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Guerra globale, una sola egemonia da garantire

Ich kenne Schritte die sehr nützen

und werde euch vor Fehltritt schützen

Und wer nicht tanzen will am Schluss

weiß noch nicht dass er tanzen muss

Io conosco passi che sono molto utili 

e che vi proteggeranno dai passi falsi 

e chi alla fine non vuole ballare

 non sa ancora che deve ballare

(Amerika – Rammstein)

Il precipitare degli eventi degli ultimi giorni non solo rappresenta un allargamento della guerra su scala sempre più ampia ma dimostra che il prezzo della guerra globale verrà pagato da tutti quelli che non saranno funzionali a garantire l’unica egemonia oggi: quella amerikana. 

L’attacco a sorpresa, massiccio come non si vedeva dal 2019, chiamato operazione “Deterrenza dell’aggressione” da parte delle forze salafite guidate da Hts (Hayat Tahirir ash-Sham) nei confronti dell’esercito siriano solleva questioni dirimenti e di carattere generale. Un attacco così pesante e organizzato non poteva essere fatto se non con uno Stato dietro: la Turchia, con l’obiettivo di mettere Assad all’angolo in modo da ottenere il riconoscimento della sovranità turca nel nord della Siria e la risoluzione del problema interno dei milioni di profughi siriani. Un’operazione come questa non poteva essere fatta senza assenso di USA e Israele: è disarmante il tempismo dell’attacco al governo di Damasco proprio all’indomani di una falsa tregua in Libano – si contano centinaia di violazioni in pochi giorni da parte di Israele – in cui uno dei punti era il ritiro di Hezbollah dalla Siria. Israel Katz lo ha già dichiarato: se il cessate il fuoco crolla non ci sarà più alcuna distinzione tra Hezbollah e il governo libanese, l’obiettivo diventerà radere al suolo il Libano così come è stato fatto con Gaza. Anche il portavoce dell’Unione delle Comunità del Kurdistan Zagros Hiwa ha oggi dichiarato che il disegno che sta dietro l’attacco in Siria è opera di potenze internazionali come USA, Regno Unito e Israele. “Stanno tramando per dividere la Siria e usare la questione curda come leva contro la Turchia”. Nella presa di parola vengono sottolineati i rischi che ciò comporta per i curdi, soprattutto nel Rojava, e si avverte che il piano fa parte di dinamiche geopolitiche più ampie volte a indebolire l’influenza dell’Iran nella regione. “L’obiettivo è quello di recidere il legame dell’Iran con il Libano creando un corridoio sunnita”, ha dichiarato. Washington ha un ulteriore fine: bloccare i rifornimenti di armi a Hezbollah pressando Assad affinché si allontani dall’Iran tramite il ricatto delle sanzioni, isolando Siria e Iran. L’attacco porta acqua al mulino degli USA anche sul fronte europeo: la Russia, che ha tutte le intenzioni di mantenere il controllo sulla Siria avvalorato dalla presenza di due grandi basi militari di cui l’unica base navale russa con sbocco sul Mediterraneo orientale, viene distratta dal fronte di suo primario interesse.

Nel frattempo nel giro di 24 ore in Corea del Sud si è consumato un tentato colpo di stato “liberale”. Dopo una notte di proteste nella capitale Seul, la dichiarazione dello sciopero generale e migliaia di persone davanti al parlamento, il presidente Yoon Suk Yeol ha prima dichiarato di dover difendere la “democrazia” che lui rappresenterebbe di fronte alla “minaccia comunista”, ha convocato la legge marziale per poi ritirarla dopo un giorno. L’arco parlamentare sudcoreano vede una maggioranza di forze che intrattengono relazioni distese con il Nord Corea, elemento che rischia di minare gli interessi USA. Normalmente un presidente che tenta un colpo di stato senza riuscirci il giorno dopo finisce in carcere o peggio. In questo caso invece l’esercito si è ritirato dalle strade, ma di fatto è rimasto quasi integralmente fedele ai diktat presidenziali, il partito del presidente (che in realtà è minoranza nel parlamento) sebbene abbia votato contro la legge marziale adesso ha votato no alla richiesta di impeachment da parte dell’opposizione. Soltanto oggi arriva la notizia di un’inchiesta che potrebbe portare al voto sull’impeachment. Una situazione ben strana, che sicuramente non sarà priva di colpi di coda! In tutto ciò, contro ogni evidenza, il presidente ha rivendicato l’applicazione della legge marziale in difesa delle istituzioni “liberali” della Corea del Sud. Se ci si fermasse a riflettere si comprenderebbe che dietro queste affermazioni non c’è altro che la verità: lo slittamento semantico è chiaro, nel loro nuovo senso i “valori liberali” hanno poco a che fare con i diritti, la democrazia e le vecchie libertà individuali, oggi fregiarsi di liberalismo vuol dire solo la difesa degli interessi del grande capitale occidentale. D’altronde non bisogna andare in Corea per rendersene conto, ma basta oltrepassare le Alpi e vedere cosa succede in Francia. In ultima istanza un particolare: è vero che Yoon Suk Yeol viene definito il Trump coreano, ma non bisogna dimenticare che Trump, quello originale, nel suo primo mandato intraprese un tentativo di distensione con la Corea del Nord. Tentativo dalle alterne fortune sicuramente, ma sostanzialmente differente dalla dottrina neocons che ha guidato l’amministrazione Biden. 

