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Intervista ad Arnaldo Otegi: ‘Non ci fermeremo fino a quando non otterremo, da sinistra, uno Stato per tutti i Baschi e tutte le Basche’


Diritto penale del nemico: la sentenza che ti condanna non adduce ciò che hai fatto, ma chi sei e cosa non hai fatto; in ogni caso, perché pensi di essere detenuto?

La condanna ha obbedito unicamente a considerazioni di natura politica, una sentenza che è stata elaborata in anticipo. Prima, si è stabilita la disposizione finale, vale a dire la condanna e, poi, si è tentato di argomentarla giuridicamente. Il nostro delitto più grave è stato proporre e ottenere che la violenza armata di ETA scomparisse definitivamente dall’equazione politica basca. In altre parole, il nostro delitto è consistito nello spostare lo scontro con lo Stato dal ring del pugilato alla scacchiera e, tenendo conto del fatto che diverse operazioni della Guardia Civil sono state denominate con termini ripresi dal gioco degli scacchi, è chiaro che lo Stato pretende di giocare a scacchi con i guantoni da boxe e questo è semplicemente impossibile.

Una campagna che vede adesioni internazionali del calibro di Angela Davis o Noam Chomsky esige la tua libertà, ma anche politici come Jesús Eguiguren. Perché lo Stato spagnolo insiste nel mantenerti prigioniero?

Mantenerci in carcere fino all’ultimo giorno ha un doppio significato per noi: da una parte, conferma la validità della scommessa che abbiamo promosso (Eguiguren è arrivato ad affermare che se noi avessimo puntato sulla continuità della lotta armata non saremmo in prigione, una riflessione, peraltro, dal mio punto di vista, rivelatrice) e, in secondo luogo, l’appoggio internazionale che ha raccolto la nostra causa permette di constatare il logoramento delle posizioni dello Stato in ampi settori internazionali, oltre a mettere sul tavolo l’esistenza di centinaia di prigionieri e prigioniere indipendentisti baschi e la conseguente necessità di offrire una soluzione a questa realtà.

 

In ‘Poemas de la prisión’, Sarrionandia (poeta e scrittore basco, N.d.T.) affronta la questione del panopticon e di come resistervi. Cosa ti mantiene a galla?

Alla fine di questa condanna, avrò trascorso in prigione praticamente quattordici anni della mia vita e credetemi se vi dico che nello Stato spagnolo esistono settori potentissimi che approfitteranno della minima scusa per tornare ad incarcerarmi e ad incarcerarci; quindi, insieme alla fermezza delle nostre convinzioni, dobbiamo sempre tenere presente la prudenza delle nostre azioni. In ogni caso, a mantenerci a galla sono le nostre famiglie e, per questo, le puniscono con la dispersione (politica carceraria consistente nel tenere i prigionieri in carceri lontane dai luoghi d’origine, N.d.T.), gli amici e le amiche, il nostro popolo e la solidarietà di decine di migliaia di persone nel mondo. Ma, soprattutto, a sostenere un prigioniero politico è la sua profonda convinzione di lottare per una causa giusta. Ghandi lo ha riassunto alla perfezione: “Sotto un governo ingiusto, ogni persona decente dovrebbe essere in carcere.

In quale regime di detenzione sei e com’è una giornata in carcere?

Il carcere ufficiale si riassume in tre parole: rumore, routine e arbitrio; ma esiste anche il carcere che ogni giorno costruiamo noi prigionieri e prigioniere, in questo caso politici. La nostra vita scorre tra libri di lettura o di studio, lo sport ed un costante dibattito politico. A Logroño, trascorriamo ufficialmente e secondo il regolamento quindici ore nelle nostre celle di dieci metri quadrati ma, nel nostro caso, sono di più perché abbiamo rinunciato volontariamente ad alcune ore d’aria per studiare o leggere.

Cosa ti manca di più?

Vi racconterò un aneddoto molto illustrativo. Tutti noi prigionieri che, a suo tempo, avevamo letto la trilogia di “Millennium”, siamo stati d’accordo nell’affermare che la descrizione del racconto che si sviluppa in una casa di campagna, durante una nevicata, dove il protagonista principale si prepara un caffè bollente, qualche toast e finisce col fumarsi una sigaretta, era per noi quanto di più simile al paradiso in terra. Fortunatamente, la maggior parte di noi ha eliminato le sigarette dal proprio paradiso. E ora, quando la libertà si avvicina, per molti, quel paradiso si riassume nella famiglia, nella montagna, nel mare, nella buona conversazione, nelle amicizie. Come secondo aneddoto curioso: desiderio immenso di guidare e di cucinare; per la verità non trovo alcuna ragione consistente per il desiderio di guidare, mentre quello di cucinare, come Basco, lo comprendo con grande naturalezza.

