L’altezza della sfida – Riflessioni in movimento
Trasformazioni dell’università e intervento politico antagonista
.Negli ultimi tre anni, dopo l’ultima fiammata dei movimenti universitari culminata nel 14 dicembre romano, poco pare essersi mosso negli atenei. Eppure grosse mutazioni sono in atto. Dall’applicazione della famigerata riforma Gelmini al definitivo tramonto del Bologna Process; dall’incisività delle politiche di austerity sulle condizioni di vita all’emersione di nuove soggettività sociali… il panorama è in rapida evoluzione.
Situarsi dentro questi processi, provare ad elaborare ipotesi sulla loro tendenza che contengano progetto politico e possibilità di rottura, è parte del nostro fare politica. L’inchiesta militante; le sperimentazioni politiche; l’intervento e l’agitazione sociale; la contro-formazione e la costruzione di saperi; le capacità organizzative e di comunicazione: questo il pane quotidiano del quale ci nutriamo. E’ a partire da queste pratiche che come collettivo, e con tante altre realtà politiche, negli ultimi mesi abbiamo iniziato un processo di ridefinizione delle modalità di intervento politico e di elaborazione teorica. L’altezza della sfida che ci poniamo è chiara: costruire forme di autonomia che possano consolidarsi ed espandersi a partire dall’università. Un’istituzione dequalificata e “sotto attacco” da tempo, ma proprio per questo terreno sul quale è possibile immaginare ora più che mai forme di appropriazione antagonista e una concreta contesa di potere.
Al contempo l’esaurimento di possibilità “espansive” dell’istituzione universitaria impone di re-immaginare le modalità di intervento politico, ed il come non chiudersi in essa come fosse un ghetto. Da questo punto di vista è necessario disfarsi definitivamente di forme di studentismo o di individuazione di un immaginifico “soggetto universitario” come fattore primario dell’agire politico. Questo lo sappiamo da tempo e possiamo essere tranchant al riguardo. Eppure nell’affermare ciò siamo consapevoli di possibili abbagli nei quali è possibile incorrere assumendo in maniera non ragionata questa postura. In primo luogo il rischio è quello di una ricerca senza meta possibile di nuovi luoghi di intervento politico nella metropoli. Non che questi non esistano, anzi. Esistono e sono possibili: i cancelli della logistica sono un importante esempio da questo punto di vista. E rispetto a lotte simili è giusto e necessario dare un contributo di energie e passioni militanti. Ma questo è stato possibile solo a partire da una soggettività in formazione in qualche maniera esterna ed indipendente dall’università. Dunque nessun ritorno al ’68: gli studenti non devono andare alla ricerca di nuovi cancelli della Fiat. Ma consolidare livelli di contropotere dentro le università da poter mettere in gioco anche su altre lotte. Stare al fianco di queste portando in dono le contro-capacità acquisite nei conflitti in università. E pronti ad apprendere da altre lotte in un virtuoso scambio e potenziamento reciproco. Un altro elemento potenzialmente scivoloso in ciò che stiamo dicendo è lo “sciogliere” in un unico indistinto le soggettività sociali. Ossia sviluppare scioccamente la questione: lo studente è un precario, ed in quanto tale va analizzato ed organizzato politicamente. La precarietà è infatti divenuta un elemento talmente generalizzato da risultare politicamente inutile o quantomeno fuorviante se assunto come generalità. Se la precarietà è la costante, esistenziale e complessiva, dobbiamo scomporla politicamente per individuare i punti di aggressione.
Leggere il sociale per trasformarlo: inchiesta e conricerca
Queste considerazioni ci conducono a due assunzioni che indirizzano il nostro agire nell’esercizio di quella che Romano Alquati definisce conricerca. Riportate in forma modellistica: “ai bordi tra università e metropoli”; “un nuovo soggetto politico in formazione” – che ancora non riusciamo politicamente a definire con un lemma sintetico (e questo ci indica una carenza nell’elaborazione teorica e nella prassi politica) ma che socialmente e politicamente “vediamo”, nel quale “stiamo”, e col quale possiamo fare una scommessa politica.
