
Il caso Moro e il paradigma di Andy Warhol /2a puntata

  Proprio mentre le agenzie annunciano  che il prossimo 9 marzo 2015 verrà ascoltato per la prima volta davanti  ad una commissione parlamentare d’inchiesta don Mennini (sembra che papa  Bergoglio lo abbia autorizzato), l’attuale nunzio apostolico a Londra  che fu confessore di Moro e soprattutto durante il sequestro terminale  (sfuggito ai controlli della polizia) di alcune lettere e messaggi del  leader democristiano, indirizzati in particolare al Vaticano e al suo  entourage più stretto, prosegue il nostro ciclo di interventi con la  pubblicazione della seconda puntata (leggi qui la prima e la terza)  dedicata ai lavori della nuova commissione d’inchiesta parlamentare sul  rapimento e l’uccisione del presidente della Democrazia cristiana Aldo  Moro.
 In realtà don Antonio Mennini ammise già nel gennaio 1979, di fronte  alla magistratura, di aver ricevuto nel corso dei 55 giorni del  rapimento su segnalazione del sedicente prof. Nicolai, alias Valerio  Morucci, comunicazioni telefoniche e scritti che aveva prelevato e  consegnato alla famiglia Moro  
Paolo Persichetti
 Il Garantista 1 marzo 2015
Sulla spinta di novità che si annunciavano clamorose, subito riprese  con grande risonanza dai media che hanno dato vita ad una lunga campagna  puntuata da rivelazioni sensazionali e pubblicistica dietrologica, lo  scorso maggio 2014 è stata istituita la terza commissione d’inchiesta  parlamentare sul rapimento Moro. Tuttavia prim’ancora che iniziassero i  lavori la magistratura inquirente si è incaricata di fare pulizia su  alcuni tentativi di intossicazione della realtà storica.
 Ad anticipare la nuova stagione dei misteri era stato, nel 2011, un libro di Miguel Gotor, Il memoriale delle Repubblica (Einaudi).  Un volume corposo e ripetitivo in alcune sue parti, ma che ha  rappresentato un sicuro salto di qualità nella narrazione complottistica  della vicenda Moro. Senza dubbio di ben altro spessore rispetto al  lavoro di Aldo Giannuli, Il Noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro (Marco  Tropea), uscito lo stesso anno. Storico non contemporaneista, Gotor ha  provato a cimentatosi in una intricato racconto che combinando approccio  filologico e dietrologia ha finito per dare vita ad un romanzato  tentativo di riabilitazione postuma del leader democristiano, separato  dalle sue lettere ritenute il frutto di una titanica lotta con i suoi  coercitori-censori.
 Successivamente, nella primavera del 2013, è arrivato nelle librerie il  volume di Ferdinando Imposimato, giudice istruttore nella prima  inchiesta Moro. Un testo a sensazione dal titolo: I 55 giorni che cambiarono l’Italia. Perché Moro doveva morire (Newton  Compton), divenuto presto un successo editoriale con oltre 95 mila  copie vendute. L’ex giudice in pensione riapriva la questione di via  Montalcini, la base brigatista dove Moro fu rinchiuso nei 55 giorni del  sequestro. Vittima di un grossolano raggiro, l’ex magistrato aveva dato  credito ad uno strano personaggio, tale Giovanni Ladu, ex ufficiale  della Guardia di finanza che per dare maggiore credibilità alle proprie  “rivelazioni” aveva inventato l’esistenza di un secondo testimone,  contattando il vecchio giudice con un nickname di fantasia intestato a  tale Oscar Puddu, ex ufficiale di Gladio, mai esistito ovviamente.
 Ladu, alias Puddu, sosteneva che i servizi sapessero dell’abitazione  dove Moro era trattenuto e che addirittura avessero occupato  l’appartamento sovrastante per controllarlo meglio, decidendo alla fine  di non salvarlo su ordine dell’allora presidente del consiglio Andreotti  e del ministro dell’Interno Cossiga. Sonore panzane, ma di grande  effetto mediatico perché la storia, messa in questi termini, sembrava  quasi una versione antelitteram della vulgata che in quei giorni  dominava le polemiche sulla trattativa Stato-Mafia. Moro vi appariva  come una specie di protomartire che anticipava il destino poi toccato  alla coppia Falcone-Borsellino; tutti e tre fatti morire da politici  cinici e bari, in combutta con poteri occulti, apparati opachi non  meglio precisati e servizi delle grandi potenze che avevano delegato il  lavoro sporco ai brigatisti, rappresentati come dei semplici convinti di  fare la guerra a quel re di Prussia che invece li manovrava a loro  insaputa. L’iperbole cospirazionista di Imposimato e poi giunta a  chiamare in causa una nuova sinarchia universale guidata dal gruppo  Bilderberg, tesi che l’ha reso una delle icone più amate dai fans delle  scie chimiche.
 Ma questa volta la favola non ha avuto il suo dulcis in fundo e  Giovanni Ladu è finito indagato per calunnia, mentre l’ex giudice senza  batter ciglio ha continuato a vendere nelle librerie il suo libro, mai  corretto, e presentarlo in giro per l’Italia, persino nelle scuole, fino  a diventare il candidato grillino alla presidenza della repubblica.