Qual’è stato il momento più duro degli anni che hai trascorso in carcere? E fuori?

In questi ultimi anni ho perso mia suocera ed alcuni amici ma, senza dubbio, i momenti più duri sono stati quelli dell’infarto del miocardio di mio padre, dal quale si è ripreso e, soprattutto, la morte di mia madre. L’ho detto nella lettera di commiato che le scrissi pubblicamente: quando mia madre aveva solo sei anni, conobbe suo fratello nella prigione di El Dueso, dove oggi è prigioniero il mio compagno Rafa Díez per la mia stessa causa. Ottanta anni dopo, mia madre è morta senza vedermi in libertà e senza vedere ciò che ha anelato tutta la vita: la libertà di tutti i prigionieri e tutte le prigioniere. Questo potrebbe essere un buon riassunto della storia democratica dello Stato spagnolo. Anche fuori dal carcere ci sono stati momenti dolorosi nell’ambito personale, come la morte di amici, compagni e compagne. In ambito politico, per me, oltre ai giorni successivi all’11 marzo 2004 (attentati alle ferrovie di Madrid, 193 morti e 1858 feriti per i quali fu accusata da tutti i partiti spagnoli l’organizzazione armata basca ETA; la versione imposta dal Governo del PP e accettata acriticamente da quasi tutte le forze politiche e dalle istituzioni internazionali fu mantenuta per diversi giorni, nonostante le smentite di ETA, fino a quando si accertò la paternità del terrorismo islamico, N.d.T.), è stata dolorosa ciascuna rottura dei processi negoziali con le conseguenti morti e frustrazioni, sofferenze e dolori in tutti i settori della società basca o spagnola.

Lo Stato ha sempre ripetuto che, in assenza di violenza, «tutto» era possibile. Ma di fronte al nuovo scenario basco ha risposto con l’immobilismo e da logiche repressive, a parte l’accettazione della legalizzazione di EH Bildu (coalizione elettorale della sinistra indipendentista basca, N.d.T.).

Quali ritieni che siano i substrati politici ed i condizionamenti che mantengono questa posizione?

Una prima precisazione: la legalizzazione di EH Bildu non fu affatto una concessione; semplicemente, il rapporto di forza che avevamo costruito con il cambiamento di strategia ha reso impossibile che lo Stato assumesse qualsiasi altra decisione. Detto questo, mi risulta che la messa fuori legge di Bildu facesse parte dell’agenda del PP; la dichiarazione di cessazione definitiva della lotta armata da parte di ETA ed i «suggerimenti» della comunità internazionale hanno sventato questi piani. Il substrato di questo atteggiamento è un qualcosa che lo Stato ha incorporato nel suo DNA politico e culturale; di fronte alla mancanza di cultura democratica, restano solo la minaccia e la forza, perfette per il ring di pugilato ma, negli scacchi, i guantoni non servono a nulla, se te li metti, la tua natura antidemocratica resta allo scoperto. Quindi, quell’affermazione secondo la quale «tutto è possibile senza violenza» si è rivelata per quello che era: una menzogna, un inganno.

Continuano le incarcerazioni per motivi politici, come quella di giovani Baschi per la loro appartenenza a Segi, la chiusura delle Herriko Tabernas (Case del Popolo, N.d.T.) e la dispersione penitenziaria. Perché il Governo spagnolo non muove alcuna pedina?

Il Governo, con tutte queste iniziative di carattere repressivo, tenta di rovesciare la scacchiera e ricreare, in maniera artificiale, il ring della boxe; ha bisogno di allargare al massimo l’ombra e la logica dello scenario precedente, perché crede di avere un’alternativa nella logica antiterrorista (il ring), mentre nello scenario attuale (gli scacchi) non ne ha. Per questo, quando ormai non si trova più davanti ad un pugile, lo crea artificialmente, arrestando, incarcerando e manipolando l’informazione. Semplicemente, perché non ha alternativa; per questo tenta di guadagnare tempo, perché ciò che teme, la prima delle sue preoccupazioni, è che Euskal Herria (Paese Basco, N.d.T.) inizi il percorso intrapreso dalla Catalogna.

Dal 1998, lo Stato spagnolo ha dispiegato un autentico laboratorio antiterrorista secondo il concetto «tutto è ETA». Che reddito ha ottenuto e ottiene ancora da questa strategia?

Quello era il contesto ideale per lo Stato; ha costruito una strategia globale che gli ha consentito di criminalizzare l’indipendentismo e di portare avanti il tentativo costante di ridurre il conflitto politico ad una mera questione antiterrorista. Inoltre, di fronte alla comunità internazionale, quella strategia gli garantiva importanti livelli di impunità rispetto all’escalation repressiva che portava avanti. E qual’era la ragione principale sulla quale si reggeva quella strategia repressiva globale? L’esistenza della violenza armata di ETA era il grande alibi. E cosa abbiamo fatto noi? Lo abbiamo lasciato senza alibi. C’è ancora qualche dubbio sulla vera ragione della nostra incarcerazione?

