Ilva, forme e prospettive di lotta. Intervista a Emiliano dei Cittadini e lavoratori liberi e pensanti
Ai tempi della crisi i territori sempre di più vedono meccanismi di espropriazione radicale della ricchezza sociale e della dignità della vita. A Taranto, nella cornice della lotta sulla vertenza Ilva, si è sviluppato un movimento capace come in Val Susa di superare la falsa retorica che vuole opposte salute e occupazione e di rilanciare la lotta anche ponendo il nodo del “chi decide?”. Abbiamo parlato un po’ delle prospettive della lotta e delle future iniziative (come quella del primo maggio) con Emiliano, militante del Comitato Cittadini e lavoratori liberi e pensanti.
Intorno alla questione Ilva si è sviluppato un movimento popolare che condivide alcune similitudini con l’esperienza No Tav, ci parli un po’ della composizione di questo movimento e di come si è evoluta nel tempo?
Dopodiché il movimento esplode completamente il 2 agosto, quando dimostra chiaramente di essere un movimento che non accetta la logica della rappresentanza perché entrare in piazza mentre la rappresentanza istituzionale e sindacale stava parlando, per dire che stava dicendo solo frottole e che non aveva mai difeso il lavoro ma solo l’operato della famiglia Riva, era una carta di identità abbastanza evidente e questo ha portato nella fase iniziale una trasversalità impressionante, qualcosa che avevamo visto prima solamente in Val di Susa e forse anche troppo da lontano. Dico forse troppo da lontano proprio per le pratiche organizzative che stiamo cercando di costruire, ovviamente con la fatica che meritano. Questa trasversalità ha portato in una fase iniziale a farci riconoscere la necessità che la gente aveva di decidere sul proprio futuro, perché tutto quello che si stava interpretando a Taranto, dall’ipotetica chiusura dell’Ilva alle varie inchieste che coinvolgevano anche i livelli istituzionali (non sono solo il Comune, la Provincia e la Regione, ma anche l’Arpa, l’ASL, i giornali, insomma tutto ciò che veniva manipolato dal sistema Ilva), stava iniziando a venire fuori.
Quindi in quei giorni la città mostrava in piazza tutta la sua dignità, ed effettivamente non è così ovvio che in una piazza si possa vedere la dignità di un’intera città, però l’abbiamo visto e abbiamo visto assemblee pubbliche in piazza da migliaia di persone, difficili ovviamente da gestire, come dicevo prima, rispetto ai limiti delle pratiche organizzative che abbiamo riscontrato. Questa gente fondamentalmente chiedeva di poter partecipare alle scelte sul futuro e alla gestione della città stessa, quindi si poneva un problema che superava completamente la questione Ilva, ma che iniziava a ragionare sul dopo-Ilva. Iniziava a ragionare sulla questione della vivibilità del territorio a partire dalle case dei quartieri fino ad arrivare a un livello più ampio di comunità cittadina vera e propria.
Questa trasversalità secondo noi è l’elemento più forte che abbiamo visto come esempio in Val di Susa e l’elemento più forte della nostra lotta attuale a Taranto. Ed è un patrimonio che non deve essere assolutamente perso, ma che deve essere arricchito e a cui bisogna costruire intorno quel contesto che gli permetta di vivere e prolificare e non soltanto sopravvivere, il che significa avere la capacità organizzativa di poter ascoltare quanta più gente possibile, costruendo all’interno di questa trasversalità un dialogo intercategoriale. Questa trasversalità, infatti, porta con sé categorie differenti che vanno dall’area dei militanti soliti ad anche una classe media che inizia a trovarsi dalla parte dei subalterni. Per cui una possibilità di una ricomposizione di classe vera e propria all’interno della subalternità che ha bisogno sicuramente di un dialogo intercategoriale per evitare che lo Stato riesca a farla evolvere unicamente come rivolta che muore dopo aver toccato il suo punto di apice.
Questa trasversalità verrà sicuramente amplificata grazie all’iniziativa del primo Maggio e quindi ci pone di fronte a problematiche non indifferenti nell’ambito della democrazia diretta e della sua costruzione. Quando parliamo di democrazia diretta, ovviamente, non intendiamo dire che il giudizio su una determinata pratica debba essere dato secondo un possibile sì o un possibile no, ma intendiamo la costruzione collettiva di una possibile pratica che porti alla trasformazione del territorio stesso, come succede in Val Susa. Questo in questo momento è il nostro primo interrogativo.
In sostanza sta andando a svilupparsi una lotta di potere contro il potere, da un lato il potere istituzionale e dall’altro un potere popolare in formazione che aspira a decidere sul proprio territorio. Come si è sviluppato e si sta sviluppando questo discorso?
Questo è un discorso che si sta affrontando e che ovviamente può avere diverse velocità e dev’essere in grado di essere condiviso dalla totalità dell’assemblea.
