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Il Medio Oriente in fiamme: guerra settaria o per l’egemonia?

L’interdipendenza globale oggi non è solo economica e finanziaria, ma è anche interdipendenza e reciprocità dell’elemento “guerra”. Al contrario delle due guerre mondiali,  questa Guerra si divide, moltiplica i fronti e gli scenari, e viene combattuta a colpi di diplomazia, di  kalashnikov e lancia-granate  ma anche di fondi sovrani e guerre valutarie. Sotto i colpi di questa guerra il mondo sembra cadere a pezzi, e il Medio Oriente si trova nuovamente al centro.

Pur essendo diversi i fronti caldi all’interno dello scenario globale – dal Venezuela all’Ucraina, passando per le metropoli occidentali -, da 60 anni a questa parte la zona più pervasa dall’elemento conflittuale è quella che si estende dal Marocco al suo estremo Ovest fino al Pakistan nel suo oriente più lontano. Il Medio Oriente, denominata così dall’ammiraglio Alfred Thayer Mahan nel 1902, che ne comprese per primo l’importanza strategica come via di transito centrale per garantirsi il potere marittimo, è di nuovo la zona calda per eccellenza del globo. È in quest’area che, per usare le parole di Papa Francesco, si gioca una parte importante della Terza Guerra mondiale, quella che non ha un focus preciso in una parte del globo, ma che si manifesta “dappertutto, a pezzi”.

 

DISINTEGRAZIONE DELLO STATO-NAZIONE

 

Il Medio Oriente moderno, quello basato sugli accordi Sykes-Picot del 1916, è in completa disintegrazione. Le scorribande odierne dei combattenti dello Stato Islamico tra Siria e Iraq hanno soltanto messo in luce la debolezza di questo ordine regionale, ma il disfacimento degli stati-nazione su basi etnico-settarie è in parte legata alla particolare storia dei processi di state-building.

Lo stato arabo non è infatti né il risultato di una prosecuzione di sistemi di potere e burocratici con tradizioni secolari, né é legato ad un determinato sviluppo della forma-capitalismo e della formazione di una classe borghese: non è insomma come lo stato-nazione moderno europeo. Al contrario esso è stato letteralmente imposto dalle potenze coloniali, Francia e Inghilterra in primis, che si sono spartite le loro zone d’influenza: Ayubi, nel suo mastodontico quanto intellettualmente immenso “Overstating the Arab State”, parlava infatti dello stato arabo come “imported commodity”.

Ayubi continuava sottolineando come artificialità e fragilità ne sono stati gli elementi caratterizzanti fin dall’inizio: è stata proprio la mancanza di una egemonia ideologico-culturale e l’incapacità di creare efficaci strumenti per la produzione del consenso intorno ai processi di state-building (quelli che Althusser chiamerebbe gli apparati ideologici dello stato) che ne ha determinato la debolezza. Debolezza che si riscontra anche (e qui entra in gioco un secondo elemento) nella presenza dell’irredentismo. Fenomeni di contestazione da parte di identità sovra e sub-statali e mancanza di lealtà e riconoscimento verso le agende statuali hanno infatti sempre caratterizzato lo stato in Medio Oriente.

Questo è stato in parte dovuto a quanto detto sopra (debolezza dello state-building) in parte dalla precaria congruenza tra identità e sovranità territoriale. Solamente tra gli anni ’70 e ’80 si sono manifestati processi di consolidamento statale che hanno in parte avvicinato il sistema medio-orientale ad un modello europeo. Ciò ha avuto effetto sia sul rafforzamento delle identità nazionali, che hanno messo da parte l’ideologia panaraba, sia sulle politiche estere degli stati, che hanno in parte abbracciato l’adesione ai principi realisti della ragion di stato e dell’interesse nazionale.

 

LA MANCANZA DI UN ORDINE WESTFALIANO IN MEDIO ORIENTE E LA BATTAGLIA PER L’EGEMONIA TRA IRAN E ARABIA SAUDITA

 

Ma il disordine odierno-ascesa del Califfato, settarismo, disintegrazione degli stati- riflette solo parzialmente le parole dell’ex segretario di stato Kissinger. Nel suo ultimo libro, “World Order”, Kissinger collega l’instabilità cronica e la pervasività dell’elemento conflittuale che allontanano il Medio Oriente da un sistema westfaliano al fatto che “gli stati e le fazioni presenti considerano l’ordine internazionale da un’ottica interna alla sensibilità islamica”.