Quali prospettive di futuro e quali scenari possibili di sblocco intravede Arnaldo Otegi?

La prospettiva data dal tempo mi ha permesso di giungere alla seguente conclusione: per lo Stato, una soluzione concordata al conflitto, che riconosca l’identità nazionale di Euskal Herria o della Catalogna ed il loro diritto a decidere è, in termini strategici, inaccettabile quanto l’indipendenza delle nostre rispettive nazioni. Sono giunto al convincimento che dobbiamo occuparci di mettere in moto una dinamica che ci conduca alla creazione del nostro Stato, più che tentare di elaborare raffinate strategie per cercare di smuovere lo Stato dalle sue posizioni. Se le nostre strategie di liberazione passano necessariamente da accordi con lo Stato, non vi saranno accordi, né vi sarà liberazione. Questo significa che rifiutiamo qualsiasi tipo di accordo? Assolutamente no, significa che tracciamo la nostra road map indipendentemente dal fatto che vi siano accordi o no.

Nel tuo prologo alla recente biografia di Pepe Mujica, fai un richiamo all’etica rivoluzionaria ed alla sofferenza. Quali lezioni si possono trarre dal conflitto vissuto in Euskal Herria?

Secondo me, c’è un principio di etica rivoluzionaria al quale i rivoluzionari e le rivoluzionarie devono sempre ancorare la loro posizione: una rivoluzione deve sempre scegliere, ove ve ne sia la minima possibilità, la via che generi meno costi in termini umani, sia nelle proprie file, sia in quelle dell’avversario.

Tanti anni di conflitto, come hanno segnato politicamente, socialmente e culturalmente la società basca? Come si ricompongono i legami?

La vita sociale e politica del nostro popolo è stata attraversata dalla violenza e dallo scontro; non c’è una sola generazione del nostro Paese, negli ultimi due secoli, che non abbia conosciuto e sofferto la furia dello scontro armato. Non so se, rispetto a questa realtà sanguinosa, la società abbia generato una specie di anticorpi di autodifesa, che le abbiano consentito di costruire modelli di convivenza sociale non assolutamente fratturati, a parte in periodi molto particolari. Ora, la mia percezione è che la convivenza sociale ha raggiunto gradi di normalità importanti nel nostro popolo e si tratta di un risultato importante per il nostro futuro. Ma, ciò detto, quest’apparente normalità non deve far perdere di vista che sussistono ancora ferite molto gravi nel tessuto sociale di tutti i settori; la cicatrizzazione di queste ferite deve interrogarci tutti e tutte, incluso uno Stato impegnato nel mantenere la sua violenza strutturale fatta di arresti ed incarcerazioni.

L’ex generale della Guardia Civil Rodríguez Galindo ha scontato solo quattro anni di carcere di una condanna a settantacinque e i condannati dei GAL (gruppi paramilitari costituiti dallo Stato spagnolo per combattere l’indipendentismo basco, N.d.T.) hanno scontato in media il 10% delle pene. Cosa pensi, di fronte a questo, mentre tu sei in carcere da sei anni per avere sostenuto una scommessa politica di pace?

Mi sembra la prova evidente che le attività sviluppate dalle persone che hai citato non hanno mai avuto un carattere personale, al contrario, hanno fatto parte della strategia dello Stato. Tuttavia, loro ci considerano i loro nemici e fanno bene, perché non ci fermeremo fino a quando non otterremo, da sinistra, uno Stato per tutti i Baschi e tutte le Basche.

Il discorso ufficiale si riferisce ad una sola violenza…

I discorsi non sono neutrali, sono costruzioni ideologiche; il discorso sull’esistenza di un’unica violenza ha l’obbiettivo di delegittimarne una (in questo caso quella di ETA) e legittimarne un’altra, evidentemente quella dello Stato. Quindi, proseguendo in questo ragionamento, ciò che bisogna far passare è che non esiste alcun conflitto politico e che, pertanto, la lotta armata di ETA può essere ridotta ad un problema criminale o, al massimo, antiterrorista. In definitiva, non esisterebbe alcuna motivazione politica nel caso dei militanti di ETAS, nella loro organizzazione e, inoltre, l’uso della repressione sarebbe totalmente giustificato nella misura in cui , trattandosi di un problema di ordine pubblico, la risposta deve articolarsi in termini di repressione giudiziaria e poliziesca, non in termini politici e democratici.

Qual è la narrazione della sinistra indipendentista?