Di sicuro quello che in assemblea è condiviso e che geneticamente ci ha in qualche modo distinto è il rifiuto della delega e della rappresentanza, ovvero riconoscere che c’è una parte che è quella che mette le firme, che ha il potere di spostare i soldi, di realizzare progetti e che ce n’è un’altra che dice che il modo in cui realizzi i progetti, il modo in cui sposti i soldi non mi rispecchia per niente e in teoria visto che sono io che ti permetto di stare lì, in un certo senso, devo trovare il modo di farti capire cosa devi fare. Per noi l’esempio della Val di Susa è emblematico in questo senso, costruire una forza in piazza capace di modificare gli equilibri istituzionali, per cui indipendentemente da un sindaco amico o nemico c’è la capacità di esprimere mediante la base quello che la base vuole realizzare.
Dopodiché un giorno ci interrogheremo su come questo potere deve cambiare perché nessuno di noi, neanche dei più logorati dalla lotta dal basso, potrà mai pensare che la sua aspettativa di vita sia combattere per sempre, perché a nessuno piace, noi dobbiamo comunque limitare le nostre libertà personali per poter partecipare alla lotta e non pensiamo che la quotidianità della società futura possa essere questa, siamo convinti del fatto che è necessario in questo momento risvegliare l’interesse delle città che sono state colonizzate dalle scelte dall’alto affinché si riapproprino del proprio destino e poi capire tutti insieme come fare ad evitare di stare in piazza tutti i giorni e come si fa a costruire un organismo popolare che sia in grado di scegliere per se stesso in maniera autonoma, ma sia anche in grado di determinare sul territorio le trasformazioni che esso stesso ha scelto. Se significa cambiare sistema, capiremo come attrezzarci per farlo.
In Val di Susa abbiamo imparato che uno dei valori aggiunti del movimento No Tav è il fatto che i tempi di vita spesso coincidono coi tempi di lotta. Avete notato anche dentro il movimento che vivete questo passaggio?
Sicuramente è un pezzo fondamentale del movimento. In qualche modo è una maniera di reinventarsi la socialità attraverso diversi modi di ragionarsi l’esistente, quindi in realtà è un modo di fare controcultura, di cercare di trasformare le logiche del pensiero dominante rispetto al riuscire a confrontarsi su tematiche che ti riguardano da vicino attraverso la consapevolezza che è possibile trasformarle e non pensare di doverle delegare.
Bisogna entrare nel merito delle questioni e trasformarle, anche attraverso la socialità, anche perché il confronto intercategoriale non può essere una cosa che si espleta solo in assemblea: è una crescita costante e collettiva che si nutre delle diversità che si confrontano quotidianamente.
Quindi un modo diverso di vivere la socialità fa parte già del nuovo mondo possibile di cui parliamo e sicuramente è un pezzo importante che vedrà trasformazioni nel suo evolversi, ma che deve rimanere centrale. Se effettivamente la capacità autorganizzativa di trasformare il territorio paga, nel senso che la gente inizia a vivere un’altra socialità, un diverso modo di concepire il reddito stesso, a quel punto è tutta la comunità intera che si interrogherà su quello che è il modo migliore di vivere e su come organizzare questa vita. Però ovviamente le cose vanno costruite, passo per passo. Quello che in questo momento ci poniamo è il tentativo di realizzare le idee che vengono proposte in assemblea anche quando sembrano molto lontane dal praticabile, perché il capitalismo ci ha abituato a pensare che riuscire a trasformare qualcosa o avere obbiettivi molto ambiziosi è dannoso. A noi il primo Maggio sta dimostrando il contrario, riuscire a fare un’iniziativa come quella in cui sposti l’attenzione dal primo Maggio ufficiale e per la prima volta per la città di Taranto costruisci un evento che, non voglio esagerare, porterà moltissime persone, forse quante la città di Taranto non ne ha mai viste, e farlo completamente dal basso, senza sponsor, ma semplicemente mettendo in gioco il proprio essere, le proprie capacità, il proprio tempo e la propria disponibilità a continuare a partecipare, per noi può essere un esempio lampante della capacità di trasformare un territorio. Il luogo in cui faremo il primo Maggio è un parco archeologico di cui la città di Taranto si era dimenticata l’esistenza, quindi non solo la cittadinanza potrà vedere che il parco esiste e che può vivere, ma che può farlo in maniera autorganizzata, nascendo come esigenza dal basso di poter proporre qualcosa di diverso per la città, un piccolo esempio rispetto alla capacità che abbiamo di trasformare il concetto culturale di lavoro, il concetto di produrre reddito nel territorio, la capacità di riappropriarsi dei territori stessi. E’ un piccolo pezzo che per noi è fondamentale.
Quali sono le prospettive di lotta?
La prospettiva attuale è di trovarsi nel dopo Ilva, ma trovarsi nel dopo Ilva significa mettere le basi anche culturali per cercare di non trovarsi mai più nell’Ilva. Il che significa fare veri e propri percorsi di educazione popolare che però partano dalla gente e non da qualcuno che tende a distribuire saperi, percorsi che nascano dalla necessità di ognuno di condividere quanti più saperi possibili, capacità, le proprie conoscenze e le conoscenze degli altri. Sono passaggi molto complicati e non sappiamo come si svilupperà la possibile vertenza “Taranto dal basso”. Questa potrebbe essere una prospettiva, perché Taranto è una vertenza totale. Noi abbiamo preso esempio dal movimento No Tav e speriamo di riuscire a produrre quella consapevolezza, quella conflittualità che la valle ha espresso, e speriamo anche che queste esperienze continuino a moltiplicarsi sui territori.
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