La notte del procuratore (2)
Piccola controbiografia di Giancarlo Caselli
La costituzione non si realizza
Negli anni Ottanta, dopo oltre dieci anni come giudice istruttore a Torino, quando condizioni carcerarie disumane hanno spezzato la solidarietà tra i prigionieri politici e tutte le eredità della nuova sinistra sono state più o meno cancellate, Caselli viene eletto al consiglio superiore della magistratura (organo di autogoverno del potere giudiziario) nelle liste di magistratura democratica, e delegato alle questioni riguardanti la criminalità organizzata siciliana. Terminata l’emergenza rappresentata dai movimenti sociali, la corrente “democratica” e “costituzionale” della magistratura tentava di ottenere più spazio a livello nazionale, anche facendo fruttare le stellette maturate nel modo che abbiamo visto nella scorsa puntata. Il Pci, inteso come forza che si proponeva un rinnovamento sociale, non esisteva più, distrutto dal conflitto degli anni Settanta; era qualcosa di totalmente altro, e presto avrebbe cambiato anche il nome. Le sue diramazioni accademiche e giudiziarie, tuttavia, non arresteranno la propria diffusione in nome dell’azione di “inveramento” (e successivamente, più modestamente, di “difesa”) della costituzione. Caselli ricorderà più volte come furono proprio quegli anni Ottanta, detti dei “pretori d’assalto”, alle prese con alcune irregolarità nel mondo del lavoro, o delle indagini della procura di Milano sulla loggia p2 (che non era più utile, o indispensabile, o intoccabile) a inaugurare finalmente l’epoca dispiegata della “magistratura costituzionale”.
Questa Italia degli anni Ottanta, prodotta dalla repressione degli anni precedenti, è un’Italia irriconoscibile politicamente e culturalmente rispetto al suo prossimo passato: il potere politico era indebolito da quindici anni di contestazione sociale, che aveva non soltanto lacerato la memoria storica, ma anche completamente trasformato la costituzione materiale del paese, ovvero la sua struttura sociale e produttiva. Questo potere politico anacronistico subirà l’attacco del potere giudiziario al nord e di quello criminale al sud, avviando una fase di complessa contrapposizione istituzionale e innovazione politica che verrà vittoriosamente interpretata da Silvio Berlusconi, che proprio su essa costruirà la sua incredibile e duratura egemonia culturale. Dal punto di vista giudiziario tanto il sistema di intervento della procura di Milano quanto quello della procura di Palermo, che andò precisandosi in quegli anni, fu quello del “pool” di magistrati, che venne ereditato dal modello usato da Caselli e Violante contro i movimenti degli anni Settanta.
Tanto l’azione dei “magistrati costituzionali” di Milano quanto quella dei giudici Falcone e Borsellino a Palermo (la cui impostazione ideologica era diversa, e quella del secondo più mussoliniana che costituzionale, visto che era vicino all’Msi) provocò reazioni in altri ambiti dello stato e nelle sue appendici criminali, che portarono, a Palermo, a una serie di omicidi politici e attentati nel 1992, in cui morirono entrambi i giudici. Caselli che, presso il Csm, aveva difeso negli anni i due magistrati dagli innumerevoli tentativi di ostracizzazione e isolamento da parte dell’autorità giudiziaria (compresa magistratura democratica, con cui Caselli non entrava ora per la prima volta in contrasto) preoccupata che la loro azione rompesse gli equilibri di stato con Cosa Nostra in Sicilia, chiese e ottenne di essere trasferito alla procura di Palermo, dove resterà dal 1993 al 1999. (Negli stessi anni a continuare il lavoro con lui iniziato contro gli “estremisti” a Torino rimarrà il collega Maurizio Laudi che, assieme al pm Marcello Tatangelo, porterà avanti nel 1998 una strana inchiesta per terrorismo in Val Susa, nell’ambito della quale moriranno, suicidi in carcere, i due anarchici Sole e Baleno, che poi, ormai morti, saranno assolti).