Proviamo a spiegare meglio questi due elementi, mischiandoli nel ragionamento. Abbiamo già discusso di come l’università viva di una dismissione strategica da parte di tutto l’arco istituzionale. Ciò non conduce tuttavia ad una imminente impennata di verticalizzazione che prefiguri un tornare indietro al pre-università di massa. Più “semplicemente” le politiche di austerità, aggiunte al fallimento del progetto del Bologna Process (unite alle forme di baronato), hanno riportato i livelli di accesso all’università al pre-3+2. Se assumiamo questa ipotesi possiamo pensare che l’università nei prossimi anni svolgerà un ruolo, una funzione sociale di “parcheggio” per una componente giovanile che, senza una scelta di iscrizione a questo livello formativo, sarebbe destinata ad una disoccupazione di massa socialmente insostenibile per la tenuta sistemica. Dal punto di vista soggettivo è vero che larghissime fette studentesche hanno perso molte delle illusioni sulla possibilità di ascensione sociale tramite laurea. E’ interessante allora interrogarsi sul perché le persone continuino ad iscriversi ai corsi universitari. Possiamo al riguardo, in forma estremamente generica, abbozzare che in fin dei conti questa scelta va motivata principalmente in quanto opzione che attribuisce un “senso” di vita. Dalle inchieste che abbiamo sviluppato questa indicazione emerge abbastanza chiaramente, celata da risposte che si rifanno: ad un’attesa di tempi migliori; ad aspettative genericamente culturali; con una qualche prospettiva di uso esclusivamente tattico rispetto al mercato del lavoro… Dentro questi nodi si sviluppano contraddizioni e cortocircuiti soggettivi che possono essere conricercati politicamente per costruire processi di rottura.
Provando a definire il soggetto a partire dall’incompatibilità dei comportamenti
Quanto ora espresso non significa che la fetta sociale “persa” negli ultimi anni, cioè il grosso calo di iscritti, non configuri un’esclusione di classe dall’università. Tutt’altro! E’ sicuramente un dato concreto con cui confrontarsi. Ma è proprio il tentativo di connettere questa massa di giovani esclusi dall’università a causa dell’austerità – come punta più evidente della dilagante disoccupazione giovanile – con la componente di neo-universitari che accedono all’università-parcheggio come tattica di vita, che si configura una possibile traccia strategica da perseguire. A queste due soggettività vanno indubbiamente aggiunti quelli che abbiamo definito come “precari di seconda generazione”: giovani e giovanissimi studenti per lo più delle scuole superiori che negli ultimi due anni hanno composto le prime fila dei cortei e delle occupazioni.
Chiaramente queste tre sono figure idealtipizzate. E proprio per questo non stiamo certo proponendo una sorta di intersezionalità fra queste figure sociali, che presupporrebbe e congelerebbe delle ipotetiche identità. Sappiamo bene come nella vita reale il disoccupato, lo studente, il precario ecc… siano categorie da sociologi dei sondaggi, mentre le sfumature sono prevalenti rispetto alle nettezze quando si parla di corpi sociali. Quello che ci interessa è che questo amalgama di soggettività raggruppa una costellazione di comportamenti, indubbiamente densi di ambivalenze ma con un forte carico di incompatibilità latente.