 Sulla scia del successo editoriale del libro di Imposimato, nel giugno  successivo, anche Vitantonio Raso, uno dei due artificieri che  intervennero in via Caetani sulla Renault 4 nella quale le Brigate rosse  fecero ritrovare il corpo di Moro, cercò di conquistare la scena per  offrire un po’ di pubblicità alle sue memorie, La bomba umana (Seneca edizioni).
 Secondo Raso la versione ufficiale del ritrovamento del corpo di Moro  era falsa. La scoperta andava anticipata di alcune ore, molto prima  della telefonata di Morucci al professor Tritto. Cossiga sarebbe  arrivato sul luogo almeno due ore prima, per poi tornare una seconda  volta e recitare il ritrovamento ufficiale. Questo perché, ça va sans dire,  tutte le mosse delle Brigate rosse erano conosciute in anticipo. Anche  in questo caso un gigantesco depistaggio. Non c’è voluto molto alla  magistratura per scoprire che Raso mentiva. Nessuno dei numerosi  testimoni che quella mattina transitarono per via Caetani ha confermato  la sua versione e così anche lui è finito sotto indagine per calunnia.
 Non deve stupire, dunque, se la vicenda Moro appare sempre più come una  delle migliori conferme del paradigma di Andy Warhol: «un quarto d’ora  di celebrità non si nega a nessuno».
 Obbligata ad aprire l’ennesima inchiesta, la moro sexies, la  magistratura questa volta ha rotto le uova nel paniere della dietrologia  parlamentare mettendo in serio imbarazzo i fautori della nuova  commissione d’inchiesta. Uno dopo l’altro, infatti, i petali della  margherita dei misteri sono caduti e nelle mani di quei parlamentari che  del complottismo hanno fatto la loro impresa politica è rimasto solo un  misero gambo appassito. Continuare a sostenere la necessità della  commissione sembrava ormai un’impresa disperata fino a quando, nel marzo  del 2014, il circo Barnum dei misteri ha rilanciato le dichiarazioni di  un ex ispettore di polizia.
 Enrico Rossi, con un passato alla Digos di Torino, denunciava resistenze  nelle indagini su una lettera anonima nella quale si raccontava di due  agenti dei servizi presenti in via Fani, a cavallo di una moto Honda, al  momento del rapimento del dirigente democristiano. I due – sempre  secondo l’anonimo – alle dirette dipendenze di un colonnello del Sismi  avrebbero dato manforte al nucleo brigatista.
 Il clamore mediatico e le pressioni della politica (il Copasir convocò  una serie di audizioni) provocarono l’avocazione delle indagini da parte  della procura generale. L’episodio diede nuova linfa alle ragioni della  commissione fino alla doccia fredda della richiesta di archiviazione  dello scorso novembre 2014. All’origine delle sensazionali rivelazioni  ci sarebbe stato, secondo il procuratore generale Ciampoli, lo stesso  personaggio indicato nella lettera come uno dei due motociclisti. Il  racconto che vi era riportato era apparso subito ai più attenti un calco  della sceneggiatura di uno dei peggiori film girati sul rapimento Moro,  Piazza delle cinque lune di Renzo Martinelli, uscito nel 2003.
 Antonio Fissore, l’uomo chiamato in causa nella lettera, malato di  cancro come nella sceneggiatura del film, si sarebbe preso gioco di  tutti ridendo all’idea che dopo la sua morte sarebbe finito al centro  dell’attenzione generale. Insomma una grande burla degna della migliore  stagione della commedia all’italiana.
 Una tragicommedia recitata sullo sfondo di forti attriti tra l’ufficio  titolare della sesta inchiesta Moro, poco propenso a dare credito ad  operazioni goliardiche del genere, e l’entrata a gamba tesa di un  procuratore generale prossimo alla pensione ma che nella sua richiesta  di archiviazione, una rassegna della pubblicistica complottistica con  tanto di lunghi copia-incolla, ripresi in particolare dal testo di Gotor  sul memoriale Moro, riportava un episodio rivelatore delle origini di  questi scoop: a procurare il contatto tra l’ex poliziotto e Paolo  Cucchiarelli, che attraverso l’Ansa ha lanciato le presunte rivelazioni  di Raso e poi di Rossi, era stato «Alberto Bellocco di Domodossola,  rappresentante in Piemonte del Movimento politico che si stava  coagulando attorno a Maria Fida Moro la quale anch’ella lo aveva  sollecitato in tal senso».
 Sgonfiatosi anche il mistero della Honda, la decisione di fare ricorso a  nuove tecnologie d’indagine, come la scansione laser del luogo del  rapimento, nonostante i 36 anni di distanza, è stata per la commissione  una disperata scelta di ripiego, un modo per provare a dare ancora una  qualche briciola di senso ad una commissione senza senso.
2/continua
 
Le altre puntate
 1a puntata – Via Fani, le nuove frontiere della dietrologia 
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