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Le metropoli del post-gentrification: precariato, reddito universale e lotte di domani

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L’impatto economico di questa epidemia di Coronavirus è sotto gli occhi di tutti e in avvenire consisterà, realisticamente, in una delle più profonde crisi economiche e politiche mai attraversate. A partire dalla metropoli come emblema di vita neo-liberista, quali forme di ristrutturazione garantiranno la sopravvivenza al sistema che ha fatto della riproduzione, della stessa produzione e degli assembramenti umani veri e propri paradigmi di accumulazione capitalista? Proponiamo, dal collettivo Social Log di Bologna, una serie di riflessioni e proposte di dibattito su un avvenire politico leggibile in questa fase.

Le città nella pandemia: il lockdown di profitto

La pandemia di CoViD-19, come è già stato variegatamente discusso e molto bene analizzato da diversi elaborati politici di vario tipo circolati su social network e non, ha fatto emergere tutta una serie di contraddizioni sistemiche legate alla strutturazione di un sistema economico che ha, come fonte principale di estrazione di profitto, la necessità dei diversi soggetti al suo interno di riprodursi attraverso i consumi e come principale fonte di produzione l’utilizzo di una forza lavoro, sempre più per postulato, precaria e sottopagata (se lo si valuta in rapporto al valore di certi beni di consumo prodotti): ad essere però davvero entrato in crisi è il modello di città-metropoli gentrificata, emblema di tale sistema neo-liberista, la cui economia su alte sfere viaggia sui binari della ristorazione, dell’hotellerie, dei drink-pub e degli eventi musicali/fieristici. Questo modo di “fare metropoli”, di strutturare e determinare l’urbano in funzione dei suoi consumatori che lo attraversano, vista sottrattasi la caratteristica preconfigurante dell’assembramento umano come paradigma implicito di estrazione di profitto, rischia letteralmente di collassare su sé stesso, lasciando come ben sappiamo un enorme vuoto nel tentativo di immaginare un ‘domani’ sociale, politico, economico.
E’ evidente che, nella stessa logica neo-liberista, a tutti quei piccoli/medi imprenditori, lavoratori autonomi con partite IVA per i quali non esiste una vera e propria legiferazione in materia di welfare (al di fuori di tutto ciò che riguarda il tasso di IVA e quindi, di fatto, su ciò che lo Stato estrae dal piccolo privato) che operano e ‘imprendono’ nell’ambito del turismo urbano, risulta difficile continuare a proporre/chiedere di investire finanze e soprattutto lavoro in un ambito che sostanzialmente, da oggi in poi, non ha più niente da promettere. Di seguito, un articolo piuttosto recente che contiene un po’ di dati statistici, quantomeno che ci diano un’indicazione realistica delle proporzioni di questa falla venutasi a creare nella stragrande maggioranza delle economie metropolitane in Italia: https://www.agi.it/economia/news/2020-04-04/coronavirus-crollo-ristoranti-alberghi-8179853/
Per non parlare delle stesse forme pre-esistenti di precariato interne al settore stesso: camerieri e cameriere, aiuto-cuoch* e lavapiatti, barman in formazione che sono spesso e volentieri un soggetto precario giovanile che ha frequentato gli Istituti Alberghieri; se le condizioni a cui dover sottostare prima, nella “florida” economia della gentrification, erano lavoro in nero, contratti a chiamata o pagamenti a voucher (che a gran voce vengono nuovamente richiesti dai grandi nomi delle associazioni ristorative italiane), per quanti e quante giovani lavoratori e lavoratrici sarà davvero ancora auspicabile o appagante poter lavorare nell’ambito per cui si ha studiato o ci si è tanto sacrificati in nome della gavetta?
Se è vero che questa pandemia non è per niente una situazione passeggera ma, anzi, una delle ipotesi più quotate è quella di una cronicità con cui possano verificarsi altre situazioni di altissimo picco di contagio con conseguente confinamento sociale in quarantena o alle quali debbano necessariamente (per una tutela sanitaria e soprattuto per le latenti carenze delle infrastrutture tecniche su cui conta il nostro sistema sanitario nazionale) corrispondere misure di restrizione dei comportamenti individuali e collettivi, simili a quelle che gradualmente abbiamo conosciuto ultimamente (limitazioni negli assembramenti e negli spostamenti, chiusura dei locali e dei ristoranti, cancellazione di ogni evento), come si può pensare che questo modello di città, di vita metropolitana possa ancora essere considerato come plausibile? O almeno al netto dell’assenza di un reddito universale che esista a prescindere dal tipo di influenza che si ha sull’accomulazione capitalista, insomma di cui si possa disporre senza necessariamente produrre.

