India: come non sfamare un pianeta affamato
In India è scoppiato un nuovo ciclo di proteste degli agricoltori contro il governo Modi con scontri e lanci di lacrimogeni alle porte di Nuova Delhi. Forse una seconda ondata dopo quella che negli anni scorsi aveva attraversato il paese, ne avevamo parlato qui.
La manifestazione arriva più di due anni dopo che il primo ministro Narendra Modi ha ritirato le leggi sull’agricoltura da cui erano partite le precedenti proteste, durante le quali decine di migliaia di agricoltori si erano accampati fuori dalla capitale.
Il ritiro delle leggi sull’agricoltura nel novembre 2021 deciso dal Governo Modi è stato visto come una grande vittoria. All’epoca il governo puntava a creare un mercato nazionale unico, limitando il potere degli Stati di determinare i prezzi. Nel gennaio dello stesso anno decine di migliaia di agricoltori avevano preso d’assalto lo storico Forte Rosso di Nuova Delhi e le proteste avevano ricevuto fino a 250 milioni di adesioni. Oggi gli agricoltori accusano il governo di non aver mantenuto fede ad un impegno preso proprio per tentare di spegnere quelle proteste.
Al centro delle loro rivendicazioni vi sarebbero i cosiddetti prezzi minimi di sostegno (MSP), ossia le tariffe prestabilite alle quali il governo federale acquista i prodotti dagli agricoltor . In India il governo fissa un prezzo minimo per oltre venti prodotti agricoli, ma vi si attiene solo per riso e grano, ovvero i due cereali su cui poggia il suo principale programma alimentare che garantisce 5 chilogrammi a testa al mese a oltre 800 milioni di persone.
Negli ultimi anni l’aumento dei costi delle materie prime, l’impatto sulle coltivazioni dei cambiamenti climatici e i divieti all’export di alcuni prodotti decisi dal governo per contenere l’inflazione alimentare hanno impattato negativamente sulle entrate di numerosi agricoltori. Tanto che l’esecutivo stima che nell’anno fiscale che si concluderà il prossimo 31 marzo il settore crescerà dell’1,8% contro la media del 4% degli ultimi sette anni.
Oggi, secondo quanto riportato dai media, alla base delle proteste vi sarebbero i cosiddetti prezzi minimi di sostegno (MSP), ossia le tariffe prestabilite alle quali il governo federale acquista i prodotti dagli agricoltori, e che servono a proteggere l’attività di questi ultimi dalle fluttuazioni del mercato.
L’estensione all’India di quelle che sono ormai mobilitazioni globali del mondo agricolo può essere una buona occasione per parlare di ciò che non ha funzionato nella “Rivoluzione Verde” indiana presa ad esempio in alcuni paesi come risposta alla crisi alimentare.
Di seguito riprendiamo un interessante articolo di Glenn Davis Stone da The Conversation tradotto da Antropocene.org.
La “Rivoluzione verde” indiana, ad alta intensità di fertilizzanti, è un monito, non un progetto per nutrire un pianeta affamato.
Nutrire una popolazione mondiale in crescita è stata una seria preoccupazione per decenni, ma oggi ci sono nuovi motivi di allarme. Inondazioni, ondate di calore e altri fenomeni climatici estremi stanno rendendo l’agricoltura sempre più precaria, soprattutto nel Sud del mondo.
Anche la guerra in Ucraina è un fattore importante. La Russia sta bloccando le esportazioni di grano ucraino e i prezzi dei fertilizzanti sono aumentati a causa delle sanzioni commerciali contro la Russia, il principale esportatore di fertilizzanti al mondo.
In mezzo a queste sfide, alcune organizzazioni stanno rinnovando gli appelli per una seconda Rivoluzione Verde, rievocando l’introduzione negli anni ’60 e ’70, nei paesi in via di sviluppo, di varietà di grano e riso presumibilmente ad alto rendimento, insieme a fertilizzanti e pesticidi di sintesi. Quegli sforzi si concentrarono sull’India e su altri paesi asiatici; oggi, i sostenitori si concentrano sull’Africa subsahariana, dove il regime originario della Rivoluzione Verde non ha mai preso piede.
