Lettera ai compagni per una riflessione sulla pubblicazione del libro “Anni di sogni e di piombo” di A. Stella – Edizioni Arcadia Libri
Lettera ai compagni
INTRO
Qualche settimana fa, il 7 di aprile, è stato pubblicato un piccolo testo sull’Autonomia Vicentina scritto da Alessandro Stella e titolato: Anni di sogni e di piombo. Il testo contiene anche la tragedia avvenuta l’11 aprile del 79 quando un’esplosione provoca tre giovanissime vittime: Antonietta Berna, Angelo Dal Santo, Alberto Graziani, alle quali purtroppo va aggiunto Lorenzo Bortoli, costretto al suicidio in carcere nel giugno del 79. Sono tutti militanti dei Collettivi Politici Veneti.
L’AUTORE
L’autore ha militato con ruolo di rilievo nei C.P.V., nella segreteria politica vicentina. Colpito da mandato di cattura all’inizio di Maggio del 79 in seguito all’inchiesta aperta dopo la tragedia di Thiene. Dopo due anni di latitanza, nel 1981, come molti altri compagni, espatria per sottrarsi alla cattura e poter ricostruirsi una vita. Prima in America Latina, poi, dopo che Mitterand concede il diritto d’asilo, in Francia. Ottiene la prescrizione dei reati nel 2000. Dal momento dell’espatrio cessa in modo definitivo qualsiasi rapporto politico con il territorio d’appartenenza. Lungo questi 35 anni sporadici rapporti, come succede quando non esiste più niente di condiviso, vissuto compreso.
In Francia si laurea in Storia ed inizia la sua carriera accademica. Oggi è il dott. Alessandro Stella, direttore di Dipartimento di Storia all’Università di Parigi. Non deve rispondere a nessuno di quello che fa, esiste solo il suo ruolo accademico.
CONSIDERAZIONI SUL METODO
Questa è una situazione che nessuno di noi pensava di dover affrontare. Finora eravamo collettivamente riusciti ad evitare che ci fosse un uso strumentale di questa materia che, come è facilmente comprensibile, morde e morderà per sempre la carne viva di tutti noi. Quando, in alcuni incontri, si è cercato di capire in che modo fosse attraversabile quel periodo storico lo si è fatto tenendo fermo il principio della massima condivisione. Quel principio è stato rotto unilateralmente dall’autore dello scritto. Da parte nostra si è cercato di recuperare la dimensione collettiva e condivisa. E’ stato fatto in incontri diretti con l’autore del testo ed anche nella forma della lettera firmata da molti di quanti hanno vissuto dal “di dentro” tutta la vicenda. Nessun risultato, anzi, una sdegnata risposta alla lettera. La critica allo scritto non evidenziava unicamente un problema di metodo, ma anche di sostanza politica. Se qualcuno si prende la responsabilità di rompere un patto sodale che dura da sempre deve esserci una forte motivazione che sia preferibile allo strappo che si sta’ consumando. A tutti noi questa motivazione non è dato conoscerla e certo nulla ha a vedere con l’agire di compagni. L’autore non risponde ovviamente ad una realtà collettiva, anche se al passato, risponde solo a se stesso, alla sua collocazione sociale e professionale.
Sia chiaro: nessuno vuole arrogarsi il diritto di essere custode di una storia, né si vuole impedire a nessun compagno di narrare o analizzare i percorsi del passato. Il punto è se questa analisi sta dentro un piano condiviso di quello che quei percorsi sono stati e hanno rappresentato, oppure se questa ricostruzione viene fatta a nome di quella storia per stravolgerla radicalmente. Del resto, l’autore nel corso del tempo non ha mostrato alcun interesse non solo al confronto con i compagni, ma anche agli avvertimenti sui rischi e i pericoli della sua ricostruzione.
IL LIBRO
E’ un libro scritto male, ripetitivo, che mai, in nessun momento approfondisce alcunché.