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Distanziamento sociale e pratiche di socialità: quali business “finiti”?

Queste prime osservazioni dell’attuale ci rimandano immediatamente alla più razionale delle preoccupazioni che attanagliano, ragionevolmente, un po’ tutti i vari segmenti di classe (o delle classi) a partire dalla realtà a cui stiamo asssitendo: il ‘domani’. Un ‘poi?’ che lascia certamente infinite domande ma che offre anche tante riflessioni, così come diverse possibilità e spunti intuitivi a partire da una semplice congettura: il capitalismo non ha certo cessato di esistere e con lui nemmeno le forme di subalternità. D’altro canto, all’apparenza sembrerebbe che certe forme di aggregazione sociale che per tutto il secolo scorso sono state date per scontate, in tempi di epidemie andrebbero sempre più estinguendosi o, di fatto, quasi del tutto scomparendo. Che ne sarà dei concerti musicali, degli eventi fieristici o degli stadi/palazzetti dello sport di ogni tipo? E soprattutto, con quali conseguenze per chi lavora in questi settori?
Ad esempio, sempre in riferimento alle condizioni di distanziamento sociale a cui siamo sottoposti, nell’ambito degli eventi musicali sono state cancellate tutte le date fino all’autunno e si parla di poter ripartire, soprattutto per gli eventi di grosso interesse culturale, anche ad inizio 2021. Tutti i grossi concerti essenzialmente finiti e quelli invece dei club, a partecipazione limitata e quindi esponibili ad un maggiore controllo, temporaneamente sospesi. Questo perché non esiste un modo di sottoporre a controllo un così alto numero di persone senza pregiudicare la riuscita di un grosso concerto, per non parlare degli incassi in caduta libera. Concerti in live-streaming? Se n’è parlato e questa sembra essere una delle ipotesi più palpabili per non porre fine all’esistenza di questo business; logicamente lo stesso discorso vale per gli stadi e i palazzetti, con la sola differenza che vi sono consolidate modaltà e piattaforme di trasmissione in streaming degli eventi sportivi, nonché strutture fisse in grado di ospitare tali eventi.
La differenza tra gli eventi sportivi e quelli musicali e fieristici è, appunto, la necessaria mobilità delle strutture ferrose, audio e video per il montaggio delle quali si riccore da sempre all’utilizzo spasmodico di una manodopera ultra-precaria e sottopagata, flessibile e volatile come quasi nessun’altra categoria di lavoratori: facchin*, tecnic*, macchinist*, scenograf* e quant’altro. Ed ecco quindi essere questo il grosso interrogativo: che ne sarà di questi lavoratori e lavoratrici se, nella migliore delle ipotesi, la domanda di lavoro calerà a picco e di conseguenza una sua offerta verrà ridistribuita su un decimo della popolazione operaia esistente? Se prima, per montare un palcoscenico del concerto di Ligabue del suo spettacolo da 80mila paganti, servivano all’incirca un centinaio di persone al lavoro per una settimana, quante ne servirebbero (e a quali condizioni, in funzione di un ritorno economico per le grosse Produzioni) per costruire, sempre e solo nella migliore delle ipotesi, un palcoscenico per lo stesso artista che debba cantare davanti a 100 fortunati presenti e a tutto il resto dei/delle fans connessi in streaming?
In diverse dimensioni ma nella stessa modalità, un ragionamento su club e teatri. Entrebbero ad assistere ad una serata/scenografia la metà delle persone, dunque linearmente con la metà degli incassi una qualunque Produzione scritturerebbe metà del personale. Chi glielo spiega a tutt* quei/quelle tirocinanti che hanno appena terminato il corso da fonico o da rigger, da tecnico luci o video, quasi sempre e solo pagato di tasca propria e con stipendi miserabili per il monte-ore di lavoro proposto nell’apprendere un mestiere?
Insomma, in questo scenario che ci si para davanti, l’intero settore della produzione culturale rischia di collassare. Ma così come su ampia scala, non è auspicabile dimensionare la crisi di questi aspetti di vita del neoliberismo come un qualcosa di terminato o terminabile, segnato da una fine drastica ed inesorabile: a quali ristrutturazioni assisteremo? Quali modifiche irromperanno nel sociale, nel politico, individuale e collettivo del domani? Possono essere sacrificati “pezzi” di economia e di società, interi segmenti di classe relegati a “merce scaduta”, “ex-forza lavoro”? Come si riorganizzeranno le decine di migliaia di proletari e proletarie di uno dei più grossi business mai realizzati in epoca capitalista? Da uno sguardo di soggettività operaia, nella dicotomia che esiste tra un lavoro che si odia, per le condizioni a cui si deve sottostare, e la passione per la realizzazione di un evento culturale per le emozioni che trasmette, occorre ridisegnare da cima a fondo l’oggetto di consumo artistico e le sue forme di produzione, nonché ridefinire il valore sociale e produttivo, economico (sul reddito, welfaristico e non) e politico che viene attribuito a chi opera e per anni ha operato in questo ambito.