Contrariamente a quanto afferma Kissinger, il considerare l’Islam come il prisma attraverso cui analizzare le relazioni internazionali dell’area (e dunque il livello di instabilità dell’area) è non soltanto intellettualmente disonesto ma anche funzionale a riprodurre un pensiero unico dominante.

L’identificante religioso è oggi tornato in auge dato l’esacerbarsi dello scontro tra sunniti-sciiti, ma queste divisioni confessionali sono da interpretare più come risultato di convergenze di potere intra-regionali ed internazionali che reali conflitti religiosi. La religione è infatti la continuazione della politica con altri mezzi, e noi europei ne sappiamo qualcosa, dato che il nostro continente è stato testimone di molti conflitti dipinti come religiosi che in realtà avevano ben poco a che vedere con essa.

L’uso politico del settarismo religioso in Medio Oriente non è elemento nuovo, ed è retro-datato: è a partire del 1979, anno della rivoluzione islamica in Iran, che lo scontro tutto interno all’Islam tra Sunna e Shia’a si è andato approfondendosi. Gilles Kepel ha scritto che il venire meno del nazionalismo arabo e la contemporanea rivoluzione in Iran “hanno determinato un conflitto per l’egemonia interna allo spazio di senso islamico, tra un Iran sciita e rivoluzionario, che si poneva come avanguardia dell’islamismo politico, e un’Arabia Saudita sunnita e guardiana dei luoghi santi della Mecca”. Ecco dunque come, nonostante la retorica religiosa e la volontà mainstream di far passare il tutto come qualcosa di essenziale nell’area, i conflitti oggi in MO nascondano la volontà molto materialistica di cambiare i rapporti di forza sul campo tra queste due potenze.

Molti analisti hanno accomunato la situazione odierna di pervasività del conflitto in Medio Oriente alla situazione dell’Europa della “Guerra dei 30 anni” (1618-1648): dipinto come un conflitto religioso (protestanti vs cattolici), la “Guerra dei 30 anni” è stata in realtà un confronto per l’egemonia tra gli stati europei. Infatti, se la guerra in Europa è iniziata con la defenestrazione di Praga (insubordinazione dei principi protestanti tedeschi in difesa della loro autonomia dall’Impero cattolico degli Asburgo), essa si trasformò ben presto in un conflitto tra le grandi potenze regionali: la Francia di Richelieu, potenza cattolica, in una tipica mossa realista si alleò con la protestante Svezia, per bilanciare la dinastia Aburgica di Spagna e Austria.

L’analogia sicuramente serve a illustrare come la realtà multi-sfaccetata del Medio Oriente sia invischiata nella complessità di conflitti che sono settari quanto geopolitici, dove entrano in gioco potenze regionali con l’intervento esterno delle grandi potenze internazionali (Russia e Stati Uniti su tutti), data l’alta valenza strategica dell’area nel risiko globale.

Oggi esistono più fronti di questa battaglia tra Iran e Arabia Saudita: Yemen, Siria, Iraq e Libano. Nel suo discorso davanti ai membri del Congresso, il neo-rieletto premier israeliano Netanyahu ha detto che la Repubblica Islamica controllerebbe 4 capitali arabe: Baghdad, Damasco, Beirut e Sana’a. C’è da essere certi che queste parole siano condivise da molti capi di stati arabi, in primis dal sovrano dell’Arabia Saudita. Ma sarebbe riduttivo affermare che le popolazioni degli stati sopra-citati siano procuratori di una o dell’altra potenza, così come sarebbe falso non sostenere che le stesse potenze in questione usino tutti i loro mezzi a disposizione per la loro corsa all’egemonia.

In Yemen lo scontro è tra gli Houthi, sciiti del ramo zaydita alleati dell’Iran, e il presidente deposto Hadi, sostenuto dal Consiglio di Cooperazione del Golfo con a capo i sauditi. In tutto ciò si inseriscono Al Qaeda e gruppuscoli salafiti che usano il brand ISIS per contendersi le wilayat dello Yemen. In Siria l’Iran sostiene il regime di Bachar Al Assad, e lo stesso intervento nel conflitto di Hezbollah, storico movimento sciita di resistenza libanese, sembra essere stato dettato dalle pressioni dei mullah iraniani, veri sponsor di Nasrallah e co.