Ma chiunque si occupi di produzione alimentare dovrebbe fare attenzione a ciò che desidera. Negli ultimi anni, un’ondata di nuove analisi ha incoraggiato un ripensamento critico su ciò che l’agricoltura in stile Rivoluzione Verde significa realmente per l’approvvigionamento e l’autosufficienza alimentare.
Come spiego nel mio libro The Agricultural Dilemma. How Not to Feed the World, la Rivoluzione Verde ha cose da insegnare riguardo alla produzione alimentare odierna, ma non quelle che si sentono comunemente. Gli eventi in India dimostrano perché.
Una narrazione trionfale
Negli anni ’60 i responsabili dello sviluppo e l’opinione pubblica erano concordi nell’affermare che la Terra sovrappopolata si stava dirigendo verso la catastrofe. Il bestseller di Paul Ehrlich del 1968, The Population Bomb, prevedeva che nulla avrebbe potuto impedire a «centinaia di milioni di persone» di morire di fame negli anni Settanta.
L’India era il manifesto globale di questo disastro malthusiano incombente: la sua popolazione era in crescita, la siccità stava devastando le sue campagne e le sue importazioni di grano americano stavano salendo a livelli che allarmavano i funzionari governativi in India e negli Stati Uniti.
Poi, nel 1967, l’India iniziò a distribuire nuove varietà di grano prodotte dal biologo vegetale della Fondazione Rockefeller Norman Borlaug, insieme ad alte dosi di fertilizzanti chimici. Siccome la carestia non si materializzò, gli osservatori attribuirono alla nuova strategia agricola il merito di aver permesso all’India di sfamarsi.
Borlaug ricevette il Premio Nobel per la Pace nel 1970 ed è tuttora ampiamente accreditato per aver «salvato un miliardo di vite». Lo scienziato agricolo indiano M.S. Swaminathan, che ha lavorato con Borlaug per promuovere la Rivoluzione Verde, ha ricevuto il primo World Food Prize nel 1987. I tributi a Swaminathan, morto il 28 settembre 2023 all’età di 98 anni, hanno ribadito che i suoi sforzi hanno consentito all’India «di essere autosufficiente nella produzione alimentare» e indipendente dalle potenze occidentali.
Sfatare la leggenda
La leggenda comune sulla Rivoluzione Verde indiana si basa su due proposizioni. In primo luogo, l’India ha affrontato una crisi alimentare, con le aziende agricole impantanate nei modi di produzione tradizionali e incapaci di nutrire una popolazione in crescita; in secondo luogo, le sementi di grano di Borlaug hanno portato a raccolti record a partire dal 1968, sostituendo la dipendenza dalle importazioni con l’autosufficienza alimentare.
Ricerche recenti dimostrano che entrambe le affermazioni sono false.
Negli anni ’60 l’India importava grano a causa di decisioni politiche, non per la sovrappopolazione. Dopo il raggiungimento dell’indipendenza nel 1947, il Primo Ministro Jawaharlal Nehru diede priorità allo sviluppo dell’industria pesante. I consiglieri statunitensi incoraggiarono questa strategia e si offrirono di fornire all’India le eccedenze di grano, che l’India accettò come cibo a basso costo per i lavoratori urbani.
Nel frattempo, il governo esortò gli agricoltori indiani a coltivare colture da esportazione non alimentari per guadagnare valuta estera. Si passò dalla produzione di riso a quella di iuta per milioni di ettari, e a metà degli anni Sessanta l’India esportava prodotti agricoli.
I semi miracolosi di Borlaug non erano intrinsecamente più produttivi di molte varietà di grano indiane. Piuttosto, rispondevano meglio ad alte dosi di fertilizzanti chimici. Ma mentre l’India disponeva di abbondante letame di mucca, non produceva quasi nessun fertilizzante chimico. Dovette iniziare a spendere molto per importare e sovvenzionare i fertilizzanti.
