Le origini dei patogeni dell’agricoltura industriale
di Rob Wallace, Alex Liebman, David Weisberger, Tammi Jonas, Luke Bergmann, Richard Kock e Rodrick Wallace
#Biosecurity
The Origins of Industrial Agricultural Pathogens, di cui iniziamo da oggi la pubblicazione in quattro puntate, è il frutto del lavoro multidisciplinare di un gruppo di ricerca composito, formato dall’epidemiologo evoluzionista Rob Wallace, dall’antropogeografo Alex Liebman, dallo scienziato delle colture e del suolo David Weisberger, dall’agricoltore agroecologico Tammi Jonas, dal ricercatore di geografia economica Luke Bergmann, dal biologo della fauna selvatica Richard Kock e dall’epidemiologo Rodrick Wallace.
Il testo è tratto dal libro di Rob Wallace, Dead Epidemiologists: On the Origins of COVID-19, edito nel 2020 dalla Monthly Review Press.
È parte, dunque, di un lavoro più ampio di ricostruzione delle cause strutturali della attuale crisi pandemica, la cui origine e modalità di espansione è da ricercarsi negli sconvolgimenti ecosistemici e sociali prodotti dal capitalismo.
Una pandemia che nasce dalla distruzione degli habitat ad opera dell’agroindustria, per poi diffondersi sull’intero pianeta alla velocità della circolazione delle merci attraverso le reti del commercio globale, seguendo le vie dell’urbanizzazione, trasformando le megalopoli in epicentri di contagio, impattando su sistemi sanitari pubblici distrutti da decenni di politiche neoliberiste.
The Origins of Industrial Agricultural Pathogens, nel contesto di questa analisi complessiva, si concentra sul rapporto tra l’espansione dell’agricoltura industriale e la contrazione dei territori naturali, la distruzione degli elementi basilari per la stessa produzione del cibo, la creazione delle condizioni per lo sviluppo di nuovi patogeni e del loro passaggio dal mondo animale a quello umano.
Indaga le modalità della trasformazione dell’esistenza animale in merce finanziarizzata, destinata ad essere sottoposta a trattamento industriale mentre è ancora in vita – con sofferenze indicibili – all’interno di allevamenti intensivi dove lo sviluppo di nuove morbilità, sempre più selezionate e virulente, è il diretto risultato del processo di produzione, e di quelle stesse strategie di biosecurity adottate per contenerle.
Esamina l’agricoltura industriale come forme di esercizio, da parte del capitale, del potere sulla sfera della vita, anche se la vita sfugge dalle pretese di comando, magari sotto forma di patogeni o infestanti incontrollabili.
Esamina un sistema che esternalizza le sue “diseconomie”, i suoi enormi costi ambientali, sanitari e sociali scaricandoli sui territori, i loro ecosistemi e le popolazioni che li abitano (umane e non), sui lavoratori, contadini e piccoli appaltatori, e più in generale sull’intera umanità.
Descrive la complessità dei processi reali superando gli steccati fra discipline umanistiche e scientifiche, in aperta opposizione alla scienza del capitale, interna alla logica della governance biopolitica.
E infine, si pone a fianco di quelle infinite sperimentazioni e resistenze che oppongono all’agribusiness il controllo delle colture da parte delle comunità, in contrasto con le logiche di omogeneizzazione e di espropriazione.
Traduzione di Ecor.Network
Dead Epidemiologists: On the Origins of COVID-19
Rob Wallace
Monthly Review Press, 2020 – 260 pp.
Dead Epidemiologists è una raccolta eclettica di commenti, articoli e interviste che rivelano la verità nascosta dietro la pandemia: il capitale globale ha guidato la deforestazione e lo sviluppo che ci hanno esposto a nuovi agenti patogeni.
Rob Wallace e i suoi colleghi – ecologisti, geografi, attivisti e, sì, epidemiologi – spiegano le origini materiali e concettuali del COVID-19. Dal profondo Yunnan ai consigli di amministrazione di New York City, questo libro offre una diagnosi convincente delle radici del COVID-19 e una prognosi severa di ciò che, senza ulteriori interventi, potrebbe accadere, a meno che non adottiamo subito azioni radicali.
Info sul sito della Monthly Review Press.
Segnaliamo inoltre articoli e interviste di Rob Wallace già disponibili in rete in italiano:
L’agroindustria e le epidemie, intervista di Yaak Pabst (Marx 21) a Rob Wallace, su Z NET ITALY.