I “bordi dell’università” come strumento di orientamento politico
D’altra parte la ricorrente espressione sulla necessità di “sporcarsi le mani” sta proprio ad indicare una linea di condotta militante che deve essere in grado di stare dentro le composizioni sociali per costruire orientamento e progettualità collettive. Un’ultima nota è necessaria su questo discorso. La composizione sociale (ed in parte in quella politica) protagonista delle ultime mobilitazioni ha visto consolidarsi nello spazio politico di movimento la presenza di una componente che genericamente spesso viene categorizzata come “delle periferie”. Questo sia nel senso di una collocazione geografica entro lo spazio urbano rispetto al suo centro storico; sia perché sono espressione sociale di un fenomeno relativamente nuovo per l’Italia. Un interessantissimo misto o assemblaggio di giovani poveri con una forte presenza di ragazzi e ragazze di seconda generazione (usiamo l’espressione in senso descrittivo e con estrema cautela, consapevoli di come sia giusto che chi da questa espressione dovrebbe sentirsi descritto la rifiuti con forza). Nel nostro immaginario vengono immediatamente in mente le banlieu francesi o i quartieri di Londra. Tuttavia è necessario non prendere abbagli con forzate analogie. Paragonare i fenomeni sarebbe assolutamente fuorviante. Al contempo è però evidente che il problema politico che la rivolta delle banlieu e i cosiddetti UK Riots hanno messo sul campo rimane tuttora insoluto ed aperto: come connettere e far convergere, banalizzando per chiarezza, gli studenti e i giovani delle periferie? Dunque pur tenendo presente questa domanda, e con la consapevolezza che il ruolo politico dei militanti dev’essere quello di costruire ambiti politici che sappiano far convivere e meticciare le differenze, non vanno prese sbandate teoriche idealizzando un proletariato insorgente pronto ad esplodere. Con il rischio, un’altra volta, di finire nei vicoli ciechi di una mitizzazione che tra l’altro rischia di congelare una “marginalità”, de facto finendo per involontariamente ghettizzarla. Evitare una forma tutta particolare di orientalismo o terzomondismo nel proprio territorio insomma. Deve essere sempre chiaro che, marxianamente parlando, la posta in palio è che questo aggregato sociale in potenza (e noi con esso), che esprime potenzialità sovversive e richieste di potere, distruggendo le condizioni delle proprie condizioni di povertà e privazioni, deve distruggere anche sé stesso.
Dunque prendiamo questi cenni analitici come indicazione di un campo di tensione. Speriamo sarà ora più comprensibile il riferimento ai “bordi” dell’università come campo di inchiesta e posizionamento politico. Tuttavia la metafora contiene volutamente anche una dimensione spaziale. Affinché la composizione sopra indicata possa puntare a far divenire la propria “marginalità” centrale politicamente, è decisivo individuare i luoghi nei quali essa possa incontrarsi, organizzarsi, e dai quali possa espandersi.
Contropotere e territorializzazione
Abbiamo già detto di come le facoltà possano e debbano divenire contesti nei quali strappare possibilità/risorse per l’organizzazione antagonista: occupare aule e facoltà, usarne le strutture ecc… è una base di partenza ineludibile. Tuttavia un passo in più è possibile. Per questo abbiamo aperto una riflessione sull’urbano. Cerchiamo di spiegarci. Il nostro assalto alla metropoli prova a sperimentarsi a partire dai bordi anche fisici tra università e metropoli. Questo vuol dire tentare di risignificare i luoghi attorno alle facoltà come punto di partenza. Vuol dire costruire legittimità di pratiche antagoniste che usino positivamente l’effetto sponda tra edifici universitari e spazi metropolitani. Dunque parliamo di tentativi di “fare territorio” nel senso pieno che tale concetto assume in questa prospettiva: contemporaneamente istituire relazioni sociali ed incidere sull’ambiente fisico. Creare quindi contesti urbani altri, nei quali forme di vita antagonista possano esprimersi.
Sempre continuando per schizzi il ragionamento, questo solleva alcune questioni: 1) il rapporto con settori sociali differenti dalla composizione strettamente universitaria, coi quali il rischio di un conflitto politicamente improduttivo è alto; 2) il rapporto con le istituzioni per il controllo del territorio; 3) il come fare, perdonate il gioco di parole, a “fare città”. Proviamo a rispondere sempre per cenni.
Rispetto al primo problema: va assunta una iniziale difficoltà a relazionare componenti sociali così differenti. Ma anche questo è parte della sfida. Una capacità di intervento “popolare” a là Val di Susa è ciò che abbiamo in mente come esempio da tradurre. Ciò richiede la necessità di attrezzarsi di pratiche e linguaggi spesso estranei al bagaglio culturale dei collettivi universitari, ma è una sfida e una sperimentazione necessaria. Ma, appunto perché conosciamo l’esperienza No Tav, abbiamo piena cognizione del periodo intercorso fra i suoi primi passi e la sua affermazione come movimento. Dunque questo ambito va inquadrato entro l’orizzonte di una tattica di lungo periodo, o quantomeno di un terreno che gerarchicamente è importante ma non primario. Elemento fondamentale è avere sempre presente la politicità della questione, e dunque sapere dove focalizzare l’attenzione con ampie dosi di pragmatismo.
