La Turchia verso una crisi sistemica?
Erdogan aveva cercato di prevenirlo con l’indizione di elezioni anticipate e l’accentramento del proprio potere:
la crisi valutaria che sta investendo la Turchia ed altri mercati emergenti è un campanello d’allarme per il regime dell’AKP, instauratosi quasi vent’anni fa sull’onda di simili eventi.
Quello del boom anatolico, costruito sui prestiti facili delle banche occidentali e sulla liquidità affluita grazie ai bassi tassi d’interesse di FED e BCE, si sta trasformando nel suono di un’implosione: l’inversione di rotta di Trump in materia di politica monetaria, le sofferenze degli istituti di credito, la fuga di capitali dal paese hanno scandito un anno drammatico per l’economia turca, alla quale il despota di Ankara ha risposto commissariando di fatto la Banca Centrale e nominando dopo le elezioni di giugno il suo genero Albayrak ministro del tesoro e delle finanze.
Il ribasso della lira turca, fattosi strutturale dopo gli eventi di Gezi Park, è divenuto crollo: a metà agosto un dollaro è arrivato a valere 7 lire turche contro le 3,5 di inizio anno (ora è scambiato attorno alle 6), una spirale tamponata solo dall’intervento della Banca Centrale. Casus belli, le sanzioni contro i ministri degli interni e degli esteri dell’AKP e il successivo annuncio da parte di Trump sull’imposizione di dazi alle importazioni di acciaio ed alluminio dal paese anatolico.
Se il pretesto di queste misure è il mancato rilascio del pastore evangelico americano Andrew Brunson (detenuto dalle autorità turche assieme ad altri 15 cittadini USA con l’accusa di far parte della rete illegale del predicatore miliardario Gulen, nemico di Erdogan), alla cui sorte è comunque sensibile la base cristiana e nazionalista di Trump, le ragioni delle sanzioni vanno ricercate altrove. In primis nei tentativi di Erdogan di aggirare l’embargo statunitense contro l’Iran, importante partner commerciale di Ankara, la cui economia e valuta sono parimenti – e negativamente – influenzate dal rialzo dei tassi USA. Anche tramite operazioni di riciclaggio e frode bancaria confessate dal suo uomo di fiducia Reza Zarrab, arrestato e sotto processo negli Stati Uniti. C’è anche l’acquisto da parte della Turchia del sistema di difesa antiaereo russo S-400, la cui integrazione nella struttura militare di un paese NATO potrebbe rappresentare un cavallo di troia indigesto per gli USA – che per ritorsione hanno bloccato la consegna di 100 aerei F-35 al governo turco.
La decisione del presidente statunitense è pienamente conforme al suo progetto politico e non deve sorprendere. Dal lato economico c’è l’utilizzo dei dazi come clava di riequilibrio della bilancia dei pagamenti statunitense e discrimine per relazioni commerciali (ma non solo) più o meno privilegiate nei confronti degli altri paesi; a cui si accompagnano gli interessi che ruotano al ritorno di settori di industria pesante sul suolo americano. Dal punto di vista geopolitico le ripercussioni sulla valuta ed a catena sul debito turco, detenuto in larga parte da banche europee (spagnole, francesi ed italiane in particolare), possono colpire ulteriormente il progetto dell’Unione, che Trump vede come fumo negli occhi.
C’è chi dice che la politica estera turca sia passata da gli “zero enemies” pre-Gezi Park ai molti attuali, soprattutto gli ex-buoni vicini Siria, Israele ed Arabia Saudita. Ma per inerzia o ricatto Erdogan può contare anche su una serie di alleati e fiancheggiatori non secondari. A cominciare dal Qatar, faro dell’opzione demo-islamista in Medio Oriente e Nordafrica (nella cui famiglia è ricompreso l’AKP). La monarchia del Golfo, memore dell’aiuto militare ricevuto da Erdogan durante la crisi del 2017 (in cui sembrava alle porte un intervento contro di essa da parte dei regnanti filo-USA di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) ha staccato un assegno di 15 miliardi di dollari in soccorso dell’alleato.
Anche i paesi europei, in barba alla fittizia dialettica tra membri liberali e populisti, si sono di fatto schierati col regime di Ankara. Dopo aver ricevuto la benedizione di Orban (primo a chiamare Erdogan dopo la sua elezione a presidente determinata da plateali irregolarità) il sultano ha anche incassato l’appoggio di Germania ed Italia, tramite il ministro Moavero dell’attuale governo gialloverde. Una connivenza vergognosa: con gli aiuti dell’UE ed i prestiti delle sue banche vengono finanziate le costose operazioni militari nel sud-est del paese in Siria ed in Iraq. Per non parlare delle documentate relazioni tra servizi segreti turchi e gruppi fondamentalisti islamici come l’ISIS ed al-Nusra. Vengono così foraggiate anche molte grandi opere nocive per i territori mediorientali ed i loro abitanti: una su tutte la diga di Ilisu, la cui costruzione minaccia di sommergere il sito millenario di Hasankeyf e di assetare le popolazioni a valle lungo il corso del Tigri, creando decine (se non centinaia) di migliaia di rifugiati ambientali. Con buona pace dell’ “aiutarli a casa loro”.
E’ ancora presto per esprimersi su futuri sviluppi, ma nei prossimi mesi ulteriori scossoni potrebbero venire da teatri come la Siria del Nord; in cui Erdogan occupa illegalmente le regioni di Afrin e Shehba e sostiene i jihadisti in quella di Idlib – che Assad vorrebbe riportare sotto il proprio controllo, contando sulla protezione della Russia. D’altro canto, un eventuale ingresso del FMI nel paese potrebbe avere effetti dirompenti. La Turchia non è la Grecia: è un colosso di 80 milioni di abitanti e tra le prime 20 economie del mondo. E – nonostante i Chicago Boys siano stati accolti con tutti gli onori alla corte di dittature come Indonesia e Cile negli anni ’70 – la commistione tra istituzioni finanziarie e potere personale di Erdogan è tale che non si potranno applicare gli ormai tristemente noti tagli lacrime e sangue senza intaccare il meccanismo clientelare e monopolista del sultano. Che, come le ultime elezioni hanno dimostrato, sembra essere tutt’altro che disposto a lasciare pacificamente il potere.
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