La crisi ucraina come pretesto per imporre il fracking
di Naomi Klein
La strada per battere Vladimir Putin è quella di inondare il mercato europeo con gas naturale ottenuto mediante fracking (frattura idraulica) negli Stati Uniti, o almeno questo è ciò che vuol farci credere l’industria. Nel quadro dell’escalation dell’isteria antirussa, due proposte di legge sono state presentate al Congresso statunitense; con esse si intende approvare fast-track [con procedura rapida] le esportazioni di gas naturale liquefatto (LNG la sua sigla in inglese), allo scopo di aiutare l’Europa a sganciarsi dai combustibili fossili di Putin e rafforzare la sicurezza nazionale statunitense.
Secondo Cory Gardner, il legislatore repubblicano che ha presentato la proposta alla Camera dei Rappresentanti, opporsi a questa legislazione è come staccare il telefono in risposta a una chiamata d’emergenza dei nostri amici e alleati. E potrebbe essere vero -sempre nel caso in cui i tuoi amici e alleati lavorino alla Chevron e alla Shell, e l’emergenza sia la necessità di mantenere elevati i profitti di fronte alle decrescenti forniture di petrolio e gas convenzionali.
Perché questo trucco funzioni è importante non guardare troppo ai dettagli. Per esempio, il fatto che gran parte di questo gas probabilmente non arriverà in Europa -perché i progetti di legge permettono che il gas sia venduto sul mercato mondiale a qualsiasi Paese che appartenga all’Organizzazione Mondiale del Commercio.
O il fatto che, per anni, l’industria abbia mandato il messaggio che gli statunitensi debbano accettare i rischi che la frattura idraulica porta alla loro terra, acqua ed aria, allo scopo di aiutare il proprio Paese a raggiungere un’indipendenza energetica. E ora, improvvisamente, astutamente la meta è diventata la sicurezza energetica, il che a quanto pare significa vendere sul mercato mondiale una momentanea eccedenza di gas ottenuto mediante fracking e così creare dipendenze energetiche all’estero.
E, soprattutto, è importante non rendersi conto che per costruire l’infrastruttura necessaria per esportare gas su questa scala ci vorrebbero molti anni di permessi e di costruzioni –un solo terminal LNG può costare fino a 7 miliardi, dev’essere alimentato da una massiccia rete interconnessa di gasdotti e postazioni di compressione, e richiede la sua propria centrale elettrica solo per generare energia sufficiente a liquefare il gas tramite un super-raffreddamento. Quando questi grandi progetti industriali saranno in grado di funzionare, è possibile che la Germania e la Russia saranno diventate molto amiche. Ma in quel momento pochi ricorderanno che la crisi in Crimea è stata il pretesto di cui l’industria del gas ha approfittato per realizzare i suoi eterni sogni di esportazione, senza badare alle ripercussioni sulle comunità locali per il fracking, o sul pianeta che si riscalda.
Questa abitudine di sfruttare una crisi per ottenere profitti privati la chiamo la dottrina dello shock, e non mostra segnali di arretramento: in tempi di crisi, sia reali che costruite a tavolino, le nostre élites impongono politiche impopolari, che vanno a detrimento della maggioranza, con il pretesto che è un’emergenza.
Certo, ci sono delle obiezioni –da scienziati del clima che mettono in guardia sul potente effetto riscaldante del metano, o delle comunità locali che non vogliono questi porti ad alto rischio per l’esportazione sulle loro amate coste. Ma chi ha tempo per il dibattito? È un’emergenza! Suona il telefono del 118! Prima approviamo la legge, poi ci si penserà.
Molte industrie sono abili a fare questi trucchi, ma il più esperto a sfruttare la capacità che ha una crisi di frenare la razionalità è il settore globale del gas.
Negli ultimi quattro anni i lobbysti del gas hanno usato la crisi economica in Europa per dire a Paesi come la Grecia che l’uscita dal debito e dalla disperazione è quella di aprire i suoi mari belli e fragili alla perforazione. E utilizzano argomenti simili per razionalizzare il fracking nell’America del Nord e nel Regno Unito.
La crisi du jour è il conflitto in Ucraina. Lo usano come ariete per sconfiggere le sensate restrizioni alle esportazioni di gas naturale e per promuovere un discusso accordo di libero commercio con l’Europa. È un affarone: più economie imprenditoriali di libero commercio inquinanti e più gas che intrappolano il calore e inquinano l’atmosfera. Tutto questo in risposta a una crisi energetica in buona misura artefatta.
E vale la pena di ricordare -ironia delle ironie- che la crisi che l’industria del gas naturale è più abile a sfruttare è il cambiamento climatico stesso.