Rispetto alle istituzioni. Siamo convinti e abbiamo sperimentato nel concreto come il controllo del territorio sia sempre meno nelle mani dei poteri cittadini. Dire che sempre più spesso solo la polizia è lo strumento che le istituzioni usano per perseguire questo fine (controllo territoriale) non è retorica. I tagli al welfare e l’eclissi dei partiti di massa, con il corollario di un associazionismo ed un volontariato ormai sconnessi da una “direzione politica”, ha portato – anche – nei feudi dell’ex Pci alla formazione di “vuoti” di potere sul territorio che, per l’appunto, sono “riempiti” da forze dell’ordine e dalla governance mediale. Un riempimento che spesso è una tigre di carta. Vistoso ma potenzialmente fragile. Sfidare le istituzioni su questo terreno è dunque un passaggio importante perché riempire quei “vuoti” con forme di cooperazione altra, socialità, cultura, arte ecc… è relativamente semplice e politicamente forte e produttivo. Un esperimento che abbiamo fatto, ad esempio, è quello di “riqualificare dal basso” alcune mura urbane, passando mani di vernice e tracciando alcuni segni comunicativi su di essi. Di fronte alle retoriche sul “degrado” urbano agite da anni, le istituzioni sono rimaste spiazzate ed hanno avuto una reazione pubblica rancorosa. Ciò ha avuto l’effetto di acuire la distanza fra esse e grosse parti di popolazione, che di fronte ad un “miglioramento oggettivo” costruito da soggetti non istituzionali ha generato consenso verso opzioni non istituzionali, per l’appunto. Se a questo si riesce ad aggiungere, come abbiamo sperimentato in piazza Verdi, anche il livello di confronto/scontro sul piano di chi sta sul territorio a suo presidio (la polizia), gli spazi per consolidare legittimità e contropotere sono estremamente ampi. Ciò implica una forma di intelligenza che individua nettamente le istituzioni come controparti ma al contempo è capace di sfidarle su un terreno che possa portarle a “realizzare” il dato di fatto di questi percorsi e non interferire con le scelte e le indicazioni che emergono dall’autonomia sociale e politica dei soggetti in movimento.
Ultima delle tre questioni: cosa vuol dire fare tessuto urbano da un punto di vista strutturale? Molteplici cose, e molte tutte ancora da immaginare. Su un livello “basso” significa conquistare spazi di comunicazione. Dalla possibilità di connotare zone permanenti di comunicazione politica all’uso dei muri e delle strutture urbane per costruire un clima di “spazio altro”. Ma su un livello più alto vuol dire domandarsi come costruire fisicamente delle centralità politiche. Prendendo ancora una volta a prestito la Val Susa, la domanda è come costruire presidi permanenti nello spazio urbano, che siano simultaneamente “avamposto in territorio nemico” e zone di contropotere permanente (non le definiamo “zone liberate” perché ancora non siamo di fronte a fenomeni talmente rilevanti da scomodare tale concetto. Al limite è stato corretto utilizzare “piazza Verdi liberata” nelle ore e giorni immediatamente successivi alla cacciata della polizia. Parlarne oggi sarebbe illusorio e fuorviante). Per fare ciò sono necessari almeno due elementi. Uno è ineludibilmente fisico. Noi l’abbiamo tentato piantando un albero in piazza. In parte ha indubbiamente funzionato come aggregatore fisico e simbolico, ed il fatto che il comune l’abbia rimosso approfittando del periodo estivo ed in totale silenzio (costretto ad ammettere la propria responsabilità solo giorni dopo ed incalzato da un’iniziativa) ci dà il segno di come anche le controparti avessero percepito questo potenziale. Quindi un tentativo da riproporre, ovviamente in altre forme, di costruzione di elementi urbani che possano produrre aggregazione attorno ad essi. Ma è chiaramente necessario anche il secondo elemento, ossia una costruzione discorsiva in senso focaultiano, che possa renderli emblemi. Icone nelle quali tante persone possano identificarsi, producendo al contempo una volontà di difenderli ma anche una percezione di come sia possibile trasformare concretamente la quotidianità dell’esperienza urbana. Dunque impostare spazi che divengono di conflitto in quanto luoghi di contesa e di costruzione altra.
