La notte del Procuratore (4)
Piccola controbiografia di Giancarlo Caselli
Logoramento e sconfitta di un magistrato
La sconfitta di Giancarlo Caselli inizia il 26 gennaio 2012. Su ordine del procuratore ventisei persone vengono arrestate in valle, a Torino e nel resto d’Italia per la resistenza alla polizia nelle giornate del giugno e del luglio 2011, quando era stata invasa la Libera Repubblica della Maddalena. Di fronte alla certezza del procuratore che almeno questi arresti (soppesati ad arte nei nomi e nei cognomi, nelle appartenenze e nei luoghi) avrebbero spaccato il movimento, decine di migliaia di persone – giovani e anziani, operai e piccoli imprenditori, famiglie e amministratori, nuovi ribelli e ferventi cattolici – marciano per la liberazione degli arrestati tra gennaio e febbraio, e il mattino stesso i portavoce del movimento dichiarano: “Non hanno capito niente: se c’è una cosa che avevamo messo in conto fin dall’inizio, era la galera”. Una signora dice in TV, alla grande manifestazione del 27 febbraio: “A me Caselli è sempre piaciuto, sa? Purtroppo ora siamo su fronti diversi, da due parti diverse della barricata”. Persino il monolitico giudice Caselli è riuscito a essere, con l’imprudente retorica sui “diritti”, quindi, un po’ apprendista stregone. Nel sentimento del nuovo attacco, in ogni caso, e dell’invasione, la valle ritrova le sue origini fiere e partigiane e, anziché reagire con paura, alza il tiro della sfida.
Il sostegno, inoltre, è forte in tutta Italia: il procuratore, che presenta incautamente, in quei giorni, un libro dove lamenta le persecuzioni subite da Berlusconi, troppo convinto della sua intoccabilità simbolica e mitologica, si trova ad essere contestato ovunque faccia un’apparizione in Italia. A fine febbraio la polizia manda in coma un altro No Tav, Luca, e per una settimana la Val Susa è attraversata dalla rivolta. Oltre la metà degli italiani dichiara nei sondaggi di simpatizzare per i No Tav. Il procuratore è psicologicamente ferito, anche a Palermo ci sono scritte sui muri contro di lui; dirà, in seguito, di esserne rimasto colpito. Ha ancora dalla sua i giornali di sinistra e anche di destra (quando il nemico sono i movimenti, politica e magistratura tornano a fare quadrato), l’esercito e la polizia, gli imprenditori corrotti contro cui tuona nelle sue filippiche “contro le mafie” e l’apparato ideologico dell’antimafia di stato; le procure di tutta Italia, i parlamentari di centrosinistra e centrodestra, il governo Monti, che proclama alla nazione che il Tav si farà a qualsiasi costo, e poi il governo Letta, che promulga inasprimenti legislativi ad hoc contro chi protesta attorno al cantiere. Anche la magistratura giudicante del tribunale di Torino chiude un occhio di fronte alle sue forzature giudiziarie: ai giudici non spetta ora trovare assoluzioni contro imputati eccellenti, ma dispensare carcere preventivo o condanne contro chi ha scelto di resistere senza guardare in faccia a nessuno.
Il procuratore sa che il movimento, debole “militarmente” – non può che permettersi la disobbedienza civile nei boschi, le barricate sull’autostrada o il sabotaggio delle recinzioni e dei macchinari – politicamente è più forte di lui. In più occasioni tenta quindi di delegittimarlo con l’insinuazione e l’insulto: dice, toccando l’apice della sua ipocrisia, che la logica di attacco alla magistratura dei No Tav è “squisitamente” e “perfettamente” berlusconiana. Sa che il deserto culturale della sinistra è, da anni, riempito soltanto dall’azione giudiziaria contro l’ex presidente del consiglio; sa che il conflitto tra una certa politica e la magistratura, di cui egli stesso è stato agnello sacrificale, è stata l’unica contrapposizione che sia stata raccontata dai mass media negli ultimi vent’anni. Prova a usare il vecchio trucco che il Pci, il partito cui si sentì vicino alle origini, aveva sempre usato contro i dissidenti interni o esterni: accusare chi dissente dal vertice, chi ha idee diverse dalla “linea ufficiale”, chi disturba il manovratore, di essere in combutta con il nemico, di essere “oggettivamente” o “soggettivamente” colluso con il peggio del peggio. È la forma repellente di sterilizzazione intellettuale, e giustificazione della persecuzione politica, inventata dai seguaci di Stalin negli anni Trenta, prima in URSS, poi nel mondo: chi dissente dal grande capo è un fascista, questa la sostanza; e nella rivisitazione caselliana, da operetta (ma che la dice lunga sulla sua forma mentis), il grande capo sarebbe la “magistratura costituzionale”, unico (e fittizio) strumento di “giustizia” nell’Italia berlusconiana.
