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La Primavera fredda delle Università

Lunedì 21 la Conferenza dei Rettori (CRUI), ha convocato, da Milano a Palermo, una giornata di dibattito e discussione attorno sul futuro del sistema universitaro sotto il brand comune di Primavera dell’università. Tema unificante è stato la denuncia dello stato di strutturale sottofinanziamento del sistema ribadendo come invece questo rappresenti una risorsa strategica: “La conoscenza libera il futuro del paese”, recitava lo slogan della CRUI.

Cosa ha rappresentato questo passaggio?

Un approfondimento in tre parti:

Antefatto: il sabotaggio della VQR

E’ primavera ma fuori fa freddo: la giornata del 21 marzo

Un uso capitalistico delle università e i suoi punti di frattura

 

L’antefatto: il sabotaggio della VQR

Innanzitutto va evidenziato un dato rimosso: l’iniziativa della CRUI sorge come risposta politica al terremoto interno all’istituzione accademica e al suo rapporto con il Ministero prodotto dalla protesta del corpo docente sulla Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR). Ricostruiamo i fatti. In grossi numeri gli accademici, dai ricercatori agli ordinari, hanno promosso l’astensione dai meccanismi triennali di valutazione sulla base dei quale la parte premiale del fondo di finanziamento ordinario viene ripartito tra gli atenei e i dipartimenti meritevoli. Quest’anno sarebbe stato preso in esame il triennio 2011-2014 con il “caricamento”, da parte dei docenti, su software appositi dei due “prodotti” migliori di ricerca che, calcolati su discutibili indicatori bibliometrici e di peer-review, avrebbero definito la media della qualità della produzione di ogni dipartimento, poi dell’ateneo, classificando infine questo nella caccia alle risorse. Una corsa al massacro certificata dall’ANVUR, l’agenzia di valutazione della ricerca del Ministero.

Lo scontro si è acuito fino a produrre alcuni rinvii per la consegna dei “prodotti”. Nel frattempo rappresaglie interne agli atenei hanno portato a minacce rivolte ai protestatari da parte di Rettori furiosi e direttori di dipartimento sull’orlo di più di una crisi di nervi; in diversi casi i vertici dell’ateneo hanno proceduto al prelievo forzoso dei dati utili alla VQR, calpestando la protesta per paura che dilagasse. “Volevamo portare avanti una protesta che arrivasse al Ministero. Uno sciopero non sarebbe arrivato alle orecchie di nessuno”, ha dichiarato una docente del dipartimento di Chimica dell’Università di Pisa, uno dei fronti più caldi di astensione dalla VQR in tutta Italia. E alle orecchie del Ministero più di qualcosa sembra essere arrivato. Alla scadenza della consegna dei prodotti, lunedì 14 marzo, il progetto di monitaraggio ministeriale ha presentato più di una falla. Sebbene i vertici dell’ANVUR sbandierassero una buona adesione alle procedure di VQR in realtà i dati reali hanno segnalato il fallimento dell’operazione. I prodotti conferiti sono stati il 92% di quelli attesi, contro il 95% della VQR 2004-2010, con ben 32 sedi al di sotto della media e tre atenei in cui l’astensione ha coinvolto più del 20% del corpo docente: Salento (29,3%), Napoli Parthenope (26,3%) e Pisa (23%). Il risultato è una fotografia non fedele dello stato della ricerca in Italia, con dati a macchia di leopardo, e dunque un quadro non affidabile sul quale procedere a una ripartizione delle risorse. Un caso su tutti è quelli pisano dove, a seguito della protesta, l’Ateneo si vedrebbe precipato dal vertice al fondo delle classifiche per la corsa ai fondi.