L’azione di Caselli a Palermo si orientò su due direttrici: attaccare la struttura militare di Cosa Nostra, come chiedeva a gran voce una classe politica piuttosto spaventata (non tanto per l’uccisione dei giudici, quanto da quella di un politico come Salvo Lima, accusato da Cosa Nostra di non aver rispettato i patti) e portare in luce i legami tra crimine organizzato, politica e magistratura, come invece la classe politica non chiedeva affatto; ma l’idea di Caselli era di portare un attacco ai comportamenti illegali eccellenti al sud come con tangentopoli era avvenuto al nord. Il regime carcerario del 41bis o “carcere duro” (una forma di tortura dei detenuti, come confermato più volte da istituti internazionali), inizialmente creato contro i carcerati in rivolta degli anni Settanta e Ottanta, fu esteso agli indagati per mafia dopo il 1992. Con questo sistema Caselli ottenne confessioni e tradimenti (chiamati in modo improprio, come già nel caso dei prigionieri politici, “pentimenti”) da parte di moltissimi appartenenti a Cosa Nostra, che denunciarono, tra altre cose, il ruolo di garante degli interessi dell’organizzazione svolto da Andreotti presso le più alte sfere politiche tra gli anni Settanta e il 1992 (anno in cui, non essendo riuscito ad assicurare l’assoluzione dei boss al maxiprocesso a causa di complesse manovre burocratiche di Falcone, Cosa Nostra lo destituì da questo ruolo e colpì i suoi uomini in Sicilia, Salvo Lima e Ignazio Salvo).
Caselli ottenne testimonianze su reiterati incontri diretti di Andreotti con il boss Bontate e i corleonesi, che trovarono riscontri anche in testimonianze fornite da persone estranee a Cosa Nostra (soprattutto per incontri degli anni Ottanta, confermati da poliziotti che erano nella scorta del senatore) e lo rinviò a giudizio. La sentenza fu al limite del canzonatorio: Andreotti fu giudicato colpevole di ciò che gli veniva contestato riguardo agli anni Settanta (anni per cui il reato era già in prescrizione, e dunque non doveva scontare la pena), e innocente per tutto il resto. Anziché denunciare l’evidenza di una magistratura che, anche di fronte alle prove più plateali, trova il modo di evitare il carcere a un uomo di potere, Caselli ebbe modo di dichiarare, e lo fa tuttora, che la sentenza è stata una vittoria, perché ha scritto nella storia giudiziaria che Andreotti è stato un mafioso (secondo l’autorità giudiziaria solo fino al 1980); come se tutta l’Italia – soprattutto quella che Caselli e Andreotti negli anni Settanta volevano in manette – non lo avesse sempre denunciato e saputo. Inizia qui a comparire un elemento che il procuratore aveva celato in passato dietro la retorica dell’emergenza, ossia il suo fanatismo: la fedeltà cieca a una costellazione di principi completamente astratti, che la sua stessa azione giudiziaria e le sue vicende personali di magistrato (non più d’emergenza, ma “costituzionale”) mettono spietatamente in crisi sul piano logico e storico, senza alcuna conseguenza sull’impianto generale delle sue concezioni morali e professionali.
Negli stessi anni porta avanti un processo contro un giudice della corte di cassazione, Corrado Carnevale, noto negli ambienti giudiziari come “l’ammazzasentenze”, accusato di aver celato per anni, dietro a una concezione garantista della giurisprudenza, l’intenzione esplicita di assolvere sistematicamente tutti gli imputati di Cosa Nostra, annullando in ultima istanza ogni attribuzione a loro carico (era a lui che Andreotti voleva destinare la pratica del maxiprocesso, ma Falcone lo impedì). Anche stavolta gli elementi indiziari, basati sulla storia delle sentenze di Carnevale e su intercettazioni telefoniche, erano palesi fino al ridicolo, mostrando quanto il potere giudiziario fosse solidale con il sistema di potere che legava il mago degli appalti Vito Ciancimino con l’andreottiano Salvo Lima e gli uomini d’onore della Sicilia, che quegli appalti ottenevano, reinvestendone i proventi nel traffico di droga. Carnevale viene allora condannato in primo grado e in appello ma, quando la sentenza arriva in cassazione, a Roma, i suoi colleghi di lunga data la annullano reintegrandolo in servizio con mille scuse e per un tempo più lungo di quello in cui resterà in carica il povero Caselli (Carnevale è infatti tuttora giudice di cassazione). Il procuratore, naturalmente, si guardò bene anche in questo caso da avviare un ragionamento sulla correttezza del suo assunto del 1967, quando entrò in magistratura, secondo cui l’azione giudiziaria era la strada giusta per cambiare l’Italia.