Anche su latitudini più vicine a noi le proteste in Georgia contro il governo che ha interrotto il percorso per l’ingresso nell’Unione Europea, indicano di che tipo siano gli scenari “rivoluzionari” che fanno breccia nel cuore del capitalismo. Sono gli stessi media occidentali che d’altronde chiamano le forze Hts “ribelli” perché lottano contro il regime brutale del dittatore Assad per instaurare la democrazia in Siria. Qual è il sistema economico, politico e militare che viene tutelato attraverso questa narrazione? Le conseguenze dirette dell’opzione dello Stato Islamico (IS) le abbiamo verificate negli anni recenti a seguito degli attentati in Francia. Queste riguardano una fascia sociale ben precisa, quella ricattabile e sacrificabile: i giovani proletari, che siano bianchi o non bianchi. Certamente sussiste un doppio standard di trattamento, perché ci sono quelli che vengono pianti con qualche giorno di cordoglio istituzionale dopo le sparatorie nelle sale concerto e poi ci sono quelli che non serve nemmeno piangere per ipocrisia perché uccisi dai crimini polizieschi. Qua non si tratta di frammentare le cause, la causa è la stessa: la necessità di individuare chi sarà disponibile, in un clima di intruppamento generalizzato, a rifiutare di combattere le loro guerre, che sia in Ucraina o tra le fila di un qualche gruppo di Daesh o Al Qaeda. La normalizzazione di queste dinamiche “democratiche”, che altri Paesi europei hanno sperimentato prima di noi, di cui il ddl 1660 ne è solo la punta dell’iceberg, ha scavato profondamente, creando un immaginario tra i giovani oggetto dei decreti come quello Caivano, in cui viene considerata la normalità essere arrestati o uccisi. In questo immaginario non c’è spazio per un’ipotesi differente e non prevede alcun riscatto, ma soltanto la reiterazione di violenza e il disconoscimento di qualsiasi alleanza possibile. La domanda è chi sono i nostri ma soprattutto chi siamo noi per loro.  

Il quadro che emerge di inasprimento delle tensioni a livello globale preannuncia tempi cupi, ma è anche un elemento chiarificatore. Non per essere riduttivi, ma a muovere sulla scacchiera le pedine del caos sono oltre ogni ragionevole dubbio gli Stati Uniti. Dalle nostre parti c’è chi continua a fare l’ “inutile idiota” pontificando sul fatto assodato da secoli ormai che “ogni imperialismo è cattivo”, postura ideologica che, cosa meno grave, non permette di osservare i fenomeni con un minimo di profondità storica, e, qui sì che casca l’asino, in secondo luogo di fatto si accoda volontariamente o involontariamente alla retorica “democrazie vs autoritarismi”… almeno finché la democrazia è ancora un pannicello utile per nascondere le peggiori nefandezze, tipo un genocidio. 

E’ proprio ora di darsi una bella svegliata. Tra chi viaggia nell’universo parallelo dell’ordine multipolare (che comunque è più edificante di chi fa studi decoloniali e parla di decostruirsi, ma poi vorrebbe una resistenza palestinese più “pucciosa”) e chi tutto sommato pensa che fuori dai “valori occidentali” ci sia solo barbarie, ma preferisce chiamarlo “imperialismo” siamo belli che panati. Gli Stati Uniti non sono l’impero del male, ma il cuore del capitalismo globale che attraverso la sua supremazia economica e militare esercita il proprio dominio contro chiunque lo intralci. Non siamo antiamericani nel senso che odiamo gli abitanti degli Stati Uniti, alcuni dei conflitti sociali più importanti di questi ultimi decenni sono nati proprio nel ventre della bestia, siamo contro i capitalisti che governano gli Stati Uniti e con essi gran parte del globo. Solo nel disarticolarsi di questo dominio si può aprire qualche spazio di possibilità, il che non vuol dire che “i nemici dell’Amerika” siano i nostri amici, non vuol dire tifare per l’uno o per l’altro, ma provare a capire quale scenario effettivamente apre prospettive e quale invece le chiude brutalmente. La composizione sociale alla quale, come movimento per la liberazione della Palestina e contro la guerra, si aspira a parlare ha capito benissimo, molto prima di noi, che occorre stare dalla parte di chiunque sostenga Palestina e Libano perché significa che si sta frapponendo agli USA. Allora bisogna essere conseguenti, non stare nella posizione di comfort. Stesso discorso vale per la guerra in Ucraina, infatti dal punto in cui siamo nella catena del valore capitalista, da quest’Europa sempre più militarista, reazionaria e anche sempre meno attrattiva, l’equazione dovrebbe essere semplice e dovrebbe parlare le parole del disfattismo. Perché se si aprirà uno scenario da Terza Guerra Mondiale gli USA ci porteranno a fondo con loro.  

Forse la violenta intensificazione delle condizioni di sfruttamento derivanti dall’economia di  guerra imposta e dalla concentrazione dei capitali (anche qui, si parla sempre dei rampanti cinesi, ma a fare spesa delle aziende italiane negli ultimi anni sono  soprattutto i nostri vicini europei e i nostri alleati in giro per il mondo) aprirà una stagione di lotta di classe con caratteristiche nuove. I vagiti di questa possibilità si iniziano ad intuire, tra il vento del nord che arriva dalla Germania ed il timido risveglio dei sindacati dalle nostre parti. E questo, se succederà, spazzerà via molte illusioni. Che fare? Chiarire sempre e rendere comprensibili le nostre parole d’ordine nelle piazze, senza paura di sfidare l’apparato mediatico e costruire alleanze trasversali tra le masse di proletari più o meno impoveriti che si interrogheranno (forse mobilitandosi?) su come difendere i loro interessi. Il punto di partenza non è l’idealismo ma una sana spinta egoistica. Il nostro compito è quello di far vedere come inizia il crollo, non di salvare il sistema di dominio. Loro si muovono e si muoveranno “whatever it takes”, noi?

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