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L’Ecuador dice si all’asilo politico per Assange. È scontro con Londra

Si respira un clima da resa dei conti intorno all’ambasciata ecuadoregna a Londra. Al numero tre di Hans Crescent una miscela esplosiva di colpi di scena potrebbe far scoppiare una crisi diplomatica senza precedenti. Ad accendere la miccia è ancora lui, l’uomo più ricercato del mondo: Julian Assange.

 

 

Fuoco incrociato

Già dalla mezzanotte di giovedì la sede diplomatica dell’Ecuador viene circondata in forze dalle polizia britannica. L’ipotesi che Assange possa lasciare il paese senza colpo ferire non viene nemmeno presa in considerazione dalle autorità locali. E alle parole dell’incaricato d’affari britannico nel paese sudamericano – «Mettiamo in chiaro in modo assoluto che se ci arrivasse una richiesta di salvacondotto, la rifiuteremmo» – seguono le minacce del ministro degli Esteri William Hague: «Entreremo con la forza nell’ambasciata e prenderemo Assange».

Non si fa attendere la reazione di Wikileaks che già in piena notte, poco dopo l’accerchiamento della sede del governo di Quito, dirama un durissimo comunicato che stigmatizza pesantemente il comportamento di Londra, definito come un’«intimidazione» portata avanti in modo unilaterale. «Un atto ostile ed estremo» si legge sul sito dell’organizzazione di whistleblowing «che non è proporzionato alle circostanze e che rappresenta un assalto senza precedenti al diritto di asilo» . Con buona pace della convenzione di Vienna (a cui la Gran Bretagna aderisce) che sancisce la sacralità delle sedi diplomatiche straniere.

E nella mattinata di ieri, mentre i sostenitori di Assange di fronte all’ambasciata inscenano una protesta terminata con qualche tafferuglio e tre persone tratte in arresto da Scotland Yard, sui network globali s’incendiano le polveri: comincia uno scambio di fuoco incrociato, fatto di reciproci j’accuse e dichiarazioni al vetriolo.

Diversi personaggi del jet set internazionale (tra cui il regista statunitense Micheal Moore già in passato schieratosi in favore di Assange), lanciano appelli attraverso internet invitando quanti si trovano nella capitale britannica a raggiungere Hans Crescent per esprimere il loro dissenso. Nel frattempo il movimento Occupy, sia a Londra che a New York, invita alla mobilitazione attraverso Twitter: meeting point l’ambasciata britannica della grande mela e quella ecuadoregna sotto il Big Ben. L’universo di Anonymous è in subbuglio e mette nel mirino l’intero network diplomatico britannico: in serata verrà diffusa in rete la lista completa dei siti delle ambasciate di sua maestà, pronti ad essere asfaltati dalla furia del network di hacktivisti, se Downing Street decidesse di giocare sporco. Anche se, questa volta, ad affrontarli c’è un degno sfidante: la crew Antileaks , i cui componenti sono additati da alcune fonti come agenti governativi. Si tratta degli stessi che, dopo aver mandato in tilt per nove giorni il sito di Wikileaks con un attaco su larga scala, la mattina di venerdì metteranno in ginocchio il network telematico di Russia Today. Intanto, sempre sui social network, rimbalzano gli inviti a condividere, attraverso qualsiasi mezzo disponibile, il noto “Insurance file”: un archivio criptato composto da 1,4 gigabyte di leaks particolarmente scottanti, di cui verrebbe distribuita la password di accesso se la vita di Assange dovesse essere messa in pericolo. Tariq Ali dal canto suo sottolinea quanto sia paradossale la situazione ingeneratasi in quelle ore («Provate solo ad immaginare cosa accadrebbe se un dissidente russo o cinese si fosse rifugiato in un’ambasciata britannica e Mosca o Pechino minacciassero di entrare con la forza nell’ambasciata»). Baltasar Garzon, ex giudice dell’Audiencia Nacional spagnola, figura dal forte spessore mediatico ed attuale avvocato di Assange, minaccia di trascinare la Gran Bretagna di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia qualora Londra provasse ad impedire l’uscita dal paese del padre di Wikileaks. Ma le parole più dure arrivano da Craig Murray: in un post sul suo blog l’ex-ambasciatore britannico in Uzbekistan attacca senza mezzi termini il comportamento del suo governo, bollandolo come «una palese violazione della Convenzione di Vienna del 1961, di cui il Regno Unito è uno dei primi firmatari, e che codifica secoli – forse millenni – di pratiche che hanno permesso alle relazioni diplomatiche di funzionare». Se il Regno Unito «sotto l’immensa pressione dell’amministrazione Obama» deciderà di venir meno agli impegni che la vincolano al rispetto del protocollo, andrà incontro a conseguenze disastrose: i diplomatici britannici sparsi per il mondo si ritroverebbero all’improvviso privi di qualsiasi protezione legale. Affermazioni che, mentre vengono sistematicamente ignorate dal circuito mainstream, suscitano immenso scalpore in rete: il sito di Murray è inondato di richieste di contatto che lo mandano temporaneamente off-line per qualche minuto.

Le repliche degli spin doctor della sponda atlantica non si fanno attendere, anche se sembrano mancare di mordente. Carl Bildt, ministro degli esteri svedese dal 2006, citando un rapporto di Freedom House, think thank statunitense di orientamento ultra-conservatore, prova a puntare l’indice contro la scarsa libertà di stampa garantita ai giornalisti in Ecuador. Il New York Times invece, in pieno revival maccartista, da ampio spazio alla vita privata di Assange. Pietra dello scandalo, la cattiva abitudine del nemico pubblico numero uno di non tirare lo sciacquone del bagno. «It’s not a joke», è costretta a specificare Wikileaks dal suo account Twitter.