La narrazione è, in questo momento, una battaglia ideologica fondamentale per lo Stato e anche per i partiti della casta, spagnola o basca, che hanno sostenuto il regime del 1978; si vuole rivestire questa battaglia con un abito etico ma, secondo me, ha un obbiettivo politico chiarissimo: che la sinistra indipendentista basca riconosca pubblicamente, sottoposta ad un processo inquisitoriale, che tutta la sua traiettoria ed il suo percorso storico sono stati un grave errore, perché questo la inibirebbe quale alternativa di futuro agli occhi della stessa società del Paese Basco. Più che cercare una confessione della nostra colpevolezza, ciò che cercano è certificare la loro innocenza e la loro non responsabilità in molteplici e gravissime violazioni dei diritti umani: dalla guerra sporca alla tortura, passando per tutte le conculcazioni di diritti civili e politici che hanno commesso. E lo fanno ora, proprio nel momento e nel contesto storico nei quali la Catalogna e anche parte della sinistra spagnola riconoscono che la diagnosi più corretta sulla transizione (dalla dittatura franchista alla “democrazia”, N.d.T.) e sulla Costituzione del 1978 fu quella della sinistra indipendentista basca. Altra cosa, differente, è la strategia promossa dalla sinistra indipendentista basca, che mi sembra perfettamente discutibile. Per riassumere quale sarà la narrazione che sosterremo, mi rifarò ad Antonio Machado, quando diceva: «La verità è uno specchio spezzato che nessuno possiede interamente. La mia verità? No. La tua verità? Neppure. Uniamole e avremo entrambi una porzione più grande di verità». Noi, con questo spirito, sosteniamo una narrazione plurale, inclusiva e non escludente di nessuna di queste porzioni di verità. O, ancora meglio, sapendo che tutti i racconti sono di parte, ciò che sosteniamo è la pluralità di narrazioni, purché non neghino quelle altrui, vale a dire purché non abbiano un carattere escludente e totalitario o siano fatte con l’intenzione o l’obbiettivo di acuire ed approfondire il dolore dell’altra parte.

Recentemente, la parrocchia di San Carlos de Borromeo de Entrevías (Madrid) ha ospitato un incontro tra vittime di ETA e della violenza poliziesca o del terrorismo di Stato. È mancata empatia tra le parti?

Questo incontro avrebbe dovuto svolgersi al Congresso dei Deputati ed è stato sospeso dalla Presidenza del Congresso (PSOE y PP), un e pongono le basi per un futuro molto più promettente.

Hai mai incontrato una vittima di ETA?

Sì, alcune catalane e alcune basche. Ho già detto e lo ripeto che considero indispensabile parlare meno delle vittime e parlare di più con loro. Questo dialogo franco e onesto avrebbe dovuto iniziare con quei settori che stanno mostrando una disposizione molto generosa e costruttiva nella ricerca di orizzonti di accordo sulla memoria, sulla riparazione e sulla non ripetizione.

Memoria, riconoscimento, riparazione, non ripetizione. È possibile riparare ai danni causati?

Dobbiamo essere molto onesti nell’affrontare questioni sensibili come questa: non esiste riparazione sufficiente nel caso di coloro che hanno perso la vita durante il lunghissimo periodo di scontro armato. Ciò che si può fare, è riconoscere il danno causato ed evitare che torni ad accadere. Voglio aggiungere un’ultima riflessione: sulla nostra responsabilità in una parte del danno causato non c’è, né vi sarà in futuro, giudice più severo della nostra coscienza.

Cosa non ha funzionato nei processi negoziali del passato, quelli di Algeri, Lizarra – Garazi o della Svizzera?

Indipendentemente dagli errori che abbiamo commesso, alcuni dei quali pesanti, almeno nei due processi ai quali ho partecipato attivamente, la prospettiva data dal tempo mi ha permesso di arrivare a questa conclusione: per lo Stato, una soluzione concordata del conflitto, che riconosca l’identità nazionale di Euskal Herria o della Catalogna ed il loro diritto a decidere, è in termini strategici inaccettabile quanto l’indipendenza delle nostre nazioni. Per lo Stato, la perdita che comporta il riconoscimento di tale scenario intermedio, è solo il preludio di un’altra tragedia nazionale: la secessione di una parte di quello che considerano il loro territorio; per questo hanno bisogno del ring, perché con le regole democratiche la secessione catalana, basca o galiziana è solo questione di tempo e lo sanno.

Cosa pensi abbia differenziato il PSOE e Il PP nella gestione del conflitto?

Riallacciandomi alla risposta precedente, è evidente che nessuno dei due abbia mai avuto la volontà di giungere ad un accordo su regole del gioco democratiche e, se la avessero avuta, non avrebbero in nessun caso disposto di margini di manovra.

 

In termini di processo di pace, esiste un ambito negoziale in questo momento?

Non esiste, né esisterà. Lo Stato non ha alcun interesse a chiudere un ciclo, ma vuole mantenerlo aperto perché si gioca molto in questa scommessa. In Euskal Herrria non esiste un processo di pace, in quanto perché possa esistere è condizione imprescindibile che le due parti abbiano volontà ed interesse di svilupparlo.