Negli stessi anni Caselli rinvia a giudizio Marcello dell’Utri, sulla base di molte testimonianze di collaboratori di giustizia, per aver svolto un ruolo di mediazione prima economico tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi tra il 1974 e il 1992, poi politico, quando fu fondata Forza Italia nel 1993. L’idea, per nulla balzana, di Caselli e dei magistrati che ne prenderanno le veci a Palermo, è che i proventi del traffico di droga e di altri traffici di Cosa Nostra siano stati reinvestiti al nord negli anni Settanta, anche grazie a complicità in imprenditori emergenti (Berlusconi è tra l’altro indagato negli stessi anni, a Milano, per l’origine “nera”, ossia misteriosa e nascosta, dei capitali investiti nelle televisioni che, negli anni Ottanta, costruiranno una nuova cultura nazionale sulle ceneri di quella cancellata dalle caccie alle streghe), e che all’epoca si siano formati i legami che hanno portato Cosa Nostra a benedire Forza Italia come nuovo interlocutore politico nel 1993, propiziandone l’incetta di voti al sud come erede affidabile della Dc andreottiana. Il processo non ha ancora raggiunto una sentenza definitiva, ma ha provocato (assieme a quello contro Andreotti) l’ostilità della destra berlusconiana verso Caselli e la sua santificazione (interessata e di facciata, ma con forti effetti sull’immagine del procuratore come “uomo contro”) da parte dell’opposizione rappresentata, più che da un’inane e troppo compromesso partito “democratico”, dal moderno partito d’opinione rappresentato dal quotidiano di De Benedetti La Repubblica e dai suoi satelliti culturali.
Caselli deciderà di lasciare la procura di Palermo nel 1999 per andare a dirigere il Dap, ossia le carceri italiane, fino al 2001: un biennio in cui continuarono indisturbati abusi, suicidi e repressioni terribili di rivolte nelle prigioni italiane, che resteranno un vero inferno come lui stesso avrà modo di confermare “con amarezza” (come se chi ne dirige l’istituzione amministrativa per due anni non ne fosse responsabile). Nel 2001 è membro di Eurojust, un ente dell’Unione Europea per il coordinamento delle indagini contro la criminalità organizzata, ma nel 2002 il ministro della giustizia Castelli revoca la sua nomina nell’ambito della guerra di Berlusconi contro le figure più attive della magistratura, ciò che condurrà anche alla sua clamorosa esclusione dal concorso a procuratore nazionale antimafia del 2005, per esplicita volontà di Berlusconi, che gli preferì l’attuale presidente del senato Piero Grasso (che gli era succeduto come procuratore capo a Palermo dal 1999) con una legge contra personam. Alla fine, l’intesa tra capitale legale e illegale, tenuta in piedi fin dai tempi del dopoguerra come diga armata contro ogni cambiamento sociale, non ha ricompensato il magistrato che mise a repentaglio la sua vita contro i movimenti sociali al nord, quando volle mettere in discussione quella stessa intesa al sud, con le sue carte e i suoi timbri da tribunale. L’utile idiota, quando non è più utile, resta soltanto un idiota; come dimostrano anche gli episodi, poco conosciuti, che ci accingiamo a raccontare.
Il procuratore e i Ros, un’intesa (im)perfetta
La data prevista per l’insediamento di Caselli a capo della procura di Palermo era il 15 gennaio 1993. Pochi giorni prima il generale dei carabinieri del Piemonte Francesco Delfino aveva arrestato a Vercelli un latitante di Cosa Nostra, Baldassarre di Maggio detto Balduccio. Vuoi per improvvisa crisi di coscienza, vuoi più probabilmente per altre ragioni, immediatamente l’uomo decise di collaborare con i carabinieri, e naturalmente Caselli ne venne avvisato da Delfino, che gli fece sapere che Di Maggio aveva dato assicurazione di conoscere il luogo dove era nascosto il padrino di Cosa Nostra, Totò Riina. Caselli, a quel punto (stando alle sue stesse dichiarazioni nei processi che seguiranno) decide di coinvolgere nel tentativo di arrestare Riina il colonnello dei carabinieri Mario Mori, suo amico dai tempi della caccia ai sovversivi, che nel frattempo ha contribuito a creare una struttura speciale nell’Arma, i Ros (reparto operativo speciale). Lo invita quindi a pranzo a Torino assieme a Delfino e investe i Ros di Mori dell’operazione.