Sostiene una tesi il libro? Difficile definire una tesi il contenuto, ma alcune cose le dice. Le dice, senza sostenerle o motivarle, ma ci sono. Quella che si individua come il pensiero conduttore riguarda le armi. ““Pag. 64 Infine, l’uso delle armi, che oggi sappiamo porta fino alla follia una parte dei soldati impegnati nelle guerre, può rivelarsi determinante nella sconfitta di un movimento guerrigliero. ( )Pag. 63 Fra altri fattori determinanti della sconfitta del movimento degli anni 70, va senz’altro annoverato che l’appello alle armi contiene in se stesso il germe della deriva negativa.( ) …la dinamica psichica e relazionale introdotta dall’uso delle armi é arrivata rapidamente a corrompere anime buone, a rendere spietate persone dolci e affettuose, e finalmente a stravolgere i valori dai quali erano partite. Senza parlare del fatto che il richiamo delle armi fa accorrere ad arruolarsi gente che non é minimamente animata da buone intenzioni, ma attratta dal fascino della violenza, dal potere sugli altri che le armi infondono. ( ) Pag. 65 L’appello alle armi, a cui avevamo risposto in maniera “romantica”, si era finalmente rivelato una tragedia e una trappola.”
Ricorrono con ossessione, introdotte continuamente, sono al centro della scrittura del testo. L’ossessione porta l’autore a mettere sullo stesso piano i mercenari di professione, i robocop che vediamo all’opera in tutti gli scenari di guerra, con l’agire di chi negli anni 70 ha praticato l’uso della forza. Le armi devastano psichicamente ci viene detto, cambia in peggio le persone buone, permettono l’esistenza dei pentiti, che invece sono dei feticisti delle medesime. Le armi sono in questo testo del tutto decontestualizzate dalla progettualità politica, assumono una propria autonomia, diventano causa e motivazione di quanto succede. Motivano la sconfitta. Difficile dire dove si sia consumato questo film dell’orrore. Di sicuro non all’interno del progetto politico dei Collettivi Politici Veneti, dove l’uso della forza era sempre e solo misurato nella costruzione del contropotere di massa. Allora da dove nasce questo film, cosa lo sostiene e motiva. L’autore ci spiega la sconfitta in rapporto a se stesso, dopo di me il diluvio può essere la sintesi. Da quando nell’81 se ne è andato tutto è sparito con lui. Di più, termina la scritto spiegandoci che chi è vissuto in Italia in questi trent’anni, è meno libero di lui nel parlare degli anni 70. Ma su questo torneremo. Lo scritto parla di sconfitta in continuazione e lo fa spostando la materia storica dal piano politico, progettuale e collettivo al piano esistenziale, negando qualsiasi ipotesi riferita alla ricerca sul campo del punto di rottura che rovescia in rivoluzione comunista la crisi capitalistica. Facendo questo opera un ribaltamento di senso, non più la definizione, la conquista quotidiana di una pratica rivoluzionaria e comunista, ma un attraversamento individuale, da singoli soggetti. La progettualità rivoluzionaria, costruita collettivamente, viene negata in modo da diventare così una sommatoria di singoli individui, diventiamo un gruppo di amici come viene scritto, che vivono quel periodo storico attraverso un approccio fatto di romanticheria, totalmente ideologico, esistenziale appunto. Non troviamo una parola che approfondisca, o anche solo che ci dica cosa è stata l’Autonomia Operaia in rapporto alla crisi economica, (quella della linea sindacale dell’EUR, dei sacrifici Berlingueriani ecc ecc), che spieghi come sia potuto succedere che quella composizione di classe, l’operaio sociale, operasse dentro i rapporti di produzione, diventasse rottura rivoluzionaria. Ovviamente assumendo la sconfitta come unico paradigma politico deve per forza operare questa precisa revisione storica, e lo fa attraverso l’uso strumentale ed ideologico dell’uso della forza. Mettendo tutto sullo stesso piano, come se non esistessero progettualità diverse. Pag. 63 “Nel militante rivoluzionario finisce per far cambiare (l’uso delle armi n.d.r.) riferimenti e abiti, in senso metaforico come letterale : quanti, io compreso, sono passati dall’eskimo alla giacchetta, dall’impermeabile tipo ispettore Colombo fino al doppiopetto, ai tempi della clandestinità!” Distorcendo in modo ridicolo la costrizione alla latitanza, in quanto inseguiti da un mandato di cattura con la clandestinità, cosa che non ci ha mai riguardato. Cosi ci viene descritta la vicenda storica. Una ricostruzione della storia indegna, come solo un reazionario può concepirla.
Non è facile incontrare simili scritti in quanti hanno militato. A noi non è mai successo.
Abbiamo scelto queste due citazioni perché danno il segno di come vengono descritte pagine di storia dolorosissime. Dove le parole devono essere pesate e pesate ancora, dove deve emergere sempre la responsabilità di quanti hanno provocato simili tragedie.
