Manovra antisociale: la dignità del rifiuto
La questione del reddito di cittadinanza è uno dei temi centrali all’interno della manovra di bilancio del neo governo Meloni. Nel ritardo più assoluto nel chiudere la manovra entro l’anno il governo, tra uno strafalcione e l’altro, inizia a porre alcuni elementi sul tavolo, dichiarando quali sono le priorità e cosa sacrificare sull’altare della suddivisione della torta. Entro domattina all’alba la votazione dovrà essere conclusa.
In particolare si apre la crociata nei confronti dei poveri, dei giovani e degli “occupabili” tramite la cancellazione del dispositivo del reddito di cittadinanza a partire dal 2024, anticipata da un periodo in cui si diluiranno nel tempo le limitazioni a percettori attuali, anche per evitare il rischio dell’effetto bolla che scoppia tutta d’un colpo. Innanzitutto, è importante sottolineare due concetti al centro del dibattito: la “congruità” dell’offerta di lavoro e l'”occupabilità” dei soggetti interessati. Tramite l’emendamento riformulato da Lupi di Noi Moderati è stata cancellata definitivamente la parola “congrua” dal testo della norma, ciò significa che per non perdere il diritto occorrerebbe accettare qualsiasi offerta di lavoro, indipendentemente dall’ambito, dalle competenze e, soprattutto, dal tempo del contratto e dalla distanza della propria residenza dal luogo di lavoro. Dal 2023 i lavoratori considerati “occupabili” avranno diritto a soli 7 mesi di sussidio, dagli 8 inizialmente previsti in manovra, inoltre per i giovani dai 18 ai 29 anni sarà obbligatorio seguire corsi di formazione nel caso in cui non avessero terminato la scuola dell’obbligo, per poter fare richiesta.
Vi sono molte considerazioni da fare a partire dalla completa incapacità di previdenza minima rispetto a politiche attive di sostegno alla povertà, oltre alla narrazione paternalistica e offensiva, fino all’alimentazione di un’ideologia del lavoro totalmente scollata dalla realtà sociale in cui viviamo. E’ chiaro infatti che queste modifiche sul dispositivo del Reddito non sono altro che una strategia di accettazione a piccoli passi per far sì che la cancellazione del sussidio non provochi alcun gemito di contrarietà e che l’obiettivo dichiarato è quello di eliminarlo definitivamente.
Oltre alla questione che riguarda materialmente come faranno alcune milioni di persone in Italia a far quadrare il pranzo con la cena, è indicativo come queste modifiche si inseriscano in una tendenza generale che prende origine da ben prima l’esecutivo Meloni. E’ possibile infatti risalire almeno al governo Renzi per individuare una tendenza che definisce chiaramente i margini di chi ha legittimità di esistere e porre dei problemi in questo Paese e chi non ha diritto. Il lento e sistematico lavorio che si manifesta in maniera plastica nella visione della “sinistra benpensante” incarnata dal PD volto alla denigrazione dei cosiddetti “poveri” (categoria da estendere ben oltre i confini della marginalità sociale più manifesta) ha preparato il terreno per questa fase. Con una breve interruzione data dal governo giallo-verde in cui si è verificata la prima e l’ultima esperienza di pallida redistribuzione (consci che il reddito di cittadinanza fosse di per sé limitato e insufficiente sin dalla sua ideazione), l’apparato PD ha sporto su un vassoio d’argento una narrazione che non sta soltanto nelle sfere del discorso, ma che si incarna nel peggioramento delle condizioni di vita materiali della maggior parte delle persone, in particolare quelle giovani. Un’operazione che sta permettendo a chi non ha l’esigenza di mantenere la propria faccia pulita, come ci si può aspettare da un governo come questo, di spazzare via le ultime briciole di welfare e di assottigliare ancora di più le possibilità di un vivere dignitoso. L’obiettivo sotteso è quello di garantire al proprio ceto di riferimento, quello dei pochi garantiti di quella borghesia che ancora possiede una serie di privilegi, di poterli salvaguardare, parallelamente salvaguardando il proprio bacino di consenso sempre più risicato e limitato a una fascia ben precisa della società, vecchia e esclusiva. Un tentativo che vuole costruire una distanza siderale tra i poveri brutti e sporchi (tra i quali si inseriscono anche i giovani che non si confanno alla norma dell’aspirazione all’ascesa data dalla realizzazione in un ruolo sociale che non dà nulla in cambio) e quei sinistri rampolli che avranno il mandato di raccogliere il testimone dei poteri che realmente decidono in questa società conservando i loro interessi.
Le dichiarazioni di Duringon, sottosegretario al Ministero del Lavoro quota Lega, non sono altro che la rappresentazione del pallone gonfiato che dà aria alla bocca per dire ciò che pensa la parte di sinistrume che vuole tenersi cara quella fetta di ceto medio non ancora attaccato dalla crisi e che determina la legittimità di un sistema liberal ad aspirazione americana, iniquo e distruttore. Il sistema che si incarna nelle lobby del tav, nelle fondazioni private, nella gestione criminale degli ambiti pubblici come la sanità e i servizi essenziali, nei labirinti formativi utili a escludere e a formare chi formerà future giovani leve che si dovranno integrare in un sistema di profitto. Come se non fosse evidente a tutti che i laureati in Italia non solo fanno i camerieri, ma fanno anche gli spazzini, i precari nei call center, i bidelli, i postini quando va bene, i riders, i magazzinieri, i baby sitter, i sottopagati nelle cooperative sociali, quelli che vengono sfruttati nel mondo dell’accademia, i lavapiatti, le pulizie e chi più ne ha più ne metta.
A questa faccia della medaglia si contrappone però un istinto quasi di autoconservazione primitiva che non accetta. Se all’interno delle masse di giovani che si sottopongono a percorsi al limite della tortura per poter ottenere un posto di lavoro minimamente appagante e dignitoso, vi sono coloro che ci si sottopongono ancora credendo nel sistema del premio e del merito, serpeggia sempre più diffusamente un sentimento di rifiuto nei confronti di una prospettiva di vita in cui occorre essere disposti a tutto pur di arrivare a un livello minimo (?) di realizzazione sociale. Se nelle generazioni più giovani, questa intuizione ha iniziato a rendersi palese durante le mobilitazioni contro l’alternanza scuola – lavoro, tramite la consapevolezza di valere di più di ciò che viene proposto e promesso e di non voler scendere a compromessi che hanno come moneta di scambio addirittura la propria vita, lentamente si diffonde in maniera trasversale in tante fasce della società.
In questa fase alimentare queste spinte di emancipazione nei confronti del ricatto del lavoro, costruire percorsi di dignità insieme a chi non può accedere a determinati livelli della società, spingere verso una presa di posizione contro un sistema violento, può essere una prospettiva che si rende necessaria. Costruire collettivamente un lessico, un solco sociale largo in cui essere certi di avere ragione nell’opporsi e nel rifiutare questi ricatti è d’obbligo.
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