L’arresto avviene puntualmente ad opera del capitano dei Ros De Caprio, alias Ultimo, la mattina del 15 gennaio, giorno dell’insediamento di Caselli, che inizia così la sua funzione nel migliore dei modi. O quasi. Caselli si fionda alla caserma centrale dei carabinieri per il brindisi e la conferenza stampa, di grande impatto mediatico nazionale e internazionale, poi si reca a mangiare presso il circolo ufficiali con Mori e con altri due alti ufficiali dei Ros, il generale Subranni (autore del depistaggio delle indagini sulla morte di Peppino Impastato a Cinisi, nel 1978, quando le orientò sull’ipotesi dell’attentato suicida) e il suo vice De Donno. In quel momento i carabinieri della caserma, che dipendono dal comando regionale, si stanno incolonnando nel cortile per andare a perquisire la villa di Riina, dove verosimilmente ci possono essere documenti preziosi per le indagini. Dal circolo ufficiali arriva però il capitano De Caprio, riferendo l’ordine di Caselli di smobilitare: non avverrà nessuna perquisizione. Nei giorni seguenti ignoti ripuliranno la villa da cima a fondo, togliendo qualsiasi oggetto e ritinteggiando addirittura le pareti per far sparire le impronte digitali. Ogni traccia, prova o indizio verranno distrutte.
Pochi giorni dopo Caselli scrive una lettera al colonnello Mori in cui chiede spiegazioni riguardo all’accaduto. Eppure è stato proprio lui, Caselli, a ordinare che la perquisizione non avesse luogo. Cos’è successo? Ciò che emergerà è che a convincere Caselli a bloccare la perquisizione della villa furono proprio i Ros, in particolare De Caprio e Mori, che sostennero vi fosse la possibilità di arrestare altri latitanti se si fosse continuata la sorveglianza del comprensorio della villa prima di farvi irruzione, per alcuni giorni. Invece subito dopo il pranzo, in barba agli accordi presi, De Caprio fece rimuovere tutto il personale e l’attrezzatura di osservazione, lasciando via libera a chi (mafiosi? Non è detto, e non è stato mai appurato) “bonificò” la villa. Alla richiesta di spiegazioni di Caselli Mori rispose accampando motivazioni risibili e, ancora una volta, al limite della presa in giro. Caselli, tuttavia, dopo aver colpevolmente (dal suo punto di vista di magistrato) ascoltato i consigli già piuttosto strani dei Ros in quell’occasione, lasciò cadere la cosa, e non aprì alcun fascicolo di indagine sull’accaduto. Strano, visto che di solito è così solerte.
Due anni dopo, tuttavia, il boss Bernardo Brusca si “pentì” e, riguardo al misterioso episodio, riferì che, se il covo era stato “ripulito”, era perché c’erano documenti compromettenti per i carabinieri. Di fronte a una simile dichiarazione, Caselli è obbligato ad aprire un fascicolo sulla vicenda ma, incredibilmente, lo apre a carico di… ignoti. Forse la sua amicizia con Mori, ormai diventato generale dell’Arma, resiste pure a questo, dopo le prese in giro, semplicemente a causa dei trascorsi comuni nella repressione degli anni Settanta? Mistero. Gli “ignoti” sono comunque indagati per “favoreggiamento a Cosa Nostra”, e Caselli affida l’indagine al pm Ingroia che, stranamente, ne chiede ben presto l’archiviazione. Il giudice per le indagini preliminari che dovrebbe disporla, tuttavia, non appena legge le carte fa un salto sulla sedia e ordina a Ingroia non soltanto di continuare l’indagine, ma di sostituire la dicitura “ignoti” con gli ovvi nominativi di Mori e De Caprio. Poco dopo Ingroia ci riprova, sostenendo che, sebbene tutto lasci pensare che il comportamento dei due abbia favorito Cosa Nostra, non è possibile dimostrare “l’intenzione psicologica” di favorirla. Il gip rifiuta di prestarsi a questa pagliacciata, Ingroia ci riprova una terza volta ma stavolta è il giudice per l’udienza preliminare che si oppone e rinvia a giudizio i due.