LORENZO BORTOLI (pag. 14)
Citiamo,
“Il ruolo di logistico assunto da Lorenzo gli andava bene anche per questo: dopo il lavoro, invece di annoiarsi come noi nelle riunioni e assemblee interminabili, lui se ne stava tranquillo in casa, a leggere, dipingere, fare all’amore con la sua bella Antonia. Lorenzo non era un playboy muscoloso, anzi, ma Antonietta era rimasta affascinata dalla sua personalità, mite, simpatico, esistenziale che era.”
Già la descrizione della quotidianità di Lorenzo ed Antonietta è insopportabile, ma il peggio avviene quando viene introdotta la tragica vicenda che conduce Lorenzo al suicidio. Cominciamo con la frase che ci introduce alla vicenda: Il suicidio di Lorenzo non stupì nessuno. Che frase orribile, che frase cinica. Il suicidio di Lorenzo non stupì nessuno. Quanto toglie una simile frase in apertura della ricostruzione dell’accaduto alle responsabilità dei magistrati? Perché si usa una simile frase come approccio a tutta la tragica vicenda? Lorenzo subisce dal momento dell’arresto un trattamento durissimo, prima con il riconoscimento dei corpi straziati, poi in totale isolamento, accompagnato da un mandato di cattura dove veniva indicato come responsabile della morte dei tre compagni, con lo scopo immediato di vederlo crollare, di utilizzarlo a sostegno dell’accusa. Infatti i compagni che l’hanno incrociato dentro la caserma dei C.C. di Thiene la notte dell’undici lo descrivono come irriconoscibile e piegato dal trattamento a cui è immediatamente sottoposto.
Gli viene costruita addosso una enorme pressione perché l’inchiesta del 7 aprile poggia sul niente mentre a casa di Lorenzo era stato trovato materiale importante. Di qui la volontà di vederlo crollare, e di fare quanto possibile perché questo avvenga subito. Ecco allora l’arrivo a Vicenza da Padova del P.M. Calogero, ma anche del giudice Amato, titolare del Moro Ter, da Roma.
Altrimenti perché metterlo in cella con il Pozzan (il piccolo pentito dell’inchiesta) quando in quanto intestatario dell’appartamento esploso l’11 aprile era già certa una pesante carcerazione. Si mette in moto una forte campagna pubblica che chiede la scarcerazione di Lorenzo per motivi di salute dopo due tentativi di suicidio. Assemblee, manifestazioni, raccolte firme, istanze degli avvocati ecc. ecc.. Nonostante questo a Lorenzo non vengono lasciate alternative: o ti pieghi e collabori oppure scegli di sottrarti dandoti la morte. Lorenzo si sottrasse e come scrivemmo allora fu il suo un gesto di lotta, di amore per tutti noi oltre che di Antonia, Alberto ed Angelo. Un gesto che non dimenticheremo mai. Niente di tutto questo ci viene detto, troviamo che c’è stata la trappola dei magistrati di cui niente si sa. Non una parola su chi costrinse Lorenzo alla morte: il p.m. Rende, Il g.i. Nitto Palma, il medico del carcere Mundo, il direttore dell’epoca del giornale di Vicenza. Invece no, la chiave di lettura proposta riguarda la debolezza di Lorenzo, come ci viene spiegato a pag. 15. “Quando Lorenzo venne a sapere che la sua debolezza era stata usata per estorcergli informazioni accusatorie contro di noi, sprofondò ancora di più in uno stato depressivo dal quale non si risollevò, e maturò la decisione irreversibile del suicidio.”
Il medesimo impianto assolutorio dei responsabili lo troviamo anche quando il testo ci introduce alla morte di Pedro.
PEDRO (pag. 64)
“Infine, l’uso delle armi, che oggi sappiamo porta fino alla follia una parte dei soldati impegnati nelle guerre, può rivelarsi determinante nella sconfitta di un movimento guerrigliero. (sic!) L’abbiamo imparato sulla nostra pelle: l’uso delle armi non solo da la possibilità di minacciare, ferire o uccidere, ma anche quella di essere ammazzati. E’ successo ai compagni di Thiene, come qualche anno dopo ad un altro compagno ed amico, Pietro Greco, “Pedro”.”