Il Covid-19 e le spire del capitale, di Rob Wallace, Alex Liebman, Luis Fernando Chaves, Rodrick Wallace, pubblicato da Il Pungolo Rosso.
Le origini dei patogeni dell’agricoltura industriale
L’agricoltura moderna ci sta conducendo verso la prossima estinzione di massa.[1]
Con l’avanzare dell’agricoltura, l’habitat naturale primario e le popolazioni non umane si stanno contraendo ovunque a tassi record.[2] Allo stesso tempo, l’agricoltura sta fondando al loro posto nuove ecologie. La produzione e il commercio agricolo promuovono specie invasive e relazioni xenospecifiche alternative, consentendo ad agenti patogeni emergenti, parassiti e altre popolazioni precedentemente emarginate di interrompere la funzione ecosistemica a lungo termine.[3]
In effetti, i raccolti e il bestiame rappresentano di per sé la più grande di tali introgressioni.[4]
La successione, una comunità di specie che sostituisce un’altra, è senza dubbio un processo ecologico pervasivo.[5]
Tutti i biomi della Terra hanno avuto origine in parte proprio da questa scoperta casuale, con taxa che si mescolano e si abbinano in tutto il mondo fin dalle origini della vita.
Ma c’è qualcosa di fondamentalmente diverso nella scala e nella velocità con cui la produzione guidata dal capitale ha trasformato sia l’ambiente che la comunità. Dando la priorità al profitto delle merci, un’astrazione con un impatto fondamentale nel mondo reale, l’agricoltura industriale rischia di minare la capacità rigenerativa degli insiemi biologici da cui dipendono anche la maggior parte delle attività antropocentriche, compresa la produzione alimentare.[6]
Iniziamo dunque esaminando la natura peculiare di tale produzione. Apriamo con una sintesi sull’agricoltura di oggi, seguita da una breve storia di come siamo arrivati a una tale configurazione dalle origini delle coltivazioni. Successivamente esploriamo i mezzi con cui il bestiame e il pollame sono stati trasformati in merci nelle loro stesse carni. Descriviamo come il passaggio del bestiame dall’ecologia dell’allevamento iniziale alla produzione industriale abbia contribuito a produrre esattamente la nuova raffica di malattie pericolose che ora dobbiamo affrontare. Spieghiamo come queste economie si manifestano anche nelle colture e nell’emergere delle loro infestazioni, in particolare, nel nostro esempio, nel proliferare dell’infestante Amaranto di Palmer.
Lungo il percorso, affrontiamo il modo in cui il capitale monetizza il controllo delle malattie che lui stesso crea, anche se accidentalmente. Suggeriamo che, per quanto ingegnose, le strategie di controllo delle malattie messe in atto per proteggere gli animali e le piante alimentari forniscono una difesa apparente, agendo più come uno scientismo auto-discolpante brandito contro sistemi alimentari alternativi.
Suggeriamo, cioè, che la biosecurity è una imposizione nella biogovernance, il modo in cui il capitale e i suoi alleati nel settore pubblico governano le società intervenendo nelle popolazioni umane, dai singoli corpi a più ampie demografie.
Noi sosteniamo che la biosecurity sia impiegata prima di tutto per proteggere i mercati più redditizi dell’agricoltura invasiva.
Agricoltura invasiva: Origini e capitalizzazione
Molte ricerche non comprendono che l’agricoltura stessa è invasiva.
Il divario concettuale sembra essere originato da un particolare contesto culturale. Varie forme di pensiero – dall’antico al moderno – hanno confuso la nostra percezione, eminentemente giustificabile, del fatto che noi umani abbiamo il diritto di sopravvivere, con un prometeismo profondamente radicato in contrasto con la conservazione dell’ambiente.[7] Dopotutto, l’agricoltura primordiale – tanto un atto di disperazione quanto una sfacciata innovazione quando le popolazioni di prede della megafauna si ridussero – alla fine servì come contributo fondamentale per l’espansione umana.[8]
Reimpostando le ecologie in gran parte della loro stessa visione, molte popolazioni umane acquisirono un lungo vantaggio demografico nella crescita della popolazione e nella diffusione geografica.