Lo strano, in questa vicenda (la vicenda in sé è tutt’altro che strana) è che la procura, nelle persone di Caselli e Ingroia, abbia cercato in tutti i modi di proteggere Mori e De Caprio dall’accusa di favoreggiamento, che pure, a detta stessa di Caselli (sentito come testimone nel processo) della procura si erano presi bellamente gioco. Anzi, al termine del procedimento Ingroia, che pure rappresentava l’accusa come pm, chiederà l’assoluzione dei due Ros, tornando a dire che il favoreggiamento vi fu di fatto, ma l’intenzione non poteva essere provata (e quanti di noi vorrebbero ricevere lo stesso trattamento in tribunale!). I due Ros furono allora assolti, ma nel frattempo (siamo ormai nella seconda metà degli anni 2000) un testimone di giustizia (Massimo Ciancimino, figlio del sindaco Vito, mago degli appalti palermitani per conto di Cosa Nostra negli anni Sessanta) e un “pentito” (Gaspare Spatuzza) avevano rivelato che tra il 1992 e il 1993 i Ros (nelle persone di Mori, De Donno e Subranni, ossia i tre che pranzavano con Caselli quando questi ordinò di non effettuare la perquisizione) gestirono per conto dei vertici della repubblica una trattativa con Cosa Nostra, lasciando intendere che i documenti “scottanti” per i carabinieri che qualcuno fece sparire dalla villa di Riina con la complicità degli stessi (come aveva detto Brusca) avevano a che fare con quella trattativa; trattativa che, tra l’altro, prevedeva il rinnovamento dell’antico patto di protezione di Cosa Nostra, riorganizzata dall’interlocutore di Mori e De Donno, Bernardo Provenzano, da parte dello stato.
Caselli – lo ha sempre spiegato – poverino, non sapeva. Lui era ancora convinto che la magistratura democratica avrebbe cambiato il mondo, o forse che gli uomini in armi o i vertici della politica e dello stato che gli avevano dato carta bianca, negli anni Settanta, contro i movimenti di sinistra lo avrebbero ugualmente supportato negli anni Novanta contro gli interessi economici e di potere in gioco in Sicilia; e passi vedere la magistratura giudicante assolvere sistematicamente tutti i suoi imputati eccellenti, passi vedere gli eredi politici di quegli imputati indisturbati al potere cambiare l’Italia; ma qui si trattava di scoprire che i suoi stessi uomini, i suoi organi di polizia giudiziaria, coloro che lui stesso aveva delegato a indagare, quelli con cui pranzava allegramente, erano in combutta con il nemico e per di più – è il caso di dirlo – “fuori dal perimetro della legalità e della costituzione”. Non si trattava di affiliati a Cosa Nostra, ma di servitori dello stato che eseguivano ordini di stato, anche se – cosa che non avrebbe dovuto stupire Caselli, che invece si dichiara tuttora stupito – contrari alla legge. Così si dimostrò vero quello che pensavano gli studenti che Caselli faceva arrestare tempo prima: l’emergenza, in una società capitalista, non finisce mai, e l’ordinamento giuridico è in perenne (e tutto sommato pacifico, e questa è, a ben vedere, la cosa più sorprendente) stato di eccezione.
Lo ricorderemo sempre così, noi, Caselli, a pranzo con i suoi amici dei Ros che lui stesso ha coinvolto e che, mentre gli parlavano, pensavano a come coglionarlo meglio e a come far sparire i documenti scottanti e tutte le prove dalla villa; non fosse mai che il procuratore, indagando sulla “criminalità” da lui tanto odiata, potesse capire… chi era Stato.
Il procuratore e “Catullo”, l’agente segreto
La polizia giudiziaria – organo armato senza i cui servigi l’attività del magistrato si ridurrebbe a quella di un notaio – non è tuttavia composta soltanto dai carabinieri: c’è anche la polizia. Caselli ha raccontato più volte quanto gli fosse evidente, negli anni Ottanta, quando era al Csm, l’ostilità che la corporazione dei magistrati nutriva nei confronti di Giovanni Falcone; e che l’opinione di Falcone, secondo cui l’intreccio tra politica e mafia doveva e poteva essere debellato (come pure la stessa organizzazione Cosa Nostra, che lo stato avrebbe dovuto sostituire sul territorio) non piacesse ai piani alti, da sempre legati alle organizzazioni illegali in modo segreto e per fini sia economici che di repressione politica. Che le cose stessero realmente così è dimostrato da molte cose, tra cui un episodio che avvenne nel 1989 sulle scogliere palermitane dell’Addaura, dove Falcone si apprestava a fare il bagno con due colleghi svizzeri in visita. Quando stava per bagnarsi un’imbarcazione con a bordo due uomini si avvicinò alla riva e gli intimò di allontanarsi; quindi i due scesero e fecero evacuare la zona, per poi far brillare dell’esplosivo che era nascosto tra le rocce, salvandogli la vita. Quei due uomini erano due poliziotti, uno dei quali agente del Sisde, il servizio segreto interno.