Roars, un portale on-line che ha rappresentato uno dei megafoni principali del dissenso sulla VQR, nella serata di lunedì 14 così commentava: “Contro tutto e contro tutti, la protesta #stopVQR non si è sciolta ed è riuscita a mantenere dimensioni tali da mettere in discussione l’esercizio di valutazione. Per mascherare l’impasse, l’ANVUR gioca d’anticipo e canta vittoria, fingendo che sia stato una specie di sereno referendum sulle sue procedure di valutazione, ma quello che abbiamo visto assomigliava di più alle finzioni elettorali degli stati di polizia, dove se non vai a votare il candidato unico sai che finirai nel libro nero. L’istantanea della ricerca di cui parla il comunicato ANVUR nasce già sfocata ed è una foto di classe che lascia fuori campo un bel pezzo di Pisa. Punire l’ateneo pisano per scarsa obbedienza è utile per il paese? E come si farà allora a giustificare l’uso della VQR per le future ripartizioni?

 

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E’ primavera ma fuori fa freddo: la giornata del 21 marzo

E’ stato così dunque che più di un campanello d’allarme è suonato per il Ministero. La CRUI è corsa ai ripari: non potendo ignorare il malessere, questo andava comunque simboleggiato all’esterno disinnescando però dall’interno la protesta. In questo modo, mentre in casa propria ergevano barricate contro l’astensione dalla VQR dei docenti, i Rettori riuniti nella CRUI hanno deciso di promuovere La Primavera dell’Università: una risposta alla protesta che ne rappresentasse alcune istanze – fondamentalmente la rivendicazione della strategicità dell’università come terreno di investimento e sviluppo capitalistico – neutralizzando però la politicità di una lotta che minava alcuni meccanismi strutturali dell’università riformata nella critica di un sistema meritocratico e definanziato. In altre parole: senza sabotaggio della VQR non ci sarebbe stata la Primavera dell’Università.

Essendo stata la protesta contro la VQR disomogenea sul territorio nazionale gli stessi caratteri della giornata del 21 marzo si sono presentati in maniera parecchio differenziata da Ateneo ad Ateneo. Lo spettro è ampio: da spazi di discussione reali, maturati su conflitti recenti ma capaci di sedimentare partecipazione e indicazioni future, a semplici teatrini di compatibilità istituzionale. Alcuni esempi:

A Cagliari un corteo di circa quattromila persone tra professori e studenti si è mosso dal Rettorato per raggiungere il municipio in via Roma. Un tragitto solenne da palazzo a palazzo in cui le istituzioni si sono strette attorno all’università cagliaritana e in sua difesa. Alla testa della marcia il sindacato studentesco a scortare Rettore e Sindaco. Al pomeriggio un’iniziativa al Rettorato ha ospitato l’intervento di Alberto Scanu, presidente di Confindustria Sardegna con all’attivo vari progetti di speculazione energetica, chiamato a parlare del rapporto tra l’Università e i privati. Nel principale ateneo sardo, come in molti altre sedi del meridione e delle isole, il tema della condanna degli atenei del sud attraverso i meccanismi premiali è stato messo al centro del dibattito. La preghiera unificante è quella di salvare le università come polo dell’integrazione tra tessuto sociale e produttivo. Una retorica sistemica che non solo ripete il mantra della stessa competitività che ha stroncato la chimerica dimensione universalistica della formazione universitaria, ma anche una retorica arretrata rispetto ai reali piani di investimento capitalistici nel quadro europeo. L’impresa italiota sembra capace solo di un uso straccione, rapace e circoscritto delle università del meridione nello sviluppo di alcune punte avanzate specifiche, non di un’integrazione organica. Eppure è la stessa ineusadibilità di questa preghiera che proietta in un vicolo cieco la rivendicazione per uno sviluppo dell’università nell’integrazione con l’impresa. Nell’impossibilità si impone la frattura e quindi rinnovate condizioni per altri discorsi, interessi ed istanze soppressi entro la cornice istituzionale come quelli riguardanti le aspirazioni e le aspettative di una soggettività giovanile spinta a un’emigrazione forzosa dal sud al nord.