Tuttavia, abbinare sopravvivenza e distruzione ambientale non è una connessione necessaria. Si può accettare, anzi celebrare, la sopravvivenza umana e rifiutare le ipotesi produttiviste sulla coltivazione di prodotti alimentari a tassi sempre crescenti.[9]
Quali alimenti, dopotutto, possiamo coltivare quando gli input di cui abbiamo bisogno – terriccio, acqua dolce, controllo naturale dei parassiti, conoscenza degli agricoltori, tra gli altri – sono stati così degradati dall’agricoltura convenzionale da essere concepiti come concorrenti che devono essere sostituiti da lucrative materie prime fittizie, come fertilizzanti, pesticidi, carne prodotta in laboratorio, agricoltura di precisione e altri sostituti tecnologici ?[10]
Sebbene attualmente collocato in esplicita opposizione alla salute e al benessere pubblici, il cibo era, e per gran parte dei contadini del mondo rimane, agroecologico in origine, legato allo stato del paesaggio circostante da cui le risorse vengono continuamente assunte (e restituite).[11]
Come fonte di nutrimento organico che dovrebbe essere limitato dalla durata di conservazione, il cibo dovrebbe rimanere intimamente legato alla rigenerazione biosferica e alla comunità locale.[12]
In altre parole, un altro mondo del cibo è possibile.
In effetti, tale ricerca è in corso da lungo tempo a dispetto di un’economia politica dominante che per cinque secoli ha esteso l’egida dell’“umanità”, da cui dipende ancora gran parte del discorso ambientale, principalmente sui ricchi e gli eurocentrici.[13]
Queste alternative alimentari non ignorano la dura realtà che l’agricoltura industriale – e gli interessi che rappresenta – attualmente domina la produzione con effetti sorprendenti.
Il 40% della superficie della Terra priva di ghiaccio è dedicata all’agricoltura, ora il bioma più grande del pianeta, con molti milioni di ettari in più che verranno portati in produzione entro il 2050.[14] Pascoli e coltivazioni occupano rispettivamente il 24,9% e il 12,2% della superficie globale dei terreni.[15] Il pollame e il bestiame, che rappresentano il 72% della biomassa animale globale e superano di gran lunga quella della fauna selvatica, sono allo stesso tempo molto concentrati e molto dispersi.[16] Il 64% di tutti i polli (22,7 miliardi in totale nel 2016), dei bovini (1,47 miliardi), delle pecore (1,17 miliardi), delle capre (1 miliardo), dei suini (981 milioni) e delle anatre (1,2 milioni) si trovano sul 2% della superficie della Terra.[17] Allo stesso tempo, il 10% di questo stock si trova sul 69% della superficie terrestre.
L’impatto risultante da tale produzione antropogenica è di scala geologica. Mentre l’agricoltura utilizza complessivamente quasi il 70% dell’acqua dolce globale, il settore dell’allevamento utilizza un terzo dell’acqua e tra il 50 e il 60% dei terreni coltivati e dei pascoli per il foraggio.[18]La produzione di mangime, la fermentazione enterica, il letame, la lavorazione degli animali e i relativi trasporti producono ogni anno gas a effetto serra per 7,1 miliardi di CO2 equivalente, il 71% dell’aumento delle emissioni nel 2010.[19] Le galline ovaiole e i polli da carne industriali producono il 96% del contributo globale specifico dei polli ai gas a effetto serra (FAO 2019).[20]
Non considerando i sistemi intermedi, il maiale industriale rappresenta il 54% del contributi dei suini.
Come siamo arrivati a una simile configurazione agroambientale?
L’agricoltura primitiva del Neolitico non poteva competere con la portata dell’impatto attuale.