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Se siamo ‘troppi in circolazione’: “nuove” forme di operaietà metropolitana

Uno dei primi reali parametri con cui misurare la capacità di sopravvivenza di questo sistema, ma soprattutto la nostra possibilità di determinarne la destituzione, è riflettere attorno allo stesso nodo che lo Stato-Leviatano ha imposto alla popolazione in tempi di pandemia: il #restateacasa e le forme di nuova sociologia dei consumi che si porta dietro. Lungi dal fondare una riflessione politica su una congettura scogiologica, un’analisi del fenomeno può però essere utile in termini di individuazione delle invarianze di classe e della meccanica con cui pensare ad una nuova quotidianità metropolitana (dunque, di conseguenza, ad una nova operaietà).
Riassumendo anche i paragrafi precedenti: se prima eravamo tutti in giro a consumare e adesso dovremo spesso restare tutti a casa (nella stessa impossibilità realistica della cosa, in quanto portati a dover comunque provvedere a quei “consumi essenziali”), come faremo ad andare avanti umanamente o, realisticamente, senza davvero dover continuare a rischiare di aumentare il numero di contagi e di morti? Dovremmo ridefinire tutti i canoni moderni in cui abbiamo sempre pensato le forme di benessere, di cura, di divertimento e di stessa intimità? Questa risignificazione forzata del quotidiano e delle relazioni umane, tipica delle detenzioni nelle sue varie forme, ha davvero senso strategico per il capitale di esistere? Quasi certamente no. E allora come far viaggiare l’economia e i consumi a prescindere da un così alto numero di spostamenti umani?
E’ qui che, in realtà senza troppa fantasia, entra in gioco quell’ambito di nuovo lavoro-non-lavoro che sempre di più nel terzo millennio ha spopolato come forma di approvigionamento sociale, direttamente e comodamente dalle proprie casa e per mezzo dei propri smartphone: il delivery. Le piattaforme della gig-economy che tutti conosciamo, dal consolidato food-delivery fino a tutte quelle nuove forme di platform capitalism che iniziano ad arrivare anche in Italia su diretto esempio di Nord-Europa e Stati Uniti, consentono e consentirebbero di garantire l’esistenza di un unico soggetto operaio restante in circolazione nelle città della pandemia in grado di provvedere al reperimento di un qualsiasi bene per un qualunque individuo ad una qualsiasi ora (?).
Per avere un riferimento su quanto possa essere già reale come forma pre-esistente a 360° di approvvigionamento sociale (ovviamente fino ad oggi per le classi più abbienti), ma ancora di più in tempi di pandemie, suggeriamo questo articolo: http://www.intotheblackbox.com/articoli/stravolgere-il-business-as-usual/.
E infatti nella pandemia a cui abbiamo assistito fino ad oggi, assieme a servizio sanitario e ordine pubblico, l’unico ‘servizio pubblico non ufficiale’ a non essere stato minimanente centro di discussioni politiche su come, quanto e perché avesse senso di continuare ad essere erogato, è stato proprio quello del food-delivery. Nelle città deserte ai tempi del CoVid19 in giro ci sono gli sbirri, le ambulanze e i rider. Capitalizzare economicamente questa forma di precarietà, nonostante una situazione di così alto rischio sanitario individuale e collettiva, è stato semplicemente un gioco da ragazzi: per lo stesso misero salario, decine di precari e precarie impossibilitati a rinunciare all’unico reddito posseduto non hanno nemmeno preso in considerazione l’eventualità di contrarre il virus. E d’altro canto sono ben pochi gli esponenti di governo che si sono espressi sulla questione, probabilmente nell’imbarazzo di dover comunicare che “semplicemente i riders verranno normalmente sfruttati come prima perché se no è un gran casino per tutti”.