Cosa importa se l’unica soluzione che l’industria offre alla crisi climatica è quella di espandere drasticamente l’uso del fracking, che libera in atmosfera quantità massicce di metano, destabilizzatore del clima. Il metano è uno dei gas serra più potenti, 34 volte più forte per trattenere il calore dell’anidride carbonica, secondo i calcoli più recenti del Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC la sua sigla in inglese). E si parla di un range di 100 anni, in cui il potere del metano si riduce nel tempo.
È molto più rilevante, argomenta Robert Howarth, biochimico della Cornell University, uno dei principali esperti del mondo sulle emissioni di metano, osservare l’impatto in un periodo da 15 a 20 anni in cui il metano ha un impressionante potenziale di cambiamento climatico: da 86 a 100 volte maggiore dell’anidride carbonica. “È in questo range temporale che rischiamo di rinchiuderci in un surriscaldamento rapidissimo” ha detto mercoledi scorso. E ricordate: non si devono costruire infrastrutture multimilionarie a meno che non si pensi di utilizzarle almeno 40 anni. Così la risposta che diamo al nostro pianeta che si surriscalda è la costruzione di una rete di forni atmosferici superpotenti. Siamo pazzi?
Non sappiamo quanto metano si libera perforando e facendo fracking e con tutta la sua infrastruttura. Anche quando l’industria del gas naturale vende le sue emissioni di anidride carbonica come “più basse del carbone”, non ha mai effettuato rilevazioni sistematiche delle sue fughe di metano. L’industria del gas, nel 1981, è uscita con l’astuto discorso che il gas naturale era un ponte verso un futuro di energia pulita. È successo 33 anni fa.
E nel 1988 –l’anno in cui il climatologo James Hansen mise in guardia il Congresso, con una storica testimonianza, sull’urgente problema del riscaldamento globale- l’Associazione Statunitense del Gas ha iniziato a descrivere esplicitamente il suo prodotto come risposta all’effetto serra.
L’uso che l’industria fa dell’Ucraina per espandere il suo mercato globale, sotto la bandiera della sicurezza energetica, si deve guardare nel contesto di questo ininterrotto curriculum di opportunismo di fronte alle crisi. Solo che stavolta siamo in molti di più a sapere dove sta la vera sicurezza energetica. Grazie al lavoro di ricercatori di fama, come Mark Jacobson e la sua équipe a Stanford, sappiamo che il mondo può, entro il 2030, ottenere la sua energia esclusivamente da fonti rinnovabili. E grazie ai più recenti e allarmanti rapporti dell’IPCC sappiamo che farlo è ora un imperativo esistenziale.
Questa è l’infrastruttura che abbiamo bisogno di affrettarci a costruire –non grandi progetti industriali che ci inchioderebbero in un’ulteriore dipendenza dai pericolosi combustibili fossili ancora per decenni nel futuro. Sì, di questi combustibili ci sarà ancora bisogno durante la transizione, ma di convenzionali ce n’è più che abbastanza per portarci dall’altra parte: metodi di estrazione super-sporchi come le sabbie bituminose e il fracking sono semplicemente inutili. Come ha detto Jacobson in un’intervista proprio questa settimana: “Non abbiamo bisogno di combustibili non convenzionali per produrre l’infrastruttura per convertire in energia eolica, idrica e solare interamente pulita e rinnovabile per tutte le necessità. Possiamo contare sull’infrastruttura esistente più la nuova infrastruttura [della generazione rinnovabile] per fornire l’energia per produrre il resto dell’infrastruttura pulita di cui abbiamo bisogno… Petrolio e gas convenzionali sono molto più che abbastanza”.
Su queste basi, dipende dagli europei trasformare il loro desiderio di emancipazione dal gas russo nella domanda di un’accelerata transizione alle rinnovabili. Questa transizione –alla quale le nazioni europee sono impegnate dal Protocollo di Kyoto- può essere facilmente sabotata se il mercato mondiale è inondato con combustibili fossili economici estratti mediante fracking dal letto di roccia statunitense. Rispondere alla minaccia di un riscaldamento catastrofico è il nostro più urgente imperativo energetico. E semplicemente non ci possiamo permettere il lusso di distrarci con il più recente trucco di marketing, gonfiato con una crisi, dell’industria del gas naturale.
Naomi Klein è autrice di No logo e Shock economy.
Fonte: http://www.theguardian.com/commentisfree/2014/apr/10/us-fracking-companies-climate-change-crisis-shock-doctrine
Traduzione per Senzasoste di Andrea Grillo, 21.4.2014
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