Anche nella scorta di Falcone, quel giorno, sugli scogli, era presente un agente del Sisde, descritto dai testimoni come un uomo dal volto indimenticabile perché completamente deformato dall’acne. Un mese dopo uno dei poliziotti intervenuti a salvare Falcone, Nino Agostino, fu ucciso a pistolettate assieme alla moglie sull’uscio di casa, di fronte al padre, che disse di aver visto tra gli assassini un uomo dal volto completamente deformato. Ma al di là dell’uomo deformato, che poteva essere una coincidenza, è interessante notare che pochi mesi dopo anche l’altro poliziotto (quello che era pure agente segreto), Emanuele Piazza, fu strangolato e, dopo pochi minuti, un altro poliziotto ancora entrò in casa sua e fece sparire dei documenti. Questo collega, il cui nome è Guido Paolilli, era formalmente in servizio a Pescara, ma da anni si recava in missione sotto copertura in Sicilia, agli ordini di un uomo anche lui del Sisde, il cui nome in codice era “Catullo”. Questi fatti sono tutto un programma, naturalmente, e sono tutti tratti da atti giudiziari. Questo dirigente, Catullo, sapeva quindi che l’omicidio avrebbe avuto luogo, ed era interessato a far sparire dei documenti dalla casa della vittima, che aveva sventato l’attentato dell’Addaura contro Falcone.
Quando Caselli arrivò a Palermo, se è vero che i Ros trattavano alle sue spalle con quelli che lui credeva di combattere, e si facevano beffe di lui, è pur vero che alle sue dipendenze c’era appunto anche la polizia che, grazie soprattutto all’opera del capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, promosso a capo della squadra speciale “Falcone-Borsellino” dopo le stragi, aveva incanalato su una pista di ferro l’indagine sulla strage di via d’Amelio. Secondo quanto La Barbera raccontò a Caselli dopo il suo arrivo, l’auto esplosa nell’attentato era stata rubata, e i telefoni del proprietario che aveva denunciato il furto erano stati messi sotto controllo. Ne era emersa una brutta storia di stupro, così il tizio venne interrogato e, messo alle strette, confessò di aver ceduto l’auto a un potente boss diciottenne del quartiere della Guadagna di Palermo, tale Vincenzo Scarantino, che avrebbe dovuto servirsene per l’attentato. Scarantino venne arrestato e, dopo pochi mesi, il suo vicino di cella si presentò spontaneamente a testimoniare che l’indagato gli aveva confidato di aver compiuto l’attentato con sei complici, di cui gli aveva fatto persino i nomi.
Certo, avrà detto La Barbera a Caselli, è increscioso che, in occasione dell’arresto di Scarantino, l’intero quartiere della Guadagna sia sceso in strada a protestare, e che ai balconi siano comparsi striscioni con scritto “Enzuccio libero”, con gente che gridava ai giornalisti che Enzuccio era un povero cristo di ventisette anni e che non sarebbe mai stato accettato dentro Cosa Nostra, né tantomeno scelto per l’attentato a Borsellino. “La solita omertà, che schifo”, avrà pensato Caselli, come ebbe a dimostrare in occasione del terzo anniversario della strage, quando, mentre il quartiere scendeva in strada per l’ennesima volta, dopo anni, per la liberazione del ragazzo, una deputata di Forza Italia si fece portavoce (per suoi ovvi propositi strumentali contro la procura) della denuncia pubblica di sua madre. La donna, che aveva sempre proclamato l’innocenza del figlio ma non era mai stata ascoltata o presa sul serio da nessuno, accusò La Barbera, che nel frattempo era stato promosso a questore di Palermo, di aver seviziato e torturato in carcere il figlio per mesi, al fine di estorcergli una falsa confessione e false accuse verso falsi complici.