A Pisa, dove lo scontro tra la protesta #StopVQR e i vertici dell’ateneo si era fatto più caldo portando alla sospensione dei fondi interni e dei piani di investimento da parte del Cda per rappresaglia contro la protesta, il rettore Augello ha disertato qualsiasi forum pubblico, limitandosi a convocare la stampa a porte chiuse. In mattinata presso il Polo Fibonacci si è tenuta un’assemblea promossa dai docenti più attivi nella protesta VQR. Presenti anche l’ex ministro Carrozza e altri esponenti parlamentari. Questi, incapaci di intendere la dimensione della critica e privi degli strumenti per fornire risposte adeguate, hanno quasi colpevolizzato l’astensione dalla VQR attirandosi lo sdegno della platea che sempre più, dopo lo scontro interno a UniPi, cerca nella sfera pubblica e anche fuori dal perimetro istituzionale interlocutori per un dibattito. Pur imbrigliata nell’idea della strategicità di un’economia della conoscenza che sconta l’incapacità di leggere, scambiandolo per errore, nel disinvestimento nell’università italiana un progetto di modernità capitalistica di spazio europeo di valorizzazione della produzione accademica, il volano della protestaa Pisa ha messo al centro il nodo delle risorse. Questo ha significato la tematizzazione delle possibilità di realizzazione soggettiva di chi attraversa le università. I limiti a questa realizzazione definiscono da subito una soggettività potenzialmente irrecuperabile perché si trova costretta a lottare e a scontrarsi per affermarsi. Ciò riguarda sia la parte studentesca, in cerca delle proprie forme di insubordinazione per guadagnare forza in un rapporto formativo analogamente svilente e alienante, sia il corpo docente: “le risorse per i miei progetti di ricerca le ho dovute reperire da me, cercandole tra i privati, che sono soggetti deboli e non affidabili” affermava un docente di ingegneria a cui faceva Eco la testimonianza di una professoressa dell’ex facoltà di lettere impegnata in progetti di internazionalizzazione: “per costruire le possibilità ai miei studenti ho dovuto da sola costruire i contatti con l’università di Aix-en-Provence, mettendoci i soldi di tasca mia per la benzina, per il soggiorno, senza alcun aiuto né materiale né nel lavoro. Non c’è un investimento ma non sopporto di bruciare le carriere di studenti brillanti che qui non avrebbero opportunità”.

Il nodo delle opportunità da guadagnare attaverso l’università riformata, pure a questi ritmi, a questi standard di competitività, pur pagando un prezzo alto in termini di sacrifici, davanti all’innalzamento ulteriore dei costi, materiali e soggettivi, rischia di ribaltarsi facilmente nella maturazione dei limiti della sopportabilità e nella critica di una dimensione alienata e omologata comunque non sufficiente all’aspirazione di una realizzazione remota. Questo è vero in misura esponenzialmente maggiore per il segmento studentesco. L’operazione rettorale della Primavera dell’Università, dove non scalfita da altri scontri su livelli medio-alti della gerarchia accademica come quello sulla VQR, rimanendo arroccata dentro il perimetro istituzionale, ha accentuato i caratteri di una macchina-università distruttrice di capacità e ricchezza per la più parte di coloro che l’attraversano. L’inaccessibilità di una dimensione realizzativa, cristallizzata in questa forma- istituzione, è ben esemplificata da quanto successo a l’Università la Sapienza di Roma e soprattutto all’Università di Torino. In entrambi i casi, per poter prendere parola in assemblee pubbliche alla presenza dei Rettori, gli studenti hanno dovuto sgomitare e a Torino addirittura fronteggiare la polizia. Il fatto, non scandalizzando più neanche le anime liberal di cui i nostri atenei sembravano affollati, rappresenta un indice concreto di come sarà necessariamente da uno scontro tra ruoli e gerarchie, tra progetti e interessi contrapposti che passerà una trasformazione dell’università nel verso dell’innovazione o nel verso della rottura. Per la dimensione irreversibile di un progetto di riforma che procede da un ventennio a questa parte anche una ipotesi di rinnovamento endogena, in uno scontro tra chi è interno alle gerarchie e ai rapporti di valorizzazione di questa università (come ancora si può dire sia stata la protesta #StopVQR), misurerà la propria capacità performativa su una disponibilità a mettere in crisi la forma-istituzione attuale dell’università con ruoli e gerarchie connesse.