Mandela disse che, per ottenere la pace, «dobbiamo diventare amici dei nostri nemici». Si sono fatti progressi su questo terreno?

Immaginatemi con un sorriso bello grande nel rispondere: nel il buon Nelson Mandela avesse avuto come nemici le élites spagnole, non avrebbe mai avuto alcuna speranza a questo proposito. Quindi, consentitemi di fare un’interpretazione libera e, allo stesso tempo, adeguata alla nostra realtà della frase: per ottenere la pace in Euskal Herria, dobbiamo ottenere che i nostri nemici diventino i nostri vicini, ciascuno nel proprio Stato.

I negoziati più duri, scriveva Gerry Adams, sono sempre quelli con i tuoi. Vi sono resistenze anche da parte di settori della sinistra indipendentista basca?

Senza dubbio, la lotta armata avrebbe potuto continuare con un appoggio minoritario e calante.

C’è un rischio parziale di ritorno ad espressioni di violenza politica?

Dal mio punto di vista non esiste un rischio reale di ricomparsa della lotta armata di ETA nel nostro Paese. Però, detto questo, ripeterò una cosa che affermo o suggerisco da qualche anno. Lo Stato continua ad accendere ceri alla Madonna ogni giorno affinché torni ad esserci uno scenario di scontro armato di bassa intensità; uno scenario al quale, senza dubbio, aspira. E, per il momento, mi fermo qui. Detto questo, farò un’altra considerazione: sono convinto che la cessazione definitiva della violenza decisa da ETA faccia parte delle ragioni principali che confermano che stiamo assistendo alla redazione del certificato di morte del regime del 1978 e al suo processo di degenerazione e decadenza. Per questo, coloro che non cercano il nostro contributo costruttivo allo scenario politico, ma la nostra resa politica e ideologica, in realtà cercano il ritorno allo scenario precedente. Alcuni lo fanno anche inconsciamente e senza malafede (alcune delle vittime), altri lo fanno in maniera interessata (dal mio punto di vista per interessi politici, come il Partito Nazionalista Basco) e altri ancora lo fanno in maniera pianificata e cosciente, come nel caso degli Stati.

Rajoy ritiene che sia ETA quella che maggiormente pregiudica il processo di reinserimento delle persone detenute.

Einstein una volta disse che la differenza fra il talento e la stupidità è che il talento ha dei limiti.

La questione dei prigionieri e delle prigioniere è sempre aperta. È possibile e desiderabile l’amnistia quando c’è tanto dolore?

Facciamo una considerazione preliminare: oggi più che mai noi prigioniere e prigionieri indipendentisti siamo ostaggi di uno Stato che, mediante la nostra strumentalizzazione, cerca fondamentalmente tre obbiettivi: vuole perpetuare lo scenario precedente (ETA con i suoi prigionieri), vuole generare frustrazione e disillusione nel nostro popolo (con il nostro mantenimento in carcere senza modificare la politica penitenziaria) e, infine, lo Stato ritiene che fino a quando non si risolverà questa questione e ci avrà nelle sue mani, Euskal Herria non inizierà un processo sovranista unilaterale. In questa situazione, noi indipendentisti dobbiamo fissare una posizione chiara: tutte e tutti i prigionieri indipendentisti baschi, tutte e tutti i rifugiati devono tornare in libertà, dobbiamo tornare alle nostre case e nel nostro Paese. Questo non può essere oggetto di mercanteggiamento politico, il che non significa che non parliamo di un processo graduale. La mia opinione è che la strategia destinata a soddisfare la questione della libertà dei prigionieri e delle prigioniere deve iniziare generando le condizioni che permettano di avviare un processo sovranista unilaterale. Si tratta di inviare un messaggio chiaro allo Stato: gli ostaggi non impediranno questo avvio. In secondo luogo e allacciandosi a questo processo di offensiva popolare sovranista, si devono rendere operativi gli accordi tra la comunità internazionale e gli agenti baschi per favorire la pressione popolare in favore della nostra libertà. Infine, mediante l’unilateralità, dobbiamo utilizzare la loro stessa legalità per indebolire la posizione dello Stato; per lo Stato non c’è male maggiore della dimostrazione che non rispetta la sua stessa legalità.

ETA dovrebbe annunciare la sua dissoluzione? Quando?

Non ho alcun dubbio circa la volontà di ETA di scomparire dallo scenario politico basco con il superamento delle conseguenze del conflitto. Detto questo, riguardiamo qual’è stato l’atteggiamento dello Stato sl riguardo: quando ETA ha compiuto un primo gesto di disarmo, hanno convocato i mediatori internazionali alla Audiencia Nacional (Tribunale Speciale, N.d.T.). alcune settimane fa hanno eseguito un’operazione poliziesca nella quale, secondo le loro stesse parole, hanno arrestato i responsabili del disarmo; quando abbiamo proposto il cambiamento di strategia ci hanno arrestati ed incarcerati. Credetemi, se vi dico che lo Stato non ha alcun interesse né nel disarmo, né nella fine di ETA e farà tutto il possibile per impedirli.