Quello che invece nessun media occidentale riporta è che Assange ha più volte dato alle autorità svedesi la sua disponibilità ad essere interrogato nelle sede diplomatica ecuadoregna di Londra in relazione al caso di abusi sessuali in cui è imputato. Non solo: il ministro degli esteri Ricardo Patino afferma che l’australiano si è detto disponibile ad affrontare il processo che lo vede coinvolto in Svezia, qualora sul piatto venissero messe precise garanzie sulla sua sorte (si al processo ma nessuna estradizione negli Stati Uniti per le accuse di spionaggio a suo carico). Ipotesi cadute entrambe nel vuoto dopo la risposta negativa di Stoccolma. Anzi, la richiesta di estradizione dal paese scandinavo, ha detto Jaromil Rojo hacker di Dyne.org, è pronta già dal gennaio del 2011. Lo testimoniano delle e-mail dell’agenzia di intelligence Stratfor finite nelle mani di Wikileaks. Che ovviamente è pronta a pubblicarle on line.

 

Un destino segnato

Le dichiarazioni del ministro degli esteri britannico Hague possono essere considerate un autogol a tutti gli effetti. La minaccia di un raid nella sede diplomatica di Hans Crescent, oltre a radicalizzare la posizione di Quito – «Vogliamo essere chiari» ha detto Patino nella conferenza stampa di ieri pomeriggio «non siamo una colonia britannica, ed il tempo del colonialismo è finito» – e provocare un’ondata sdegnata di critiche a livello globale, ha ridato smalto alla figura del leader di Wikileaks e slancio all’intera organizzazione, dopo un anno di fallimenti, defezioni interne, attacchi all’infrastruttura tecnica del sito e difficoltà finanziarie. Sempre in cerca di alleati, per sottrarsi ai propositi di vendetta di Washington, e di visibilità, per non cadere in un oblio mediatico che rischiava di essergli ugualmente fatale, Assange si è ritrovato stretto tra l’incudine ed il martello: una situazione che lo ha costretto a rifugiarsi, prima ancora che nell’ambasciata ecuadoregna, alla corte dello zar Putin per guidare la conduzione di un format televisivo commissionatogli da Russia Today. Scelta questa non priva di contraddizioni e che gli aveva attirato non poche critiche.

Nei prossimi giorni saranno ben tre gli organismi internazionali sud americani a riunirsi per valutare la vicenda dell’asilo politico concesso dall’Ecuador al fondatore di WikiLeaks: sabato l’alleanza bolivariana per le Americhe (ALBA), domenica sarà il turno dell’Unione delle nazioni sudamericane (UNASUR) mentre il 23 agosto toccherà all’Organizzazione degli Stati americani (OSA). Viene da chiedersi, se questa vicenda non segni una nuova tappa nella politica delle relazioni diplomatiche tra Sud America ed “occidente atlantico”. L’inizio di una fase che sottende a nuove composizioni di rapporti di forza nello scenario globale. Dai tempi del muro non accadeva che un “nemico dell’Occidente” beneficiasse di un siffatto grado di ostinata protezione diplomatica da parte di un paese non allineato. Se questa dinamica può essere forse il segno della forza accumulata nel nuovo spazio globale da parte di una serie di attori emergenti, essa va almeno in parte imputata al potere simbolico inscritto nella figura di Assange. Se infatti oggi Quito ha gioco facile nella sua strategia, questo accade anche perché la “nemesi del mondo libero”, seconda solo al fu Osama Bin Laden, incarna caratteri squisitamente occidentali: l’ex hacker australiano viene considerato, a torto o ragione, paladino della libertà di espressione nell’era dell’informazione. Una figura a suo modo eroica, icona del sabotare impavido, adorato da un’ampia fetta dell’audience globale per aver fatto esplodere le enormi contraddizioni presenti nella narrazione ideologica di Washington e Londra. E quindi una bandiera, un grimaldello mediatico ideale per forzare quel panorama di rapporti di forza a cui prima facevamo riferimento. Ma nondimeno un cane sciolto con il suo carattere imprevedibile ed eccentrico, la sua personalità lunatica ed accentratrice, come già a suo tempo, altri pezzi da novanta, ben più ingombranti del piccolo presidente ecuadoregno (vedi il New York Times o il Guardian), avevano avuto modo di testare. Quanto Assange reggerà il gioco alle ambizioni di Correa, è una scommessa su cui pochi punterebbero e che nessuno potrebbe dirsi sicuro di vincere.

Piaccia o meno l’epopea di Julian Assange è vivido colore del nostro tempo. E non saranno certo i fucili del MI6, puntati sulla soglia dell’ambasciata ecuadoregna, a sbiadirne la tonalità. Nomade costretto ad un esilio forzato in terra straniera, vincitore di fronte ad una corte internazionale chiamata a giudicare il suo destino, prigioniero rinchiuso a Guantanamo perché nemico dichiarato dell’ordine mondiale. Quale che sia il finale, il racconto assumerà ancora maggior vigore e pathos. E l’uomo che oggi è icona pop, sarà destinato, volente o nolente, ad essere proclamato santo dalle folle della rete o martire sull’altare dell’impero. In ogni caso figura storica delle nostra epoca. In ogni caso mito intramontabile.

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