La reazione di Caselli fu immediata: il 28 luglio 1995 convocò una conferenza stampa congiunta con il prefetto Achille Serra e il questore La Barbera, dove definì le dichiarazioni della madre di Scarantino “inquinate e inquinanti”, parte di un disegno mafioso di attacco e delegittimazione dell’azione della procura di Caltanissetta (che indagava su via d’Amelio) e del questore di Palermo, “sulla cui eccellente professionalità non può sussistere dubbio alcuno” – così si espresse Caselli. Scarantino, che dopo essersi autodenunciato e aver denunciato i suoi presunti complici era stato trasferito dal carcere a una località segreta (gli uomini da lui accusati erano stati condannati tutti all’ergastolo), venne nei giorni successivi riportato in carcere. Presso la procura di Caltanissetta, invece, nonostante l’insieme del personale ritenesse la vicenda conclusa e aspettasse con ansia la conferma della sentenza, due pubblici ministeri – uno dei quali era Ilda Boccassini, che di lì a poco sarebbe stata trasferita a Milano – firmarono un documento in cui si invitava la procura a rimettere in questione “l’attendibilità generale del collaboratore Scarantino” sulle cui dichiarazioni pesavano ormai troppi dubbi. Caselli reagì con grande disappunto alla presa di posizione della Boccassini e del suo collega.
Non appena, nel 1998, iniziò il processo d’appello, Scarantino chiese la parola e ritrattò tutto, dicendo di essersi inventato ogni cosa. Poco dopo, sempre più provato e sconvolto, ritrattò la ritrattazione, e nuovi pm giunti a Caltanissetta, rilevando vistose anomalie nelle indagini (ad esempio la presenza di correzioni a penna, vergate con mano femminile, a latere delle dichiarazioni del “pentito”), aprirono un’inchiesta apposita per vederci chiaro. Il tutto ottenne più luce in seguito alle dichiarazioni del boss Spatuzza nel 2008, che rivelò di essere stato lui stesso, con altre persone, a preparare e compiere l’attentato contro Borsellino, scagionando tanto Scarantino quanto i presunti complici. Scarantino, un uomo ormai distrutto, fu comunque condannato per calunnia a causa di questo, nonostante la madre abbia continuato in tutti questi anni a insistere riguardo al fatto che l’allora ispettore La Barbera gli aveva estorto ogni confessione o accusa sotto tortura, come provato anche da un documento inedito, venuto alla luce soltanto tre mesi fa, nel settembre del 2013.
Si tratta di un servizio mandato in onda da Studio Aperto nel 1995, in cui Scarantino stesso parla al telefono dalla località segreta, in cui si trovava, con il giornalista, che lui stesso aveva contattato tramite sua madre. Nell’audio del servizio si sente la voce del ragazzo raccontare di essere stato torturato nel carcere di Pianosa dagli uomini del “dottor La Barbera”, che gli avevano fatto “urinare sangue”. Tra le torture denunciate dall’uomo e dalla madre figurano anche misteriose iniezioni che ne avevano menomato il fisico, oltre alle percosse, al divieto di dormire, ai getti d’acqua ghiacciata nel sonno e alla minaccia d’iniezione del virus dell’HIV. Fu dopo alcuni mesi di questo trattamento (simile a quello riservato al suo vicino di cella, si scoprirà, per imporgli di anticipare la confessione di Scarantino) che l’indagato si arrese e fornì la falsa confessione. Nel servizio Scarantino dice di avere detto “tutte bugie” e di essere sicuro che, dopo questa intervista, verrà riportato in carcere e verrà nuovamente torturato, ma che ormai “non gli importa più niente”; in effetti, come detto, verrà riportato in carcere poche ore dopo; giusto il tempo per la polizia, su ordine della procura di Caltanissetta, di fare irruzione negli studi di Studio Aperto e sequestrare ogni copia (persino su server) del servizio e della telefonata, facendo sparire tutto per tredici anni, ossia fino a tre mesi fa, quando un esemplare salvato da qualche dipendente irrispettoso degli ordini della polizia (e della procura) è ricomparso sul sito del quotidiano La Repubblica.
Mano male che ogni tanto qualcuno che non rispetta la legge c’è… (Altrimenti, caro Caselli, come farebbe a emergere, almeno ogni tanto, un po’ di verità storica?). Naturalmente non ci risulta che l’eroico e lindo magistrato torinese, che ha pubblicamente difeso a spada tratta il torturatore e depistatore La Barbera (che, si scoprirà poi, doveva probabilmente coprire collusioni istituzionali nell’attentato) in più occasioni in quegli anni, e ha pubblicamente sbugiardato e insultato la madre di Scarantino, abbia mai chiesto pubblicamente scusa: molto più comodo scommettere sull’ignoranza dell’opinione pubblica, che però non potrà durare in eterno. La Barbera verrà trasferito all’Ucigos nel 1999, proprio negli uffici che erano stati vent’anni prima del Dottor De Tormentis Nicola Ciocia (cfr. puntata precedente), in cui, in qualità di torturatore, si sarà trovato a suo completo agio.