Sono le armi a spiegarci l’omicidio di Pedro, non troviamo assolutamente niente che ci indichi le precise responsabilità della Polizia di Stato, di come si sia trattato di un agguato predisposto, di un barbaro assassinio a freddo. Anzi, peggio, ci vie ne detto che Pedro è focoso, che vuole scappare, che si strattona con i poliziotti, che ha un ombrello. Informazioni queste date all’epoca da chi aveva pianificato e gestito tutta l’operazione, che servivano solo togliere responsabilità agli assassini di Pedro. E’ incredibile come questa spazzatura possa essere stata usata in questo testo. Come si può usare un simile approccio? E questo nonostante l’enorme lavoro di controinformazione che venne fatto all’epoca per denunciare le responsabilità dello Stato. Di questo non esiste parola, come se lo sforzo fatto allora dai compagni non fosse degno di menzione. Come non c’è parola sui responsabili, Passanisi, Bensa ecc. ecc.. Niente che indichi negli apparati repressivi tutta la responsabilità di questa barbarie di Stato, niente.
Entrambi questi passaggi del testo ridimensionano enormemente le responsabilità di magistratura e poliziotti. Ricorre per tutto lo scritto questo impianto. Nessun giudizio che approfondisca sulle leggi dell’emergenza, sull’uso dei pentiti, che invece vengono citati a sostegno del feticismo delle armi, sull’uso della tortura. Vengono ridimensionate le responsabilità dello Stato per caricarle sul movimento rivoluzionario. Un’operazione ignobile.
RUOLO INTELLETTUALI (pag. 62)
Pagine orribili, quelle che nel testo parlano degli “intellettuali”. Citiamo:
“Una parte rilevante nella sconfitta, cioè nella connotazione negativa data al movimento
sboccato nell’uso delle armi ( “terrorismo”, “anni di piombo”), é attribuibile a quella che può
essere definita la “trahison des clercs”, cioè l’attitudine assunta da alcuni intellettuali al
momento del loro arresto. Questi avevano assunto il ruolo simbolico di capi, di teorici, di leader, del movimento rivoluzionario, e con i loro scritti avevano se non influenzato (certi libri erano
perfettamente incomprensibili alla maggior parte dei militanti …) senz’altro offerto elementi
di legittimazione alla rivolta e incitato operai, studenti e proletari a fare la Rivoluzione, con
qualunque mezzo possibile, anche le armi se necessario. Poi, al momento di assumere coerentemente le proprie responsabilità, alcuni si sono tirati indietro, prendendo le distanze
dai militanti dei gruppi armati e proclamandosi estranei, totalmente innocenti della deriva
militarista. Sul piano del diritto comune sarebbe pure stato vero, ma siccome si trattava di
processi politici furono comunque condannati anche loro.
Non si trova una parola che denunci l’uso sistematico, generalizzato della carcerazione preventiva a sostegno del teorema Calogeriano, dimenticando, tra le tante cose come fossero irrilevanti, i sei anni di carcere speciale a cui i compagni Emilio Vesce e Luciano Ferrari Bravo, della redazione di “Autonomia – settimanale comunista”, furono costretti …venendo poi assolti in sede processuale in via definitiva!
Difficile davvero commentare uno scritto che fa propria la tesi Calogeriana.
Lo scritto continua:
“Ma la dissociazione da quelli che erano stati loro compagni e a volte loro amici, oltre che dalla propria storia, portò un colpo fatale all’immagine dei gruppi armati, che si ritrovarono orfani, senza una genealogia nel movimento operaio e rivoluzionario, rigettati nella “cattiva gioventù” che lo Stato poteva punire. Quando fra di noi avevamo stabilito una regola etica, che si voleva la base di una morale comunista : non importa chi fa questo e chi fa quello, chi fa l’operaio e chi il docente universitario, chi scrive e chi spara, chi fa volantini e chi molotov, i ruoli non importano perché facciamo parte di uno stesso progetto, di una stessa organizzazione, di cui ci assumiamo ognuno e collettivamente tutte le responsabilità.”
Lasciamo il commento e l’incazzatura a chi li viene denigrato.
MORO (pag. 92)
In contemporanea con il sequestro Moro, il sindacato firma un accordo all’Alfa in cui concede 8 sabati lavorativi anziché chiedere aumenti salariali, il risultato della politica sindacale dell’EUR. Parte una campagna nazionale contro l’uso degli straordinari, contro l’allungamento dei tempi di lavoro, per scardinare la giornata lavorativa. Lavorare meno per lavorare tutti. Inizia cosi anche la straordinaria stagione di lotte autonome nell’alto vicentino che si protrarrà sino all’11 aprile del 79. Da parte delle B.R. l’attacco al cuore dello stato, noi invece a praticare il sabotaggio, anche armato, della giornata lavorativa sociale. Perché non rendere visibili le diverse progettualità a partire da quella che noi stavamo costruendo? Ricostruire nel modo in cui viene fatto questa vicenda ha l’unico scopo di lavarsi la coscienza in quanto docente universitario ma non aggiunge niente alla riflessione su quel periodo.