La sinistra indipendentista basca, per le sue radici e per la sua solidità, è stata un’esperienza singolare all’interno della sinistra europea. Come la definiresti?

La sinistra indipendentista basca è stata ed è un’arricchente esperienza di autorganizzazione popolare. Con i suoi successi e con i suoi errori, ha messo il nostro popolo in condizione di ottenere la piena libertà nazionale nel contesto di una società giusta ed egualitaria. Né più, né meno.

Al di là della cessazione della lotta armata e della scommessa sul processo di pace, da quando è scoppiata la crisi la politica di tagli ha soffocato le classi popolari e medie. Quale deve essere la risposta?

Per cominciare a costruire un’alternativa efficace al neoliberismo, abbiamo bisogno, innanzitutto, di non abbandonare mai il principio della realtà. Anche se non ci piace, dobbiamo riconoscere che, nella battaglia ideologica, subiamo decenni di svantaggio. È vero anche che l’attuale crisi colpisce in maniera crudele ampi strati della popolazione, che hanno sperimentato i loro livelli di indignazione ma non di radicalizzazione politica, perché credo sia esagerato pensare che questo abbia sedimentato una vera coscienza trasformatrice e anticapitalista, almeno per ora. In questo contesto, qual’è la speranza neoliberista? Che appena vi sarà una minima ripresa, che non sarà mai tale per gli strati popolari, le acque torneranno nei loro alvei. Ma noi sappiamo che, nonostante il discorso ufficiale, già si sono resi visibili i germi di una nuova crisi nell’economia mondiale. La nostra battaglia fondamentale deve essere combattuta sul piano delle idee; la risposta al capitalismo esige una nuova economia, una nuova etica e una nuova politica.

La sinistra indipendentista basca parla di indipendenza e di socialismo. Che tipo di progetto politico e di modello socioeconomico sostiene?

Negli anni Ottanta, Herri Batasuna indicò la necessità di una banca pubblica basca, definì l’Unione Europea come l’l’Europa dei Mercanti e sostenne la nazionalizzazione dei settori strategici dell’economia. Fummo definiti come veri e propri socialisti sorpassati; oggi è Jeremy Corbin che fa queste proposte, come segretario generale del Partito Laburista. Allora, cominciamo a sostenere il recupero di tutte le conquiste sociali ed economiche che, con il grande alibi della crisi, sono state ridotte in cenere. Difendiamo l’universalità e la gratuità di tutti i servizi pubblici essenziali, il reddito minimo per ogni essere umano, costruiamo un settore pubblico forte, trasparente e sotto controllo democratico, chiariamo che la proprietà privata deve svolgere una funzione sociale e deve essere subordinata all’interesse generale. E recuperiamo la politica con la P maiuscola affinché sottometta e controlli le forze del mercato e, contemporaneamente, faccia evolvere la democrazia rappresentativa verso la combinazione, con livelli sempre crescenti, di democrazia partecipativa e democrazia diretta.
Cosa significa, nel XXI° Secolo e nel Sud Europa, l’indipendenza? L’indipendenza come mezzo per…
Sosteniamo l’indipendenza per molte ragioni ma, tra quelle fondamentali, c’è l’idea del recupero della nostra sovranità politica ed economica, che è fondamentale per intraprendere la trasformazione politica ed economica necessaria per garantire il benessere della maggioranza del nostro popolo.

In cosa consiste la liberazione sociale, oggi?

Abbiamo bisogno di recuperare sovranità politiche ed economiche e metterle tutte in relazione tra loro mediante un’alleanza politica, economica, etica ed ecologica su scala mondiale. Un’agenda nazionale e globale per il cambiamento sociale deve necessariamente contenere i seguenti assi: la lotta per la sopravvivenza del genere umano e del pianeta affrontando il cambiamento climatico, la lotta per il disarmo nucleare e per la pace, la lotta per l’autodeterminazione dei popoli, la lotta per una distribuzione equa della ricchezza e la lotta per il superamento del modello patriarcale. Queste lotte sono necessariamente anticapitaliste e devono trovare e costruire uno spazio di coordinamento e incontro su scala planetaria, attraverso una nuova Internazionale dei Popoli.

La più radicale opzione politica sinora al governo, Syriza, è stata abbattuta dall’Eurogruppo. L’indipendenza passa per la sovranità politica ed economica?