Dai quartieri uno sguardo globale
Una postilla da legare alle ultime riflessioni. Abbiamo infatti iniziato a parlare, inevitabilmente, di “quartiere”. Stiamo cercando di sperimentarci su una prospettiva di “lavoro di quartiere” che tuttavia necessita di una radicale innovazione rispetto all’idea di quartiere che la tradizione dei movimenti ci ha consegnato. Per essere chiari: per noi il quartiere va inteso come concetto politico da costruire. Non è qualcosa di pre-dato. Anche perché la vita urbana odierna, tra flussi di persone, zone dormitorio, spostamenti ecc… ha scardinato le forme comunitarie che in passato potevano essere una base dalla quale partire per un intervento politico. Le forme di “comunità” sono estremamente puntiformi e fluide. E oltretutto sono ormai pienamente mediate anche da un livello mediale, che se non considerato porta a grossi abbagli. Ciò vuol dire non partire dai confini amministrativi dei quartieri. I confini dobbiamo stabilirli noi come frontiere espansive e come tracce che designino una forma di autonomia consolidata. Rispetto alle identità: è necessario un lavoro creativo che sappia mischiare molteplici aspetti per istituire forme di identificazione collettiva e nuova appartenenza. Dunque nessun timore a sporcarsi le mani con memorie storiche che esaltino una immaginata tradizione locale, o con simbologie “popolari”, ma al contempo avere cognizione dei livelli transnazionali e mediali che plasmano i territori. Dunque ibridare molteplici livelli in un discorso capace di porre un bene comune come posta in palio, quella che il collettivo Midnight Notes definisce come pratica del commoning.
Dicevamo: lavorare sull’urbano per costruire centralità politiche che siano avamposti espansivi a partire dalla sedimentazione di contropotere nelle università e giocando sull’effetto sponda tra esse e la città. Lavorare su una composizione sociale giovanile come soggetto politico in formazione con la capacità politica di non contrapporla ad altri soggetti. Ciò non significa che lo scontro anche interno alla composizione sociale sia di per sé sbagliato. Ma che alle realtà organizzate deve competere una capacità politica di composizione. Stiamo dunque parlando di una sfida politica che mira a tracciare nuove geografie sociali ed urbane radicate nel locale, che abbiano una visione ovviamente globale. Laddove probabilmente il movimento “no global” aveva nell’incapacità di traduzione sul locale delle proprie istanze un limite decisivo, si tratta ora di partire invece dal locale con una capacità costante di muoversi su più scale geografiche. Anche perché è già in moto un movimento globale, il quale “opera” a livello locale.