 

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Un uso capitalistico dell’università e i suoi punti frattura

Quello che si può leggere nella Primavera dell’Università, come dato di superficie e unificante rispetto ad alcuni micro movimenti nel mondo universitario, è l’emersione di una rivendicazione su ipotesi differenti di modelli di innovazione capitalistica attraverso l’università. E’ questa l’istanza che la CRUI ha raccolto dal conflitto sulla VQR, sacrificandone le stratificazioni soggettive. In questione è in ultimo, per il momento e secondo lo spaccato del 21 marzo, la domanda seguente: quale uso capitalistico dell’università nel contesto italiano?

La costruzione del mercato europeo integrato della formazione – quella favola per cui hanno introdotto il 3+2 i crediti, corsi da 60 ore e analoghi strumenti assunti dall’intera “comunità accademica” come vettori per l’integrazione nell’innovazione – se può dirsi fallita come progetto europeista, ha comunque introdotto delle linee di valorizzazione che, pure se ad alto costo e basso rendimento, rappresentano le uniche risorse su cui investire per chi vive le università oggi. Queste linee si sono strutturate non su uno spazio omogeneo, dell’interscambio di una serena comunità cooperante nell’interesse universale della scienza, ma sulle gerarchie del mercato della crisi europea e delle sue differenti altezze. Non sorprende che in questo contesto l’Italia rappresenti un laboratorio ma non la punta più avanzata della valorizzazione per il capitale, che è anche il punto del comando e della codificazione della merce-sapere-lavoro in merce-sapere-prodotto. Il nodo è che delle forze soggettive e delle attività umane che concorrono al lavoro astratto nella formazione delle merce sapere è previsto – come in Italia – sacrificarne e distruggerne gran parte, mentre la parte restante per farsi lavoro concreto, prodotto, deve essere trasferita laddove stanno i punti più alti della valorizzazione, del comando, all’altezza dove si stratificano le gerarchie produttive e di mercato.

Formiamo le eccellenze e le vediamo realizzarsi in Francia. I miei colleghi francesi, alla Sorbona, mi dicono che il livello dei corsi è aumentato notevolmente da quando ci sono più studenti e ricercatori italiani. Con loro, dicono, si può trattare qualsiasi testo a qualsiasi livello di complessità. Ma sono sicura di una cosa; si parla tanto di cervelli in fuga, ma quelli che restano non è che non ce l’abbiano il cervello”. Così si esprimeva pochi giorni fa un’altra docente pisana dell’area umanistica. Come già si intuiva dal dibattito sul valore della ricerca che contrapponeva i ricercatori formati in Italia ma assunti e valorizzati all’estero (Olanda, Francia, Germania… ricordate la ricercatrice D’Alessandro in polemica con la Giannini?) ciò che salta all’occhio è l’assoluta compatibilità di questi percorsi di vita – fatti di emigrazione all’estero o di frustrazioni in Italia – con la tenuta di un’economia complessiva. La contraddizione sorge laddove la soggettività in cerca di valorizzazione non accetta più né i costi di quel percorso di vita né la sua direzione.