Le accuse di Caselli non impressionano però il movimento (che anzi è sconvolto da tanta disonestà intellettuale), né gli tolgono sempre maggiori simpatie, al punto che il primo maggio 2012 centinaia di persone assaltano il comune a Torino, ammainano la bandiera italiana e la sostituiscono con quella No Tav, poi cercano di sostituire ai ritratti dei Marò in India (!) gigantografie dei No Tav in carcere. Scoppiano scontri, due ragazzi ne escono con entrambe le braccia spaccate dalla polizia. Di fronte a tanta solidarietà per gli arrestati, che riescono anche a organizzare in prigione proteste dei detenuti, Caselli – ormai in conferenza stampa un giorno sì e l’altro pure – tenta l’ennesima strategia retorica: accusare il movimento di incoerenza, proprio sul tema della legge. Come si può invocare la legge contro la polizia o contro le aziende del Tav, e poi contrastarla quando reati commessi nelle proteste vengono perseguiti? “Se c’è un reato – finge di giustificarsi, contrito – io non posso voltarmi dall’altra parte”.
Se con l’accusa di “berlusconismo” era emersa la mediocrità intellettuale di Caselli, da quest’altra traluce un elemento che abbiamo già riscontrato nelle puntate precedenti: il suo fanatismo. Chi mai, infatti, potrebbe pensare che un movimento sociale sovrapponga la legalità alla legittimità, o anteponga il rispetto delle regole esistenti al desiderio di libertà e giustizia? Che cosa sarebbe il mondo se i movimenti, nelle diverse epoche e nei diversi luoghi, avessero rispettato le leggi dei loro stati? Nulla esisterebbe, nemmeno gli stati che esistono oggi, e neanche la costituzione cui tanto tiene Caselli; ma per il procuratore, si sa, la storia si ferma al 1948 e, quel che è più buffo, soltanto perché lo dice lui.
Caselli non si rende conto che in valle ben pochi hanno giurato fedeltà allo stato o alla costituzione, ed se con qualcosa la legge è ormai prevalentemente identificata, è la distruzione di quello che prima del 2011 era un meraviglioso spicchio della Val Clarea. Non per questo la valle ha dimenticato le lotte del passato, i conflitti dei partigiani e degli operai, che hanno permesso talvolta anche la conquista di piccole “garanzie giuridiche” o “diritti” (sul lavoro, nella tutela del territorio, persino nella limitazione dell’arbitrio della polizia e dei giudici) cui gran parte delle persone contrarie all’alta velocità non intendono affatto disfarsi o non avvalersi, concependo intelligentemente il diritto stesso come un campo di battaglia, uno spazio attraversato dagli effetti di forze in campo che sono entrate in conflitto ieri come oggi. Forze che, ieri come oggi, hanno potuto ottenere dei risultati, quando ne hanno ottenuti, perché erano libere da ogni malintesa fedeltà agli apparati creati nel tempo per limitare i desideri di resistenza e liberazione.
Soprattutto – e forse questo è un discorso più terra terra, che anche un uomo di toga può capire – il movimento ha voluto, con le sue denuncie di irregolarità anche giuridiche fare con Caselli ciò che ha fatto, in altre forme, con l’apparato militare posto a difesa del cantiere: logorarlo, politicamente e interiormente, dimostrando la sua ipocrisia e la sua incoerenza, celate soltanto dall’opera di propaganda che gli ha riservato un’infinita accolita di leccapiedi. Le sue affermazioni circa il suo “dovere”, come procuratore, di sanzionare l’illegalità “da ovunque provenga” suscita d’altra parte grande ilarità in Val Susa, se non altro perché i pm agli ordini di Caselli hanno piegato, in due anni, il diritto ad ogni sorta di abuso logico e procedurale per perseguire i No Tav. Hanno teorizzato il “concorso morale” nella resistenza a pubblico ufficiale per chiunque si trovi in un’area interessata da disordini, scardinando il principio costituzionale del carattere personale della responsabilità penale. Hanno dilatato oltre ogni immaginazione la supposizione delle intenzioni come prova, imbastendo persino un grottesco processo (alle intenzioni, appunto) a una manifestante arrestata con garze nello zaino (di professione è infermiera), con la tesi che il possesso di garze è chiaro indizio dell’intento di ferire qualcuno.