Abbiamo bisogno di recuperare sovranità politiche ed economiche e metterle tutte in relazione, mediando un’alleanza su scala mondiale.
È possibile dentro l’Unione Europea della troika?
Nell’Unione Europea attuale non è possibile, semplicemente. E la domanda susseguente è: si può modificare o riformare questa struttura che è stata concepita come un autentico progetto di dominio delle élites oligarchiche con a capo i Tedeschi? L’esperienza greca rende evidente la risposta.

Come vedi la realtà geopolitica attuale? Dove stiamo andando?

Attualmente viviamo un contesto mondiale caratterizzato fondamentalmente dalla progressiva perdita di egemonia degli USA e dalla nascita di un nuovo e potente polo che è la Cina. Al contrario che in altri cicli storici, in questa occasione gli USA possono perdere la loro egemonia economica, però continuano a mantenere la loro egemonia militare e finanziaria, in un certo senso. Per questo, non dovremmo perdere di vista alcuni fatti molto preoccupanti che si stanno verificando in questo contesto; per esempio, il cambiamento della Costituzione in Giappone o il trasferimento delle priorità militari degli USA dal Mediterraneo al Pacifico. Questi dati sono altamente preoccupanti, perché potremmo assistere ad una terza guerra mondiale a tappe.

Quale dovrebbe essere il ruolo del sindacalismo, in questo momento?

Il sindacalismo, dal mio punto di vista, ha bisogno di avviare una profonda riflessione circa il suo ruolo ed il suo contributo alla costruzione di una nuova politica, di una nuova economia e di una nuova etica. La dinamica classica di richiesta di una distribuzione più equa della ricchezza è, senza dubbio, una necessità, ma non bisogna perdere di vista il fatto che il mito della crescita illimitata ed un consumo irresponsabile ci conducono sempre al disastro e ci condurranno al disastro finale se non vi poniamo rimedio con urgenza.

Autocritica e critica. Quali formule organizzative, di partecipazione popolare, per la sinistra, vorrebbe Arnaldo Otegi? Quale sinistra e per quale Euskal Herria?

A cosa serve proporre una nuova politica, una nuova economia o una nuova etica se costruiamo vecchie organizzazioni e vecchie forme di funzionamento? A cosa serve proporre nuovi/vecchi principi e valori se nella nostra vita quotidiana non trovano il necessario e coerente riflesso? Le nostre organizzazioni e la nostra vita militante e personale devono essere un riflesso fedele dell’alternativa che rappresentiamo e sosteniamo, perché non c’è cambiamento sociale che non inizi da noi stessi.

Lo Stato spagnolo permetterà che Arnaldo Otegi possa essere candidato a Lehendakari (Presidente della Comunità Autonoma Basca, N.d.T.)?

Se facessimo una lista dei problemi e delle priorità dell’indipendentismo basco, l’ultimo dei problemi e delle priorità sarebbe sapere se Arnaldo Otegi sarà candidato a Lehendakari o no. E vi assicuro che io ritengo che coloro che sono stati Lehendakari possono e devono sentirsi orgogliosi di esserlo stati, con una sfumatura diversa nel caso di Patxi López, che è stato eletto dopo la mutilazione di una parte importante dell’elettorato (López, del Partito Socialista, fu eletto nel 2009 grazie ad un accordo con il PP, dopo la messa fuori legge della sinistra indipendentista, che non poté presentarsi alle lezioni, N.d.T.). Vi assicuro che la mia massima soddisfazione, il mio massimo orgoglio, è sapere che sarei il candidato che suscita la maggiore ripulsa nello Stato, sapere che lo Stato adotterebbe tutte le misure per impedire una mia candidatura è un autentico onore per un indipendentista e mi sento sufficientemente ricompensato da questo onore.

Abbiamo motivi per «sorridere perché vinceremo», come dici sempre?

Ho sentito Artur Mas parlare della Rivoluzione dei Sorrisi e Pablo Iglesias citare Kortatu (gruppo punk-rock radicale basco, N.d.T.). il 27 settembre l’indipendentismo catalano avrà la maggioranza assoluta. Senza dubbio, abbiamo motivi per sorridere, perché lotteremo e vinceremo e, soprattutto, perché di tristi ci sono già loro.

Che vi siano state resistenze non solo è stata la norma, ma era persino desiderabile che ve ne fossero, perché questo ha fatto sì che il cambiamento avvenisse in maniera più solida.

La lotta armata di ETA avrebbe potuto continuare con un certo appoggio sociale?

«Non vi sarà alcuna riforma che riconosca il diritto a decidere»

Il regime del 1978 è in crisi e Euskal Herria già a suo tempo disse NO a quella transizione. Cosa pensi che farà il regime per riprodursi e chiudere la crisi attraverso e dal vertice? Esiste il rischio di una seconda transizione? Che ruolo gioca il Partito Nazionalista Basco in questo scenario?