LIBERTA‘ (pag. 115)
Senza usare particolari giri di parole ci viene spiegato perché noi, che abbiamo sempre vissuto in Italia in questi ultimi decenni, siamo meno liberi di entrare dentro gli anni 70. Citiamo testualmente:
“La visione di quegli anni, per chi come me ha avuto il privilegio di vivere gli anni
seguenti in libertà, fuori dall’Italia e dalle sue vendette, e soprattutto fuori dal carcere, è di
segno probabilmente differente di quella di chi ha dovuto subire gli anni della repressione, dei
carceri speciali, della pubblica ignominia. La mia parola è probabilmente meno imbarazzata di
quella di chi, oltre al carcere, ha dovuto subire la disciplina dell’ordine e del silenzio.”
Cosa si può dire a commento di quanto affermato?
Superficialità ed ignoranza raggiungono una profondità tale da risultare offensive per migliaia di compagni che dopo avere attraversato la carcerazione, e comunque subito la repressione, hanno saputo e voluto rimettersi a tessere reti di movimento. Ma soprattutto vuol dire che l’autore non ha capito assolutamente niente di quanto da allora si è costruito, pensando che la sua sconfitta sia estendibile a tutti.
Questa iniziativa editoriale non è solo indegna rispetto alla ricostruzione storica dell’Autonomia vicentina e veneta, ma determina un approccio sbagliato nel presente. Muove da una chiave di lettura della vicenda esclusivamente incentrato su se stessi e quindi autoreferenziale, ponendo sullo stesso piano la condivisione della progettualità rivoluzionaria con le scelte di carattere personale. Così come sembra essere stato esclusivamente individuale l’attraversamento del conflitto sociale, così è altrettanto individuale la via di fuga successiva, che assume la forma della carriera personale.
Basta leggere a pag.108 il modo penoso in cui vengono descritti gli ultimi trent’anni.
“Fra gli altri compagni di Thiene, c’è chi si è messo a fare l’artigiano, chi il piccolo commerciante. Ognuno a suo modo e secondo le sue opportunità è comunque riuscito a tirarsene fuori ed a andare avanti degnamente. Tra chi è partito e chi è rimasto in Italia, esperienze e destini hanno variato. Chi è partito all’estero ha potuto godere della libertà e costruirsi una vita sociale, un lavoro, una famiglia, con tutte le difficoltà degli emigranti certo, ma senza il peso della stigmatizzazione sociale. Chi è rimasto in Italia, dopo gli anni di carcere ha dovuto subire le mille difficoltà del reinserimento legate alla qualifica di terrorista. Ma si può dire che praticamente tutti gli ex militanti autonomi degli anni 70 sono poi riusciti a cavarsela sul piano professionale. C’è chi si è messo a fare il ristoratore, l’artigiano, l’imprenditore o il commerciante, chi il ricercatore e chi l’informatico, ma nessuno ha più fatto l’operaio di fabbrica, nessuno si è più sottoposto ad un padrone, ad una gerarchia di comando. Almeno sul piano personale, ciascuno si è costruito la propria “autonomia”.”
Quale può essere il senso di simili affermazioni? Cosa vuol dire tirarsene fuori, da cosa bisogna tirarsi fuori? Da cosa l’autore si è tirato fuori? Noi ci vediamo unicamente un desiderio di auto assoluzione per come l’autore ha deciso di spendere la propria vita. Nulla di quanto affermato riguarda il vissuto reale di chi ha continuato a vivere nel proprio territorio, compresi quanti hanno comunque mantenuto una forte internità alle lotte sociali ed alla loro organizzazione. Subendo denunce, perquisizioni, fermi, multe ecc. ecc. altro che il peso della “stigmatizzazione sociale”. Quello che l’autore non capirà mai riguarda il fatto che molti di noi qua hanno continuato a lottare, ad organizzarsi, a produrre condivisione politica e progettuale. Altra cosa che fare unicamente lo storico.