Non è un caso che simili abusi di giurisprudenza abbiano stimolato anche l’intervento scandalizzato, contro Caselli, del suo ex amico, e magistrato emerito, Livio Pepino, che ha scritto, oltre a diverse lettere ai giornali, un saggio di giurisprudenza contro questi abusi, contenuto nel libro Non solo un treno…, scritto a quattro mani con Marco Revelli. Del resto, a dimostrazione che i reati vanno perseguiti “da chiunque siano commessi”, quando il movimento ha lanciato, nel 2012, l’operazione “Hunter” contro gli abusi della polizia, sfidando la procura con un esposto dove giacciono prove filmate di reati delle forze dell’ordine e dell’identità di chi li ha commessi, Caselli ha fatto spallucce e ha archiviato il caso. E quando una cinquantina di No Tav ha occupato gli uffici di una delle ditte del Consorzio Valsusa, la Geovalsusa (di Giuseppe Accattino, altro personaggio con un passato giudiziario tutt’altro che vergine) denunciando ancora una volta l’infinita serie di opacità anche legali delle aziende impegnate nel cantiere (assenza di gare d’appalto, continue bancarotte e mutamenti di nome delle aziende, costi gonfiati a danno dell’erario pubblico), la procura è intervenuta con solerzia: ha denunciato diciassette partecipanti alla manifestazione e ne ha fatti arrestare sette (anzi sei, perché uno sfuggì all’arresto).
Tutte le indagini sugli incendi dolosi ai danni dei presidi No Tav in valle sono state archiviate in tempi strettissimi dalla procura. Quando una No Tav molestata sessualmente da poliziotti durante l’arresto, nel 2013, ha sporto denuncia, sfidando ancora la procura, i pm di Caselli se ne sono andati senza interrogarla. Il tribunale di Torino, in compenso, è ormai completamente ingolfato da centinaia di udienze per processi con centinaia di imputati No Tav per accuse che vanno dal terrorismo alle minacce, dall’interruzione di pubblico servizio alla resistenza a pubblico ufficiale, dal procurato allarme (per i tecnici che hanno denunciato pericoli e irregolarità nel cantiere) fino allo “stalking” (per i No Tav accusati di aver “molestato”, tramite siti web o volantinaggi, le forze di polizia o gli operai del cantiere rinfacciando loro per chi lavorano) e a un articolo di legge concepito dal governo Berlusconi (in teoria) contro Al-Qaida, che viene usato ora contro chi (ancora in questo momento in carcere) è accusato di aver usato strumenti pirotecnici in prossimità del cantiere.
Centinaia di cause giacenti da tempo presso il tribunale sono rinviate pur di liberare aule per i processi contro sindaci, consiglieri comunali, barbieri, operai, mistici della montagna, studenti, disoccupati, insegnanti, ex comici, militanti, agricoltori, tutti accusati di aver commesso reati per la causa No Tav. Per una semplice accusa di resistenza a pubblico ufficiale c’è chi è rimasto in carcere fino a un anno. I feriti del movimento, in due anni di occupazione militare, sono stati migliaia, anche gravissimi. Luca si è parzialmente rimesso dopo oltre un anno. Diverse persone hanno subito fratture scomposte, anche facciali, che non guariranno mai completamente; un ragazzo ha perso un occhio, un altro, di quindici anni, ha lottato ventiquattr’ore tra la vita e la morte e, pur salvandosi, ha compromesso per sempre il suo udito. In un video girato per il movimento nella sua casa di Salbertrand, ancora con il volto deformato dalla granata lacrimogena che l’ha colpito mentre partecipava a un assedio al cantiere, dice: “Lo rifarei”.
Nel frattempo, proprio nei giorni estivi del 2013, in cui Caselli lanciava l’allarme per il carattere “mafioso” (!) dei sabotaggi contro le aziende del Tav, o in cui lamentava la perdita di giurisdizione dello stato italiano sull’autostrada Torino-Bardonecchia, a causa dell’accorata denuncia di un camionista olandese ubriaco, il processo Minotauro, con cui Caselli ha voluto portare in luce la ‘Ndrangheta torinese (rigorosamente extra-valsusina) è giunto alla sentenza di primo grado. Ciò che è stato interessante, in occasione di quest’ultima, è stato – molto più dell’assoluzione di metà degli imputati – che Caselli abbia dichiarato, amareggiato, che per molte fattispecie non si è neanche potuto procedere, perché non costituiscono reato. Quali fattispecie? È presto detto: quelle riguardanti i molti politici locali che, dopo aver affidato appalti sospetti per ragioni più che evidenti, hanno dichiarato di non conoscere, all’epoca dei fatti, il pedigrì “criminale” di chi avevano favorito.