Ora, ciò che emerge nel dibattito del 21 marzo, e anche in quello di superficie della critica alla VQR, è la rivendicazione di un uso capitalistico dell’università come fossimo al punto più alto della valorizzazione della merce-sapere: “dalla conoscenza passa il futuro del paese”, dice la CRUI, “l’università ha un valore strategico per il paese”, dicono i prof della #StopVQR. La realtà è che questa rivendicazione, nel momento stesso in cui si impone, si consegna direttamente all’irrecuperabilità. La domanda di innovazione dell’università italiana al livello più alto della valorizzazione non è dialettizzabile perché gli indirizzi di investimento complessivo e le gerarchie di potere per il capitale sono contrarie a questa ipotesi, privilegiando un altro ordine, altre priorità. Ciò significa che questa composizione tecnica-per-il-capitale, con un ruolo intermedio nella riproduzione della macchina-università orientata alla forma-laboratorio per altri centri di comando e realizzazione della merce-sapere-prodotto, nella lotta per avanzare una sua propria ipotesi di sviluppo o mette in discussione la sua stessa riproduzione in quanto tale, in quanto segmento-tecnico-per-il-capitale, il suo ruolo dentro un indirizzo sistemico e istituzionale o è condannata all’impotenza.

Questi micromovimenti in università hanno certamente il carattere di lotte per l’innovazione (come potrebbe essere altrimenti?) eppure il punto limite di queste lotte – l’impossibilità dell’innovazione nel verso per cui si lotta – è talmente prossimo alla stessa nascita della rivendicazione da proiettarle subito davanti alla sfida di una ridiscussione delle relazioni vigenti, alla possibilità di essere lotte contro ruoli e gerarchie ruoli istituzionali che lavorano invece per un’ipotesi di innovazione distruttrice di capacità, competenze e ricchezza soggettiva. D’altra parte la stessa spinta a sollevare un problema, talvolta a ingaggiare uno scontro, sorge proprio sul punto di consumo di un processo di impoverimento che ha toccato anche strati medio alti della macchina-università così orientata. I caratteri di proletarietà tra il corpo docente si rintracciano nella perdita di autonomia e indipendenza: “la trama normativa è diventata opprimente nei confronti del lavoro di ricerca che invece ha bisogno di libertà”, così si esprime un antichista sempre di Pisa.

Attestarsi solo sul riguadagnare quella dimensione di libertà significa ovviamente rifugiarsi nella difesa del privilegio. Eppure c’è una continuità di questo carattere e di questa condizione tra differenti segmenti e livelli, omogeneizzati verso il basso negli anni recenti. Le scintille di mobilitazione tra gli studenti contro il nuovo calcolo ISEE nelle università in autunno, e probabilmente nuovamente ora con l’innalzamento delle tasse, cos’altro hanno segnalato se non la dimensione della perdita di senso della propria attività a questi costi, davanti a questa truffa? Dal “chi me lo fa fare” al “non lo posso tollerare”. Lo studente, non più rappresentabile solo come forza lavoro in formazione, è già soggettività al lavoro. Intercambiabile ma non eccessivamente flessibile, perché in una dimensione di flessibilità c’è sempre in latenza la tensione a un uso autonomo di certe capacità, a una conquista di autonomia, sia come iniziativa incentivata dentro il rapporto di subalternità perché poi soggetta a cattura, sia come esigenza di realizzazione soggettiva: in entrambi i casi le linee di fuga che si scatenano si presentano davanti a uno scontro con i tentativi di recupero della soggettività in una dimensione subalterna per affermarsi.

Questi nodi mettono al centro il ciclo produttivo della soggettività e della produzione di merce-sapere nelle nostre università interrogandone il processo, i ruoli e i fini. Frammentazione degli insegnamenti, rottura del rapporto formativo nell’investimento su una ricerca burocratizzata e macchinizzata a discapito della didattica, mancanza di risorse materiali, sono tutti tratti di una tendenza all’alienazione e all’omologazione delle operazioni in questa macchina-università. Un eccedenza soggettiva emerge nel non accettare questo regime di operatività mettendo a critica, dentro ancora un’ipotesi di uso possibile dell’università, non la misurazione del sapere – ideologicamente intesa – ma il fatto che la misura del valore non qualifica più una valorizzazione effettiva.

 

Collettivo Universitario Autonomo Pisa

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