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“Lavorare meno per lavorare tutti”. Intervento del comitato Resistenza Operaia (Irisbus)

Pubblichiamo il video ed il testo realizzati dai compagni del Comitato Resistenza Operaia in occasione di un incontro pubblico tra lavoratori e studenti tenutosi all’Università Orientale di Napoli lo scorso 13 dicembre.

È solo una paginetta, ma leggendola (o ascoltandola) ci si accorge subito di essere di fronte ad un piccolo, prezioso compendio.

Si parte tracciando i confini, quelli del chi, del noi e del loro, dell’amico e del nemico. Si individua il dove questa storia (che è storia di lotta di classi, ovviamente) ha luogo. Si analizza il quando, guardando sì al presente ma inserendolo in un percorso temporale assai più lungo del singolo momento, restituendoci così una continuità che ci permette di capire cosa debba intendersi per antico, vetusto, obsoleto e cosa invece per nuovo, attuale, moderno. E lo si fa a partire da una riflessione sul come comunicare, iniziando dalle parole che potremmo e dovremmo utilizzare. Si parla di unità dei soggetti sfruttati, della classe, ma indagando ciò che strutturalmente nel modo di produzione in cui viviamo unisce e non a partire da un mero desiderio, frutto troppo spesso di un sincero ma infecondo volontarismo. E infine ci si interroga su possibili direzioni di lavoro, sul perchè e per cosa lottare.
Un testo tanto pregno che ogni paragrafo andrebbe sviluppato, allargando gli infiniti squarci che offre. È questo il nostro invito alla lettura. Affinché sia un piccolo strumento per arricchire le nostre riflessioni e le nostre pratiche e non semplicemente testimonianza di qualcosa di bello e commovente, ma destinato alla sconfitta. Perchè siamo ancora in tanti che, pur in tempi bui, continuiamo a sognare, cerchiamo cioè di ‘vedere’ e ‘far vedere’ ciò che ancora non è pur essendo già contenuto nel movimento incessante della materia sociale.

 

 

È davvero triste che dobbiamo usare il termine “produceva”, ma questa è la realtà e dobbiamo dire che la nostra fabbrica ora è chiusa per volontà della Fiat, della politica e dei governi che in questi anni si sono succeduti. Ebbene noi siamo già al secondo anno di cassa integrazione per chiusura dello stabilimento grazie, o meglio, a causa, di un balordo accordo sindacale che ha permesso a fiat di barattare 9 lettere di contestazione disciplinare con la chiusura e il licenziamento collettivo di 700 lavoratori.

Un accordo fatto passare anche per una finta consultazione operaia, perché nella nostra storia il sindacato non è mai riuscito, o non ha voluto dare una linea di lotta precisa da seguire e quindi, come spesso accade, si è fatta passare una “truffa” per consultazione democratica.

Comunque, nonostante tutto abbiamo deciso di non arrenderci e di continuare ad incalzare a proporre a lottare. Ma prescindendo dalla nostra individuale esperienza in questo anno e mezzo abbiamo imparato tante cose, abbiamo capito le finzioni, i raggiri, le contrattazioni su tavoli diversi: uno pubblico e partecipato e l’altro privato, nascosto, dove il compromesso e la voce della fiat fanno da padrone.

Abbiamo capito anche che però, nonostante la finta modernità gridata dai padroni noi facciamo parte di una categoria che può contare se unita, noi facciamo parte di una “classe” che può anche cambiare le sorti che ci hanno assegnato, che può ribaltare gli scenari e costruire un mondo più giusto dove l’equità sia a rialzo e non tesa alla mortificazione dei diritti e allo scontro inutile tra generazioni.
Facciamo parte di una “classe” e dobbiamo gridarlo forte e capirne il senso, senza avere paura di “muri” caduti (ovviamente mi riferisco al muro di Berlino) che pretendono di aver cancellato le parole sostituendole con altre che non sanno di niente, e che parlano una lingua che appartiene a troppi, ai lacchè, ai “benpensanti” ai poltronisti di professione meno che a noi.
Ecco perché come primo passo verso l’unità e il cambiamento dobbiamo riappropriarci dei nostri termini, delle nostre parole, della nostra lingua che parla di “padroni”, di “sfruttamento”, di “lotta”, di “classe” che sono gli unici termini progressisti, rivoluzionari e riformatori che oggi esistono.
Tutto il resto è vecchio e stantio e puzza di acido fenico.