Dopo il 1967 l’India ha registrato un boom del grano, ma è provato che questo nuovo approccio costoso e ad alta intensità di input non è stato la causa principale. Piuttosto, il governo indiano stabilì una nuova politica di pagamento di prezzi più alti per il grano. Non sorprende che gli agricoltori indiani abbiano piantato più grano e meno altre colture.
Una volta terminata la siccità del 1965-67 e iniziata la Rivoluzione Verde, la produzione di grano ha subito un’accelerazione, mentre l’andamento della produzione di altre colture come riso, mais e legumi ha subito un rallentamento. La produzione netta di cereali alimentari, che era molto più importante della sola produzione di grano, riprese a crescere allo stesso ritmo di prima.
Ma la produzione di cereali è diventata più irregolare, costringendo l’India a riprendere l’importazione di generi alimentari a metà degli anni ’70. Inoltre, l’India divenne drammaticamente più dipendente dai fertilizzanti chimici.
Secondo i dati delle organizzazioni economiche e agricole indiane, nel 1965, alla vigilia della Rivoluzione Verde, gli agricoltori indiani avevano bisogno di 17 libbre (8 chilogrammi) di fertilizzante per coltivare una tonnellata media di cibo. Nel 1980, erano necessarie 96 libbre (44 chilogrammi). Così, l’India ha sostituito le importazioni di grano, che erano praticamente aiuti alimentari gratuiti, con importazioni di fertilizzanti a base di combustibili fossili, pagati con preziosa valuta internazionale.
Oggi l’India rimane il secondo importatore di fertilizzanti al mondo, con una spesa di 17,3 miliardi di dollari nel 2022. Perversamente, i sostenitori della Rivoluzione Verde chiamano questa estrema e costosa dipendenza “autosufficienza”.
Il pedaggio dell’inquinamento “verde”
Recenti ricerche dimostrano che i costi ambientali della Rivoluzione Verde sono gravi quanto il suo impatto economico. Uno dei motivi è che l’uso dei fertilizzanti è sorprendentemente dispendioso. A livello globale, solo il 17% di ciò che viene applicato viene assorbito dalle piante e infine consumato come cibo. La maggior parte del resto finisce nei corsi d’acqua, dove crea fioriture di alghe e zone morte che soffocano la vita acquatica. La produzione e l’uso di fertilizzanti generano inoltre abbondanti gas a effetto serra che contribuiscono al cambiamento climatico.
Nel Punjab, il principale Stato indiano che adottò la Rivoluzione Verde, l’uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi ha contaminato l’acqua, il suolo e il cibo, mettendo in pericolo la salute umana.
A mio avviso, i paesi africani in cui la Rivoluzione Verde non ha fatto breccia dovrebbero considerarsi fortunati. L’Etiopia offre un caso ammonitorio. Negli ultimi anni il governo etiope ha obbligato gli agricoltori a piantare quantità crescenti di grano che necessità di un’alta intensità di fertilizzanti, sostenendo che in questo modo avrebbe raggiunto l’«autosufficienza» e avrebbe persino potuto esportare grano per un valore di 105 milioni di dollari quest’anno. Alcuni funzionari africani acclamano questa strategia come un esempio per il continente.
Ma l’Etiopia non ha fabbriche di fertilizzanti, quindi deve importarli, con il costo di un miliardo di dollari solo nell’ultimo anno. Nonostante ciò, molti agricoltori devono far fronte a gravi carenze di fertilizzanti.
La Rivoluzione Verde ha ancora oggi molti sostenitori, soprattutto tra le aziende biotecnologiche che non vedono l’ora di mettere a confronto le colture geneticamente modificate coi semi di Borlaug. Sono d’accordo sul fatto che essa possa offrire lezioni importanti su come procedere con la produzione alimentare, ma i dati reali raccontano una storia nettamente diversa dalla narrazione ufficiale. A mio avviso, ci sono molti modi per praticare un’agricoltura a minore intensità di input, che sarà più sostenibile in un mondo con un clima sempre più irregolare.
Glenn Davis Stone
Traduzione di Alessandro Cocuzza
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