Un po’ come capitava, spesso con maggiore sincerità, a chi era finito in galera in passato per aver dormito con qualcuno che, in seguito, si era scoperto essere indagato per terrorismo; ma allora, chissà perché, per Caselli la fattispecie aveva costituito reato (cfr. prima puntata). Oppure come era capitato ad Andreotti, che negava di sapere che i boss con cui parlava fossero dei boss; ed infatti la corte palermitana ne decretò il favoreggiamento “di fatto” ma senza “intenzione”, proprio come farà Ingroia con i carabinieri dei Ros che non perquisirono la villa di Riina su ordine di Caselli (cfr. seconda puntata). L’intenzione di delinquere sarà invece ritenuta evidente, sempre dai pm di Caselli, contro la già citata infermiera Nina, per la quale, come abbiamo detto, un paio di garze nello zaino bastavano a dimostrare l’intenzione di ferire qualcuno.
Insomma, a 46 anni dall’inizio di carriera, quando iniziò contro il combattente della resistenza Lazagna nella convinzione che simili azioni avrebbero condotto l’Italia, grazie a gente come lui e a Violante, a un futuro di “giustizia” (cfr. prima puntata), Caselli ha ammesso nei fatti, a margine della sentenza Minotauro, che gli affari loschi, in valle come nel resto del Piemonte, si continueranno a fare; ma a patto che si sia imprenditori, speculatori e devastatori, e non infermiere, valligiani, sovversivi. Così, lui che aveva iniziato la sua carriera con l’arresto di un partigiano, l’ha conclusa in coppia con Angelino Alfano. Se le immagini-ricordo di Caselli in Sicilia, infatti, lo ritraggono a pranzo con le star della “Trattativa Stato-Mafia” e del depistaggio sulla morte di Peppino Impastato, o con il torturatore, depistatore e futuro macellaio della scuola Diaz, l’impareggiabile agente Catullo, l’immagine chiave di Caselli a Torino è quella del maggio 2013, al fianco del guardasigilli del Cavaliere, autore delle leggi ad personam di Berlusconi, prossimo asse portante del Nuovo Centrodestra, mentre chiede, in coro con il pupillo di Arcore, nuove e più dure misure contro i No Tav.
Se, alla fine della sua vita, il suo amico Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva dichiarato in Sicilia che, dopo tutti gli ammazzamenti di detenuti e sovversivi in cui si era prodigato, lo stato lo aveva lasciato solo, il destino di Caselli è stato l’opposto: trovarsi, alla fine come all’inizio, circondato da un po’ troppa merda.
Infine…
… stanco e affranto, forse consigliato da un medico, forse da qualcun altro (vedremo cosa gli riserverà il futuro) Caselli “lascia”, in anticipo rispetto ai suoi originari progetti. Lascia prima magistratura democratica, turbato da uno scritto di Erri De Luca (sostenitore dei No Tav e delle loro forme di lotta anche illegali, come il sabotaggio) comparso sull’agenda 2014 dell’associazione, dove emerge una lettura degli anni Settanta troppo “aperta” per i gusti del procuratore. Ciò che “preoccupa” il procuratore non è, d’altra parte, De Luca in sé, ma tutti questi intellettuali, scrittori et similia che “non prendono le distanze”, che “strizzano l’occhio” all’illegalità, coltivano “ambiguità”. Anche se la sua attività di giudice ha prodotto tante sofferenze, molto spesso in persone innocenti o in persone giuste e ammirevoli, in epoche e luoghi diversi tra loro, dobbiamo insomma essere contenti che egli abbia abbandonato nel ‘67, per entrare in magistratura, la ricerca universitaria: può esistere infatti qualcosa di più dannoso, nella sfera del pensiero, dell’idea che le idee di pensatori o scrittori debbano essere dettate dal rispetto della legge, ovvero che il mondo intellettuale debba farsi consigliare o imporre cosa dire e cosa pensare dalle procure della repubblica?