 

E allora cominciamo a recuperare la struttura del nostro linguaggio dalle parole di qualcuno più colto di noi perché, forse, ci credeva di più e cominciamo a dire e a riflettere sulle parole di Antonio Gramsci che scriveva: “nella fabbrica ogni proletario è condotto a concepire se stesso come inseparabile dai suoi compagni di lavoro: potrebbe la materia informe accatastata nei magazzini circolare nel mondo come oggetto utile alla vita degli uomini in società, se un solo anello mancasse al sistema di lavoro nella produzione industriale?” e se l’operaio di una fabbrica, come dice Gramsci, è la cellula di un solo corpo allora vuol dire che per evitare amputazioni, per reagire al sopruso e allo sfruttamento è necessario legare una cellula all’altra, una fabbrica ad un’altra, una città ad un’altra e una nazione ad un’altra nazione, questa è la “classe” ed è quindi necessariamente nazionale ed internazionale e il suo fine è la lotta per l’emancipazione dal capitalismo industriale e finanziario.

 

Non è più pensabile quindi che si continui a parlare di “competitività” anche da parte di qualche cosiddetto sindacato di lotta, perché dire che bisogna mantenere le fabbriche aperte puntando sulla competitività vuol dire salvarsi momentaneamente per affossare altri compagni, vuol dire offrire un palliativo nazionale ad una crisi che è mondiale, vuol dire che non si vuole lottare per la vera emancipazione e quindi contro il capitalismo di cui tanto si parla ma si vuole solo anestetizzare la forza lavoro che è mondiale e la cui vita dipende dalla salvezza collettiva degli sfruttati contro gli sfruttatori, altrimenti rischiamo di fare la fine del cane che si morde la coda perché ci sarà sempre qualcuno più competitivo di un altro.
E allora che fare? Unire le esperienze, studiare i modi e il sistema per reagire, è un lavoro duro e lungo, ma necessario e possiamo iniziare a mettere qualche tassello.

 

Possiamo ad esempio cominciare a dire che questa crisi è prodotta dal capitalismo e dai padroni, è una crisi di sistema per cui è il sistema che deve essere cambiato, poco conta il cambio di ministri se questo cambio non porterà un cambio di rotta, poco conta quale esecutivo avremo se chi si propone a guidare la macchina dice di voler continuare a nutrire con continue flebo questo mostro parassita e agonizzante che è lo spread, la finanza, le banche, il capitale.

 

C’è bisogno di eutanasia per questo sistema che altrimenti ucciderà noi.
C’è bisogno di un cambio di rotta, c’è bisogno dell’assalto ai granai perché non è più possibile sentire che il 90% della ricchezza è detenuto dal 10% della popolazione e a pagare siamo sempre e solo noi, operai, studenti disoccupati. Allora è inutile girarci attorno e parlare di altro, dobbiamo rispondere alla crisi non chiedendo nuovi padroni che sostituiscano i vecchi, ma dobbiamo chiedere che le fabbriche strategiche ritornino allo Stato, dobbiamo pretendere semplicemente ciò che ci spetta, scuola efficiente e pubblica, sanità senza se e senza ma, perché la salute non si delega e non si mercanteggia, lavoro non come merce ma come diritto.
Dobbiamo ribellarci alle logiche finanziare e cominciare a rimettere al centro della discussione sulla questione lavoro la necessità ed io direi l’urgenza di parlare, cercare, pretendere la riduzione di orario di lavoro a parità di salario e senza l’aumento della produzione. Questo è l’unico modo perché chiunque possa avere la sua possibilità, si diceva un tempo “lavorare meno per lavorare tutti “ è questa, ancora oggi, l’unica possibilità di salvezza.
Ridurre l’orario di lavoro avrebbe un significato ancora più grande perché ci darebbe l’occasione di vivere la nostra vita, di riappropriarci dei nostri spazi e delle nostre attitudini.

 

Solo così avremmo il tempo per sognare, per pensare, per amare, per leggere, per essere cittadini dignitosi di un mondo che altrimenti diventerebbe, come sta già succedendo, più una gabbia che una casa!

13 dicembre 2012

(da Clash City Workers)


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