I nostri antenati hanno dato avvio a ciò che si è andato trasformando in una serie di riformulazioni riguardo a ethos e materia, un sistema che sostituisce l’altro, ma dove ogni ripresa di nuove produzioni avviene ancora in gran parte nei limiti di risorse naturali abbondanti, difficili da sfruttare e delimitate a localmente.[21]
Le forze della produzione agricola furono infine liberate (anche se i fattori di produzione furono sempre più, ma non completamente, privatizzati nelle mani di pochi eletti).[22] Le origini dell’agricoltura moderna si sono compenetrate con quelle del capitalismo, della tratta globale degli schiavi e della scienza, sotto il principio decisamente diverso e a doppio senso, del crescere-o-morire.[23]
Dalla prima esplorazione portoghese in poi, la scienza guidata dal capitale venne reclutata per decodificare (e ricodificare) i nuovi paesaggi e i popoli che le potenze coloniali espropriavano per la produzione di materie prime.[24] Dai primi circuiti di accumulazione del capitale attraverso l’Eurasia e l’Africa fino alle Americhe, al Caucaso e ai tropici, i terreni coltivati e i pascoli su larga scala dal 1700 al 2007 si sono quintuplicati a 27 milioni di km2, in gran parte sostituendo foresta, savana, macchia e prateria.[25]
La produzione guidata dal capitale si è ramificata nelle variazioni regionali di un sistema integrato a livello globale.[26]
Dall’accumulazione primitiva caratterizzata dalla forza delle armi e dalla costrizione economica, l’esportazione dell’estrattivismo tramite questi circuiti si è intrecciata con una vasta gamma di biogeografie attraverso le diverse combinazioni di animali e piante che le genti di ogni luogo hanno contribuito a costruire per le proprie necessità fino al momento del loro incontro con capitale.[27]
I cambiamenti nei regimi alimentari attraverso le merci e la geografia segnarono il periodo capitalista che seguì.[28]
Nell’attuale momento storico, centri di produzione agricola variabili, collegati in rete attraverso i circuiti globali del capitale e del consumo, alimentano volumi ed estensioni crescenti dello scambio di merci in animali vivi, prodotti agricoli, germoplasma e alimenti trasformati.[29]
Le espansioni sono legate a monocolture la cui diversità declina sia nelle varietà animali e che in quelle agricole.[30] La produzione industriale di linee limitate di specie monogastriche, principalmente suini e pollame, sta sostituendo le razze adattate localmente nei paesi non industriali e nella foresta primaria.[31]
Il gruppo dell’ecologo delle malattie Marius Gilbert si occupa di mappare il passaggio dalla produzione estensiva di maiale e pollo a quella semi-intensiva e intensiva nelle economie in transizione del Sud del mondo – tra cui Bangladesh, Brasile, Cina, Indonesia e Vietnam – correlandoli all’aumento delle fusioni di aziende agricole, della diminuzione dei contadini, dell’impoverimento del suolo e dell’inquinamento da letame.[32]
Lo scienziato dell’uso del suolo Kees Klein Goldewijk e i suoi colleghi mostrano come i pascoli utilizzati intensivamente per sostenere questo bestiame rappresentino il 6% dell’utilizzo del suolo per l’agricoltura, i pascoli convertiti [usati meno intensivamente NdR] il 2,4%, e i pascoli naturali non convertiti il 16,5%.[33]
Tendenze simili si riscontrano nelle colture che alimentano le popolazioni umane e il bestiame. Lo scienziato dei sistemi alimentari Luis Lassaletta e il suo team – rilevando un aumento di quattro volte del consumo di carne di maiale negli ultimi cinquant’anni – prevedono che il consumo di mangimi per suini raddoppierà entro il 2050 in assenza di un intervento in materia.[34]
L’ingegnere agricolo Ulrich Kreidenweis e colleghi prevedono che la superficie coltivata globale aumenterà complessivamente di 400 milioni di ettari entro il 2050, principalmente in Africa e America Latina.[35]
L’analista di sistemi Steffen Fritz e il suo gruppo hanno mappato la percentuale di terreno coltivabile IIASA-IFPRI e le dimensioni dei campi, mostrando che i campi dalle dimensioni più vaste sono distribuiti tra i terreni coltivati in Argentina, Australia, Brasile, Canada, Sudafrica, Stati Uniti e paesi dell’Europa orientale e dell’ex Unione Sovietica.[36]
Per sette combinazioni fra coltivazioni e Stati, utilizzando set di dati satellitari Landsat a 25 anni di distanza, i geografi Emma White e David Roy ipotizzano che gli aumenti rilevati delle dimensioni mediane dei campi siano determinati dalle politiche governative e dai progressi tecnologici, sebbene si astengano dall’analizzare il capitale dietro entrambi i fattori.[37]
Le complicazioni abbondano poiché le dimensioni dei campi variano da un posto all’altro. L’aumento della capitalizzazione, ad esempio, può ridurre la dimensione del campo, un’osservazione registrata da tempo, perfino mentre aumenta anche l’uso complessivo del suolo.[38]
Sebbene non si occupino per niente di proprietà, l’analista spaziale Jie Wang e colleghi riferiscono che le dimensioni medie delle aree coltivate a riso sono in rapido calo nella provincia di Jiangsu, in Cina, a causa della pressione demografica, del rapido sviluppo economico, dell’urbanizzazione e della concorrenza sulla terra arabile.[39] I cambiamenti nelle dimensioni dei campi, nella struttura della proprietà e nella diversità delle colture sono spesso reciprocamente dipendenti. Come succede per il bestiame, l’accorpamento dei terreni agricoli nei paesi industrializzati – riducendo il numero di aziende agricole mentre, d’altra parte, aumentano le dimensioni aziendali, la capitalizzazione degli input e il rapporto fra l’indebitamento e il patrimonio netto – ha ridotto la diversità delle colture tra le specie e all’interno delle specie.[40]
Delle colture rimaste, i cereali – riso, frumento e mais – sono aumentati in termini di resa totale, sistematicamente reinvestita in doppi e tripli raccolti, ove possibile.[41]
Le colture oleaginose – palma da olio, colza e soia – sono aumentate sia nella resa totale che nella zona di raccolta. Di conseguenza, l’agricoltura industriale sta invadendo anche l’ultima parte della foresta equatoriale.