I CENTRI SOCIALI DEL NORD EST
Finora l’attenzione si è focalizzata sul libro ed il suo autore. Senza nulla togliere alla responsabilità dello “storico”, una cosa è l’involuzione di un ex militante, altro è sostenerlo pubblicandolo. Il libretto viene edito da Edizioni Arcadia e presentato martedì 7 aprile in anteprima con l’autore presso il centro sociale Arcadia di Schio. Nei giorni successivi viene presentato anche al centro sociale Bocciodromo di Vicenza, entrambi fanno riferimento ai C.S. del Nordest. Con la pubblicazione la vicenda assume una forma politica del tutto inaspettata e che agisce sul presente. E’ questo il motivo che ci costringe, attraverso questo scritto, a prendere posizione nella forma pubblica. Non è più quindi un problema soggettivo, nostro, con l’autore ma assume una forte valenza politica, che interessa l’intero Movimento. Definisce l’approccio, la strumentazione politica attraverso le quali si indagano gli anni 70 da parte di soggetti che oggi dichiarano di praticare un terreno di rottura rivoluzionaria, quali intendono essere i C. S. del Nordest, oggi Spazio Politico Comune. Affrontiamo allora questa realtà consci di entrare in un terreno delicatissimo: riguarda il giudizio politico che la soggettività che agisce nel presente dà delle proprie radici. Radici che affondano interamente nella potenza di quel periodo storico, almeno per quanto riguarda il Veneto, dal momento che ancora quella soggettività, “anni 70”, fu la protagonista delle occupazioni dei C.S. che oggi pubblicano il libro come il Pedro od il Rivolta. Questo è l’approccio? Questo è il modo di affrontare l’argomento? Sull’Autonomia Operaia esiste una discreta pubblicistica, con vette di assoluta qualità: la trilogia “Gli Autonomi” di Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti, Rosso di Valerio Guizzardi, i due libri di Mentasti sulla Magneti Marelli e su Senza Tregua e molti altri, oltre alla possibilità di coinvolgere ed intervistare direttamente moltissimi protagonisti di quella stagione di lotta. Questi testi sono importanti oltre che per il rigore, la passione, l’intelligenza con la quale si è definita l’eresia storica dell’Autonomia anche perché introducono un modo “alto”, responsabile, maturo in cui collocare qualsiasi tentativo di scrittura, da qualsiasi parte d’Italia provenga. Davvero odioso pensare al modo in cui è stata fatta precipitare tutta questa vicenda. Difficile capire come e perché viene data la parola ad una persona assente da oltre trentanni senza il minimo coinvolgimento dei compagni che hanno vissuto quei momenti e che sono stati interni a tutte le lotte in regione, comprese le occupazioni dei centri sociali che hanno pubblicato questo scritto. A noi questo non è dato sapere, immaginiamo da parte dell’editore e dei Centri Sociali del N.E. una forte motivazione politica a sostegno della bontà di questa iniziativa. Sarà il nuovo che avanza….
FINALE
Quello che a noi sottoscrittori interessa mettere in evidenza riguarda l’impossibilità di ricavare dallo scritto una qualsiasi chiave di lettura che permetta a chi oggi ha vent’anni, ed è coinvolto nel conflitto sociale, di comprendere correttamente cosa sono stati gli anni 70, per poterli spendere nel presente. Gli anni 70 non sono stati, come ci viene raccontato in questo testo, una storia esistenziale di un gruppo di amici, che muove da forme individualiste, impedendoci così di leggere quanto allora è stato prodotto e condiviso. Non è stata la storia di una una sconfitta ma la conquista concreta, collettiva, di un progetto rivoluzionario, comunista, praticata in un territorio circoscritto tra Malo, Breganze, Piovene e Schio. Un territorio che forse arriva alle 100.000 persone ma che ha avuto la forza e l’intelligenza di produrre un conflitto che solo l’immensa vendetta di Stato scatenatasi dopo l’11 aprile è riuscita a costringere sulla difensiva. Ci siamo difesi, diritto sacrosanto, non ci siamo mai, mai e poi mai sentiti sconfitti. E tutto questo portando con noi la lacerazione insanabile della perdita di Antonietta, Angelo, Alberto e Lorenzo. I compagni vivono nelle lotte, quante volte l’abbiamo gridato in piazza in tutti questi anni, ma gridandolo li portavamo con noi, nella nostra volontà di cambiare lo stato di cose presenti.
L’autore ha scelto di fare altro.
Donato Tagliapietra, Luciano Mioni, Mimmo Sersante, Fabrizio Sormonta, Gianni Andreose, …
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