Di contro l’Arabia Saudita (e buona parte del CCG, con Qatar e Emirati in testa), “utilizzano” sia il leading from behind di quei gruppi come Qaeda e ISIS che costituiscono il brodo di cultura dell’islamismo sunnita radicale sia il finanziamento diretto del Free Syrian Army. Anche in Iraq si gioca la partita a scacchi tra le due potenze regionali.

Qui ISIS e Al Qaeda hanno trovato terreno fertile dova attecchire, vuoi per le politiche dei governi sciiti che hanno emarginato i sunniti vuoi per la de-baathizzazione forzata dell’esercito di Saddam Hussein. Oggi Tehran è impegnata a fondo nell’offensiva volta a riprendere le città del Nord in mano ad ISIS. A dirigere le operazioni c’è direttamente il generale iraniano Qassem Soleimani, che continua a farsi fotografare sulla linea del fronte, oggi a Tikrit, domani forse a Mosul, la vera roccaforte di ISIS in Iraq. I sauditi invece hanno un celato interesse alla balcanizzazione del paese, sia per indebolire indirettamente l’arco sciita (Iran-Siria-Iraq-Hezbollah), neutralizzando l’interferenza iraniana, sia per tenere sotto controllo un grosso rivale petrolifero come Baghdad. Infine in Libano.

Il Paese dei Cedri ha un passato come stato cuscinetto, che le potenze arabe hanno usato come camera di compensazione per giocare i loro interessi. Questo ha portato il paese alla guerra civile tra il 1975 e il 1990, e oggi ha instillato una democrazia che fa del confessionalismo il suo modus operandi. Ma anche oggi il Libano sembra sempre di più sull’orlo del precipizio: da una parte Hezbollah e i suoi alleati (tra cui il movimento patriottico cristiano, che raccoglie quasi il 60% dei consensi) che hanno giustificato l’interventismo in Siria per la difesa delle comunità sciite al confine e contro l’infiltrazione delle forze qaediste, dall’altra la radicalizzazione della comunità sunnita e l’infiltrazione di elementi jihadisti ai confini con la Siria e nelle città di Tripoli e Arsal.

 

QUALE ORDINE FUTURO? TRA COOPERAZIONE E CONFRONTO

 

La guerra in Europa è finita grazie all’imposizione di un ordine accettato e legittimato da tutti gli attori del conflitto. Ordine che ha preso corpo con la firma della pace di Westfalia, dove gli stati hanno riconosciuto sia il principio di sovranità inteso come mantenimento dell’equilibrio di potenza sia la ragione di stato e la non ingerenza esterna come pre-condizione della politica estera degli stati.

Oggi un nuovo ordine potrebbe nascere, con l’avvicinarsi di un (probabile?) accordo sul nucleare tra il P5+1 e l’Iran. Un accordo che comporterebbe il re-inserimento di Tehran nella comunità internazionale, con il riconoscimento dell’antica Persia come potenza regionale legittima: gli Stati Uniti sembrano infatti scommettere (anche) su Tehran per stabilizzare il disordine medio-orientale, nonostante le pressioni degli alleati-di-sempre Arabia Saudita e Israele. Il gigante americano infatti considera vitale questo accordo anche nell’interesse dei sauditi e degli israeliani, dato che allontanerebbe la paura di una proliferazione nucleare nell’area, garantendo così il monopolio strategico di Israele stesso in campo atomico e la centralità saudita.

C’è grande speranza che un accordo del genere possa determinare la stabilità della regione, ma fintantoché i reali problemi dell’area non verranno messi all’ordine del giorno difficilmente se ne potrà scorgere l’inizio.

Qui entra in scena la reale posta in gioco di un nuovo ordine regionale stabile e duraturo: la fine delle interferenze straniere e della pervasiva dipendenza di molti stati regionali da un patron esterno, la fine dell’economia di rendita, la nascita di una reale cooperazione regionale e la risoluzione della questione sociale ed economica.

Ma il Medio Oriente odierno, lontano anni luce da un ordine regionalmente accettato da tutti, sembra rispondere più alle aspettative tipiche di un mondo realista – dove l’insicurezza sistemica e i calcoli di potenza determinano le politiche degli stati – piuttosto che a quelle di un ordine “costruito” sullo sviluppo di un’identità collettiva, dove l’identificazione tra il proprio interesse e quello dell’altro gli spinge a cercare la cooperazione.

da Nuova Società

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