Tutto a posto, non c’è niente da temere.
Il caso Bio-on ci parla della relazione evidente tra un rilancio della finanziarizzazione e la presunta conversione del capitalismo verde, ma non solo. Infatti a far emergere la vicenda di questa vera e propria truffa è un fondo speculativo con base negli Stati Uniti. Questo fondo, come molti altri, svolge attività di dossieraggio delle aziende alla ricerca di incongruità nel bilancio o nei piani industriali per poi pubblicare le inchieste, naturalmente dopo aver scommesso “contro” sul mercato nei confronti dell’azienda nel mirino. E’ un meccanismo sempre più di successo nei mercati internazionali, con la capacità di avere un ruolo, per quanto ancora marginale, anche nei conflitti geopolitici. Questi “spazzini necrofagi” della finanza si sono moltiplicati dallo scoppio della crisi globale e vengono da alcuni considerati come un sistema di autocontrollo della finanza con tro truffe e bolle speculative.
Il giornalismo italiano si è diviso tra chi ha incensato il Quintessential per aver fatto emergere la vicenda (ed aver fatto un bel gruzzoletto) e chi invece difende a spada tratta il made in Italy anche di fronte all’evidenza. Di questa storia, però, a pagare sono soprattutto i lavoratori e magari alcuni piccoli risparmiatori che hanno pensato che scommettere sul green oggi fosse un buon investimento.
La Bio-on è dunque paradigmatica perché dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, che il rilancio del capitalismo attraverso la green economy è ricco delle contraddizioni del ciclo precedente, probabilmente insostenibile e, soprattutto, non è detto che riesca o sia sufficiente per uscire dalla crisi. E’ evidente che una base reale estremamente ridotta, una finanziarizzazione inevitabilmente galoppante, una prateria per avventurieri di ogni tipo (si guardi anche solo il caso ex-Embraco Ventures a Torino) promettono bolle speculative ancor prima che la ristrutturazione (se mai ci sarà) si possa in qualche grado consolidare. Dunque il conflitto tra “sovranisti degli idrocarburi” e “apologeti del Green New Deal” non può essere il campo di un ambientalismo che realmente si pone il problema di come mutare il rapporto tra uomo e natura e tra gli stessi umani. In fondo “it’s capitalism baby!”
[1]: https://www.ilsole24ore.com/art/non-c-e-caso-aim-italia-regole-solo-mini-lifting-ACqRWev
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