Sotto il neoliberismo, l’ultimo regime alimentare globalizzato, i mezzi con cui il capitale si scontra con le biogeografie locali sembrano cambiare di nuovo.
Insiemi mercificati vengono riconfigurati attraverso i confini in reti multiscalari e spazialmente discontinue di radicamento territoriale variabile.[42]
La nuova multidimensionalità si riflette nei cambiamenti nella gestione aziendale, nella capitalizzazione, nei subappalti, nelle sostituzioni nella catena di approvvigionamento, nel leasing e nel land pooling transnazionale.[43]
Queste reti all’avanguardia sono integrate in modo flessibile in territori biologici e politici non contigui, ogni nodo solo opportunisticamente attento alle esigenze e alle aspettative locali, sebbene a volte l’agribusiness sia costretto a esserlo, facendo affidamento su infrastrutture locali o su un piccolo pool di piccoli proprietari a contratto, legati al marchio, per le competenze locali e l’intermediazione sociale.
Queste “Repubbliche della Soia” sembrano esemplificare la fase successiva nel modello spazializzato del geografo David Harvey della teoria generale del valore di Marx.[44]
La produzione e la circolazione del capitale si modellano a vicenda, qui all’interno di una nuova geometria socio-spaziale, che si auto-riproduce e che aumenta vertiginosamente il valore verso l’esterno. Le risultanti geografie centro-periferia, su scala nazionale e internazionale, sono sorvegliate attraverso un continuum di violenza, dalle imposizioni strutturali avvertite dall’individuo e dalla popolazione alla palese repressione armata.[45]Nell’ articolo tracceremo la relazione tra questi nuovi modi di produzione di valore in agricoltura – bestiame e pollame in primo luogo – e una gamma crescente di agenti patogeni di origine agricola e alimentare.
Una fiorente letteratura suggerisce che le crescenti concentrazioni di produzione monocolturali just-in-time, diffuse attraverso le vaste catene delle merci che qui discutiamo, amplificano l’evoluzione e la diffusione degli agenti patogeni e dei parassiti che le agricolture ospitano.[46]
Suggeriamo che questi focolai rappresentino un secondo ordine di specie invasive, che si agganciano alla stessa agricoltura industriale e si riversano anche nelle agroecologie locali che rimangono solo tangenzialmente connesse al paradigma guidato dal capitale.[47]
(1. Continua)
Glossario:
Antropogenico: derivante da attività umane.
Bioma: vasta regione del mondo caratterizzata da forme dominanti di piante e clima, che interagiscono producendo una comunità biotica distinta e unica.
Biosecurity: insieme di misure utilizzate per fermare la diffusione o l’introduzione di organismi nocivi.
Introgressione: anche detta “ibridazione introgressiva”, può essere definita come l’incorporazione permanente di geni da un gruppo geneticamente distinto (specie, sottospecie, popolazione, varietà) ad un altro, originatasi dal reincrocio di un ibrido con uno dei gruppi parentali.
Specie monogastriche: dotate di un solo stomaco (ad esempio i suini), al contrario delle specie poligastriche (ad esempio i ruminanti) il cui stomaco è preceduto da prestomaci.
Taxa: raggruppamento di organismi, distinguibili morfologicamente dagli altri per una caratteristica comune.
Xenospecifiche: relative ad innesti fra specie diverse.
Note:
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