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L’ipocrisia del capitalismo green e l'”allarme” recessione

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Il mito della crescita, inteso come imperativo politico-economico da raggiungere a tutti i costi da parte dei governi, è qualcosa di superato. Un’ovvietà, riconosciuta ormai da quasi tutti gli analisti che non abbiano interessi con qualche lobby politico-industriale.

Nonostante questo, la retorica della crescita e della necessità di aumento del PIL, in particolare nella sua nuova versione green, sembra ricostituirsi come il mantra a cui dovremo abituarci nei prossimi anni. Un modo per salvaguardare l’ambiente riuscendo allo stesso tempo a sostenere una società basata sul posto di lavoro salariato. Insomma, di salvare interessi delle aziende e dei cittadini insieme, pensandoli sulla stessa barca.

Un recente rapporto dell’European Environmental Bureau afferma che dovremmo pensare il contrario. Non si può aumentare il PIL riducendo allo stesso tempo le emissioni. Non si può pensare che si riesca a disaccoppiare la crescita economica dalla crescita dell’inquinamento e dei tassi di distruzione planetaria. Nessun processo di “efficienza” può permettere di invertire una situazione fuori controllo.

Detto con le parole degli studiosi autori del rapporto: «non solo non ci sono prove empiriche a sostegno dell’esistenza di un disaccoppiamento della crescita economica dalle pressioni ambientali in misura anche solo vicina a ciò che servirebbe per affrontare il collasso ambientale, ma, e forse è ancora più importante, sembra improbabile che tale disaccoppiamento si verifichi in futuro».

Siamo di fronte ad un tema che per essere concepito all’interno di questo tornante politico globale va affrontato inserendo anche un altro ragionamento. Sempre legato alla crescita, ma in questo caso al suo inverso. Aumentano infatti le voci che danno per scontata una nuova ondata recessiva, quindi una crescita economica negativa. I timori per la guerra dei dazi, l’incertezza su che fine farà il processo Brexit, la situazione finanziaria cinese sempre più votata al debito, la recessione tecnica in Germania, la bolla nel settore edilizio e formativo americano..sembrano condurre verso un nuovo crack finanziario contro cui servono “risposte globali per il bene comune”.

Eppure, anche in questo caso non esiste una barca comune. La recessione, intesa come diminuzione della produzione di beni e servizi, non è di per sé nulla di negativo per le fasce sociali più basse, se implica uno stop alla produzione di beni inutili e ad attività nocive come deforestazioni, trivellazioni, processi di gentrificazione e così via. Nei fatto però, recessione significa sostanzialmente un momento dove la ricchezza materiale e immateriale trasborda, come ormai ci siamo abituati a vedere, dai più poveri ai più ricchi.

Uno dei suoi effetti è infatti la restrizione del credito da parte delle banche. Queste diventano molto più selettive nel concedere mutui e i loro soldi vanno solo nelle tasche di chi presenta maggiori garanzie. Ovvero, di chi è già più ricco. Per dirla in maniera molto semplice, facciamo l’esempio del mercato degli affitti. Quando ci sono tante case, si affittano a chiunque. Quando ce ne sono poche, vengono date solamente a chi ha requisiti migliori della media (stipendio dei genitori per gli studenti, posto di lavoro fisso per adulti e così via).

Si tratta dunque di un processo non neutro, dove non c’è una crisi collettiva ma un nuovo passaggio di impoverimento sociale di massa. Recessione insomma non è crisi collettiva dell’economia, ma crisi solo per alcuni, mentre per chi ha già buoni fondamentali una recessione aumenta l’arricchimento personale.

Il capitalismo verde, che in America ha preso le forme del “Green New Deal” promosso anche da nuovi idoli della sinistra liberal come Alexandra Ocasio-Cortez, si afferma proprio cercando di sfruttare questa situazione di allarme. Per produrre una “uscita dalla crisi” capace, come detto sopra, di salvare capra e cavoli. Un enorme rilancio di un capitalismo colorato di verde fondato sulla spinta emotiva della crisi economica. Non certo su quella alla protezione dell’ambiente..

Da sempre per reagire a queste dinamiche recessive, fingendo di occuparsi dell’interesse generale e di risolvere “l’emergenza”, la Politica di Palazzo ha ragionato di nuovi investimenti da fare. E’ il meccanismo che porta poi alla questione delle grandi opere inutili, dato che come sa chiunque si occupi di economia e di PIL, scavare una buca in mezzo al deserto e poi riempirla diventa a bilancio un progresso economico. Nel greenwashing progressista che si afferma a livello globale, la cifra comune è proprio un tentativo di conservazione e di ricostruzione di un mito che andrebbe invece affossato. Un keynesismo di tipo nuovo, ma che come fa notare il rapporto delle EEB non affronta realmente la problematica ambientale.

A beneficiare di queste ristrutturazioni passate e future, sono le aziende che ieri scavavano le buche, che oggi costruiscono impianti eolici, che domani lavoreranno nella grande distribuzione green, e il politico “oliato” che oltre ogni temporalità firma l’autorizzazione ai lavori o la liberalizzazione di licenze. Di conseguenza, contro le nuove chiamate alla responsabilità che deriveranno dalla prossima spirale recessiva, ogni prospettiva di greenwashing è da cogliere nella sua nemicità.

L’incrocio tra lotta alla recessione e capitalismo verde è senza dubbio la chiave di lettura dei nuovi processi di ristrutturazione economica della nostra controparte. Un esempio lo avremo presto qui da noi, con un governo giallorosso (se mai ci sarà) he sembra trovare una delle sue (poche) linee d’unità proprio su questo tema…

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