Lotta sul reddito tra destabilizzazione e soggettivazione
Crediamo che la questione del reddito sia centrale ma sentiamo una forte insofferenza per come è stata impostata negli ultimi anni. Cerchiamo allora di collocarla in una prospettiva concreta. Alcuni punti diamoli per assunti: affinché la lotta sul reddito non sia una lagna da richiedere alle istituzioni (tra l’altro senza possibilità di ottenere risultati), è necessario che questo non rimanga elemento vago ed indeterminato, individuando con precisione il terreno di battaglia, gli obiettivi e le controparti. Discorso simile a quello fatto prima sulla precarietà. E’ necessario definire con maggiore precisione la questione per non perdersi nell’indefinitezza. Dunque reddito deve divenire bisogni e lotta per la soddisfazione degli stessi. Tenendo al contempo sempre presente un segno di alterità. Ossia: la realizzazione dei bisogni non è “neutra”. Reclamiamo un bisogno (la casa per esempio) ma nel processo per conquistarla abbiamo l’obiettivo di modificare alla radice cosa significa abitare. Non ci interessa certo riprodurre forme abitative in cui il nucleo della famiglia tradizionale viene a riprodursi. Dunque è necessario insistere e porre attenzione sul processo più che sull’esito dello stesso. E’ nel processo di lotta che le soggettività si devono trasformare, e non a partire dall’esito che la lotta stessa si pone. Questo per noi è parlare di soggettivazione e del fatto che la soggettività antagonista non può mai essere data per scontata ma va costantemente prodotta. Ciò conduce ad un’altra interconnessa considerazione: non bisogna cadere nell’errore che, di fronte alla sottrazione di forme di welfare da parte dell’austerity, i movimenti debbano andare semplicemente a riprodurle in forma autogestita, fungendo quasi da spalla al regime neoliberale. Bisogna invece costruire una capacità di stare veramente dentro e contro. Se i prezzi di una mensa sono troppo alti la nostra risposta non può essere fare una mensa autogestita, ma fare una lotta per abbassare i prezzi ed aumentarne qualità ed accessibilità che, nel suo sviluppo, potrà indicare le forme più adeguate per una eventuale futura autogestione. Dunque mai porsi un esito predefinito per le lotte. Questo è insistere sulla processualità. Come si diceva anni fa: non sappiamo come andrà a finire, vi stiamo facendo vedere come inizia…
Occupare costruendo una struttura espansiva
Il tentativo politico che abbiamo iniziato con lo Studentato Occupato Taksim è dentro i piani di ragionamento sino ad ora sviluppati. Al contempo elemento urbano e sociale di una nuova geografia. Il nostro tentativo però è quello di una lotta concreta sul reddito e lo spazio urbano ai bordi fra università e metropoli che possa legare assieme molteplici percorsi: seminari autogestiti per nuovi saperi e lotta sui bisogni nelle facoltà; costruzione di forme di cooperazione e socialità nelle piazze ecc… Dunque per noi l’occupazione dello studentato ha un senso solo in un’ottica espansiva e interconnessa con altri percorsi. Dichiarare “gli studenti si riappropriano di reddito con l’occupazione” – se non come forma meramente “propagandistica” – è evidentemente molto rischioso, mischiando e confondendo le pratiche ed i bisogni militanti come fossero espressione della composizione sociale. Ossia schiacciando la composizione tecnica su quella politica. Per noi Taksim sta dunque dentro un’indicazione politica ed un’allusione, ma quello che ci interessa è “portarlo in università”. Praticare quell’effetto sponda tra università e metropoli. E’ per questo che abbiamo deciso di non fare assemblee dello studentato ma di farle in università. E che non vogliamo riportare dentro Taksim quello che invece c’è ancora da conquistare fuori da esso. Cioè: non intendiamo costruire nell’occupazione una palestra di quartiere o una sala studio, una biblioteca o una mensa autogestita, perché riteniamo che qualora questi bisogni emergano sia necessario dar loro risposte espansive che vadano a conquistarli con nuove occupazioni e nuovi percorsi.
Conclusione
Per concludere. Riteniamo che di fronte alla costante erosione del “welfare per studenti” sia possibile puntare su un percorso di appropriazione complessiva dei bisogni “universitari” che possa funzionare come punto di irruzione e trampolino attorno al quale far convergere ed organizzare tante altre soggettività giovanili. In questo si definisce il “nostro” rapporto tra università e metropoli come leva antagonista per processi di soggettivazione di massa in grado di interconnettersi con altre lotte. E’ in questo orizzonte che i collettivi a nostro avviso devono muoversi per creare movimento guardando al fare egemonia intesa nel più bel senso gramsciano del termine, ossia determinando ed orientando comportamenti politici di massa che siano l’unico segno attorno al quale verificare l’egemonia stessa, che dunque nulla ha a che vedere con bandierine o simili. Dunque articolare la sollevazione, far insorgere le nostre UniverCities necessita di metodo, costante e paziente verifica delle ipotesi, accumulo di forze e apertura di spazi di autonomia e di consolidamento di contropotere… Verso il nostro assalto al cielo!
Dicembre 2013
C.ollettivo U.niversitario A.utonomo – Bologna
tratto da UnivAut
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