Occorre però dare anche un’altra lettura al contesto, che non smarchi dalle condizioni di sfruttamento in cui riversa questo segmento ma che individui anche un aspetto insito nell’analisi di una riproduzione sociale politicizzabile: da un punto di vista di soggettività di classe, il delivery sembra anche rendersi funzionale all’attraversamento di questa quarantena, così come lo era prima e come potrebbe esserlo in una qualunque altra situazione se lo astraiamo sempre dal contesto neoliberista in cui questo avviene. Ad esempio, le piattaforme di Glovo e Supermercato24 svolgono commissioni di spesa alimentare su richiesta e dunque possono perfino impedire che persone sole, tra giovani e anziani, che magari abbiano contratto il virus e siano costretti alla quarantena forzata, debbano comunque uscire di casa per provvedere alla propria sopravvivenza o, al contrario, debbano necessariamente privarsi anche della possibilità di fare una spesa, di procurarsi un farmaco ma anche di poter mangiare una pizza o un gelato. Del resto, chi può dire quali siano “beni essenziali” e quali no? Per quale motivo, come anticipato in partenza, “pandemia” deve fare rima con “austerità” e per di più all’interno di una contraddizione di sistema per cui tale austerità è inflitta solo ai poveri, visto che i servizi a domicilio sono loro stessi un prodotto in vendita e non direttamente accessibile?
Ed ecco dunque l’altra faccia della medaglia, ossia il “dentro e contro” questa ristrutturazione sistemica: il modo in cui starebbe tendendo a trasformarsi l’urbano e l’approvvigionamento comune, lo stesso modo di consumare ci impone l’esigenza di portare un antagonismo che proponga un modo altro di pensare al benessere e ai consumi, al reddito e all’abitare. Se il delivery è un bene a cui pochi possono accedere e lo è pure a discapito dei/delle riders sottopagat*, mentre continua ad arricchire le multinazionali del settore, SOPRATTUTTO e specialmente in questa crisi pandemica deve diventare un vero e proprio welfare, un servizio pubblico ed un diritto tanto quanto lo dovrebbe essere l’accesso ad una sanità e ad una casa sopra la propria testa, una parte di reddito inattaccabile da pretendere che tuteli i vari segmenti di classe dal dover uscire di casa o addirittura lavorare per poter sopravvivere dentro questa crisi economica.
E dentro questa istanza, ovviamente, spetta a noi lottare al fianco di questo soggetto operaio per rivendicare la massima tutela e prevenzione sanitaria al contagio, esattamente tanto quanto spetta a medici e infermieri (e, perché no, come dovrebbe spettare al personale di supermercati e ristorazione), nonché un degno salario e degne condizioni contrattuali, lavorative e assicurative.
Se la gig-economy, e si voglia dire anche della sharing-economy, è un paradigma di cui si è sempre appropriato il capitale per estrarne profitto, questo rovesciamento di ruoli e ordinarietà ci mette davanti alla possibilità di risignificare il concetto di bisogno e di lusso, di progresso e di benessere, di reddito e lavoro; questa crisi di sistema, affinchè non serva invece da trampolino ad un capitalismo ancora più autoritario e in tendenza sovranista, deve essere attraversata ancora da dentro, e contro, l’operaietà e la riproduzione del soggetto di classe, senza girarsi dall’altra parte tentando di espellere le contraddizioni ed arrogandosi il diritto di determinare cosa è e cosa non è, oggi, essenziale per la classe.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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