Nel nostro Paese, storicamente, sia il Partito Nazionalista Basco, sia la sinistra indipendentista, in difersi modi e con contenuti differenti, hanno alimentato la possibilità di giungere a scenari democratici di riconoscimento della nostra identità nazionale e del nostro diritto a decidere mediante un accordo con lo Stato. Oggi il PNV, come Unió in Catalogna, continua ad insistere su questa possibilità, poiché ritiene che il processo catalano obbligherà lo Stato ad una riforma costituzionale che, «questa volta sì», riconoscerà i nostri diritti nazionali; credo che questo scenario, semplicemente, non esisterà, non ci sarà alcuna riforma che riconosca il carattere plurinazionale dello Stato ed il diritto a decidere delle nostre nazioni. Chi sostiene questa opzione vende fumo e, quanto prima ne saremo coscienti, tanto meglio.

La fine del bipartitismo o l’arrivo di nuovi attori emergenti, potrebbero modificare sostanzialmente questo scenario? Come valuti l’irruzione e la scommessa di Podemos?

Credo sinceramente che la fine del bipartitismo faccia parte più dei desideri che della realtà. Il bipartitismo uscirà indebolito dalle prossime elezioni spagnole, ma non nella misura che alcuni prevedono. A suo tempo ho definito l’irruzione di Podemos come l’arrivo di aria fresca nella politica dello Stato, ma non nascondo che la sua evoluzione, in alcuni aspetti, sta cominciando a portarmi da una rispettosa aspettativa ad una molto rispettosa e sempre più profonda prudenza intellettuale.

Concordi con Podemos circa il fatto che si deve rompere il lucchetto del 1978 e sei in disaccordo sul modo di farlo?

Noi dicemmo che la Costituzione era un lucchetto già alla sua nascita e questo lucchetto si rompe, per esempio in Catalogna, appoggiando l’indipendenza. Purtroppo, non li vedo fare così. So già che mi diranno (e lo rispetto, ma non lo condivido) che il diritto a decidere sarà possibile solo quando vi sarà un processo costituente nell’insieme dello Stato, che modifichi la Costituzione e che riconosca tale diritto. Ma sanno molto bene che, nello Stato, non c’è un rapporto di forza che consenta di raggiungere questo obbiettivo. Allora, cosa ci propongono? Di aspettare? Dico loro, con tutto il rispetto, che lo schema è quello contrario. Sono i processi costituenti indipendentisti nelle diverse nazioni dello Stato che, in ogni caso, potrebbero rendere necessario un processo costituente con queste caratteristiche nell’insieme dello Stato. Si aggiunga a questo una riflessione che abbiamo ascoltato da una persona molto potente, di un mezzo di comunicazione spagnolo molto potente: «Il partito che dovesse sostenere apertamente il diritto di autodeterminazione in Spagna, si suiciderà politicamente ed elettoralmente». Ora, che alcuni non parlino di processi costituenti nello Stato, è per me molto evidente e, ne sono certo, anche per loro.

Come valuti che evitino di definirsi un partito di sinistra?

Nulla di più lontano dal mio pensiero della mentalità da commissario politico o da depositario dell’essenza. Immagino che sulla decisione di non utilizzare l’aggettivo, abbiano pesato più ragioni di carattere sociologico-elettorale che motivazioni ideologiche. È probabile che Podemos ritenga che, in consonanza con il profilo della sociologia spagnola, in questo modo sia più facile ottenere un maggior grado di penetrazione elettorale. In ogni caso, dico che una dinamica di “aggiornamento” del tuo programma politico in funzione dell’evoluzione sociologica-elettorale può essere molto grave; come ha ben detto Iñigo Errejón, alla fine questo ti porta ad assomigliare talmente agli altri che se un giorno arrivi al Governo, lo fai con il loro programma. E questo a cosa serve?

A seguito della cosiddetta «nuova politica» si è fatta una scommessa: entrare nelle istituzioni per recuperarle. Qual è la dialettica istituzione-piazza, partito-movimento, gestione-cambiamento sociale? C’è un “dentro” senza un “fuori”?

C’è un “dentro” senza un “fuori” se ciò che proponi è una dinamica di politica convenzionale, se decidi di insediarti nello spazio confortevole del sistema. Le istituzioni, in una strategia di trasformazione sociale, non possono né debbono essere l’avanguardia dei cambiamenti ma, sempre, la loro retroguardia. Il vero motore del cambiamento deve svilupparsi nel tessuto sociale e popolare come conseguenza di una lotta ideologica ferma, tenace e paziente, che modifichi la scala di valori della gente. I cambiamenti che si producono come conseguenza di una maggioranza elettorale saranno sempre reversibili attraverso una maggioranza alternativa, di altro segno; i cambiamenti che si producono nella scala dei valori sociali potranno essere ritardati, repressi o contenuti, ma finiranno sempre per imporsi.

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