Difficile immaginare qualcosa di peggio, eppure – se guardiamo alla stragrande maggioranza dei giornalisti, degli scrittori e degli editori italiani, gli auspici di Caselli, e di tanti come lui, ottengono in realtà grande seguito. La sottomissione alla legge resterà sempre la stella polare di ogni conformista, ed è sul conformismo che si fonda ciò che la legge spaccia per “consenso” alla propria azione repressiva. Anche per questo non intendiamo affermare, con questa piccola controbiografia, che la vicenda professionale di questo magistrato sia stata eccezionale, speciale, che in essa vi siano più o meno misteri o palesi crimini e contraddizioni, più o meno zone nere o grigie che in ogni altro essere umano che intenda alienare da sé la propria libertà e la propria intelligenza per servire, come una macchina o un automa, una legge superiore, un ordine, un insieme di poteri e intrecci che lo trascendono. Né bisogna stupirsi, quindi, se al fanatismo faccia pendant, sovente, una sorta di dissociazione mentale, se ancora recentemente Caselli ha detto che, nel difficile periodo contro i No Tav, ciò che gli ha dato maggior sollievo è stato il ricevimento di solidarietà del capo dello stato, che gli ha testimoniato il suo l’appoggio contro i nuovi sovversivi delle alpi nell’intermezzo tra una telefonata losca sulla “Trattativa” e le minacce a qualche giudice perché facesse sparire le precedenti.
Oggi tutti si chiedono cosa abbia condotto il procuratore ad anticipare il grande passo, ad abbandonare all’improvviso l’incarico cui tanto teneva. Potrebbe essere stato l’emergere sempre più chiaro proprio di quei segreti di stato degli anni Novanta, con le rivelazioni sulla trattativa effettuata quando lui era a Palermo; o le verità che emergono sugli apparati che anche lui ha diretto tanti anni fa, come la sentenza del 2013 che ha sancito l’uso sistematico della tortura da parte della polizia politica negli anni Settanta e Ottanta. Potrebbe anche esser stato il volto provato ma dignitoso di Enrico Triaca, il signore romano che dopo tanti anni di carcere ha vinto la sua battaglia ed ha dimostrato che quelle torture sono esistite, aprendo la strada a verità che continueranno a venire in luce, ristabilendo la verità storica che lo stato italiano, su questa come su altre cose, si è premurato di nascondere e negare.
Oppure potrebbe esser stata la rivelazione dell’identità del suo amico La Barbera come agente Catullo, coinvolto nella torbida storia dell’attentato contro Falcone all’Addaura e nel depistaggio su via d’Amelio; o ancora il ritrovamento della registrazione, tre mesi prima delle sue dimissioni, delle parole di Scarantino registrate quel 27 luglio 1995, il giorno prima che lui si scagliasse pubblicamente contro la madre per difendere il torturatore del ragazzo, che gli stava al fianco. Forse, semplicemente, la consapevolezza del fatto di non aver mai avuto il coraggio di parlare pubblicamente di tutti questi fatti, retroscena ed episodi, anzi di essersi sempre schermito evitando simili argomenti, persino nelle ultime interviste, nei giorni del pensionamento. Forse è stato il caso Ligresti-Cancellieri, in cui ancora una volta ha mostrato per i potenti meno ostilità che verso le loro vittime? O forse è stata proprio la decisiva consapevolezza del ruolo sporco che ha svolto nella vicenda del Tav, il cui carattere marcescente è stato sugellato (se ce ne fosse stato bisogno) dalla decisione dei governi di Francia e Italia, poche settimane fa, di regolare con legge francese le gare d’appalto per la Torino-Lione, in modo da escludere il reato di associazione mafiosa, che non esiste in Francia?
O forse sono stati semplicemente i sorrisi dei No Tav, che continuano a entrare e uscire dalla prigione ridendo e stappando spumante, e scrivono lettere dalla detenzione in cui dicono: “Non potete arrestare il vento, gli fate solo perdere tempo”. Non lo sappiamo. Non possiamo saperlo; e chiederselo non ha senso poiché, come scrisse Franz Kafka: “Qualunque impressione egli faccia su di noi, è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano”.
The End
Puntate precedenti:
La notte del procuratore (1) Parte Prima: Gli anni Settanta
La notte del procuratore (2) Parte Seconda: La Sicilia
La notte del Procuratore (3) Parte Terza: Il ritorno a Torino
intro: Quel che è Stato è Stato
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