Sempre in veste di direttore dell’Ucigos sarà a Genova, di fronte alla scuola Diaz, il 21 luglio 2001, durante l’irruzione di centinaia di poliziotti contro chi vi dormiva dopo aver manifestato per tre giorni contro il G8 di Berlusconi, cui seguì il pestaggio che scandalizzò il mondo intero e, nuovamente, due giorni di torture sistematiche nella caserma dei carabinieri di Bolzaneto per decine di manifestanti e giornalisti italiani e stranieri (giornate cui seguì il plauso pubblico alle forze dell’ordine dell’ormai senatore Ds Luciano Violante, di Caselli stimato ex collega; cfr. puntata precedente). Naturalmente Caselli non ha mai pensato di ritrattare, neanche in quelle occasioni, le dichiarazioni di stima per il suo amico poliziotto, “la cui eccellente professionalità – ricordiamo le sue parole – non può essere messa in discussione”.
L’eccellente professionista verrà in effetti promosso, dopo le prodezze del G8, al coordinamento nazionale tra i servizi segreti, ma morirà di tumore nel 2002: un anno dopo la mattanza della Diaz e otto anni prima che, nel 2010, la procura di Caltanissetta (che ancora indaga, con rinnovato personale, sui depistaggi di via d’Amelio) acquisisse alcuni vecchi fascicoli riservati, dove è documentata l’appartenenza di La Barbera al Sisde tra fine anni Ottanta e inizio anni Novanta, quando era in Sicilia. Anni in cui – è interessante – “indagò” anche sul misterioso strangolamento del poliziotto/agente segreto Emanuele Piazza cui abbiamo accennato all’inizio (quello che aveva salvato Falcone all’Addaura con il collega Agostino, ucciso pure lui); e, manco a dirlo, incanalò il delitto su una pista passionale, nonostante la strana coincidenza per cui proprio un agente del Sisde (“Catullo”), avesse ordinato di far sparire alcuni documenti dall’abitazione della vittima subito dopo l’omicidio.
A quel tempo, nel 1989, Caselli nulla sapeva, naturalmente; era ancora al Csm, dove, come detto, perorava proprio la causa di Falcone, ma senza potersi aspettare che, soltanto quattro anni dopo, nel ’93, tra un pranzo con gli interlocutori di Provenzano e un caffè con il depistatore di via d’Amelio, avrebbe anche collaborato gomito a gomito con il misterioso Catullo, visto che la parte più succosa delle carte emerse nel 2010 documenta proprio che, ohibò, La Barbera e Catullo altri non erano che la stessa persona, solo sdoppiata nelle funzioni di poliziotto che copre le trame dell’agente segreto e di agente segreto che attua le trame grazie alla copertura del poliziotto, cioè di sé stesso.
Storie di sbirri, è il caso di dirlo: una volta che le sai, ti accorgi di averle sempre sapute. Chissà però alla fine cosa ne avrà pensato il povero Caselli, che in quel 2010 era già impegnato anima e corpo, a Torino, contro i pericolosi fenomeni delle proteste dell’Onda Anomala e dei No Tav (come vedremo nella prossima puntata). Avrà capito, stavolta, chi era Stato? Non lo vogliamo neanche sapere. Preferiamo ricordarlo così, noi, il procuratore: con a fianco il capo del suo braccio armato in divisa blu, nel 1995, in conferenza stampa, mentre ne tesse le lodi e insulta la popolazione di un intero quartiere di Palermo e la madre di un ragazzo innocente, che lo stato ha rovinato per depistare i suoi stessi misfatti, mentre “l’eccellente professionista” se la ride sotto i baffi proprio accanto a lui, pensando a quante cavolo ne ha combinate, a quante diamine ne combinerà ancora o magari, più semplicemente: “Marò! Quanto è fesso il procuratore…”.
To be continued
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La notte del procuratore (1) – Gli anni Settanta
intro: Quel che è Stato è Stato
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