
L’Evasione Impossibile : Sante Notarnicola

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Nel carcere niente viene fatto. Non  c’è un direttore che possa vantare di avere “redento” un solo detenuto:  la stragrande maggioranza di essi è colpevole di recidiva. Questa è una  delle cose che mi colpì maggiormente quando entrai nel carcere: il  completo abbandono in cui viene lasciato il detenuto. Spesso mi sono  chiesto cosa succederebbe se uno di questi funzionari dovesse lavorare  nel settore industriale e magari gli fosse affidata un’officina e questa  sfornasse il 100 per 100 di pezzi difettosi; indubbiamente perderebbe  il posto per incapacità. Ebbene, nel carcere non si fa caso a questi  insuccessi, solamente perché essi sono premeditati. Stando così le cose  quindi, solo il proletariato può risolvere questa situazione perché è  lui che paga in prima persona: di qui la validità di tutto il lavoro  politico nel carcere. Comunque non è che tutti nel carcere siano  disposti a sentire il discorso che si porta avanti; a molti la società,  così come è formata, va benone, per esempio i lenoni, certa malavita  organizzata in racket; quindi anche nel nostro interno c’è una linea di  demarcazione che generalmente viene tracciata lasciando da una parte i  requisitori cioè i ladri e i rapinatori e dall’altra gli sfruttatori  della prostituzione, i truffatori, e è coi primi che noi si agisce e si  parla.
 Il lavoro è diverso a seconda dei posti in cui si è rinchiusi. In un  grosso carcere giudiziario, tipo Le Nuove o San Vittore, cè un lavoro  più rivendicativo da fare. I motivi sono diversi. Ci sono più giovani,  cè più caos, più contatto con lesterno, dato il continuo via vai dei  detenuti, poi cè la presenza costante degli avvocati, anche dei  magistrati, e la stessa città da cui non ci si sente sradicati come  succede qui nei penali. Inoltre nei giudiziari delle grandi città  entrano continuamente le avanguardie rivoluzionarie, che a volte con la  sola presenza creano un ambiente più politicizzato e sono quindi di  grande aiuto ai compagni interni che da tempo lavorano. Poi si lavora  con gente che in gran parte esce subito, magari dopo pochi mesi e  psicologicamente anche questa è una spinta.
 Nei penali invece tutto è più tranquillo, più sonnolento: manca pure  quellansia per il processo, nemmeno se ne discute più e, dato che la  maggior parte ha alle spalle condanne pesanti, in gran parte cercano il  posticino di lavoro più comodo, che spesso può anche diventare fonte di  ricatto da parte della direzione. Qui, in condizioni diverse da quelle  dei giudiziari, il compito del compagno cambia: non si lavora più sulla  massa, gran parte della quale per i lunghi anni passati in carcere è  amorfa, ma si lavora sui singoli detenuti, in genere si scelgono  compagni che hanno inclinazioni al dibattito, che hanno pure determinate  caratteristiche tecniche notevoli. In genere è bene conquistare il  personaggio perché questo ha attorno a sé della gente, è circondato di  simpatia allinterno e si arriva attraverso lui con più facilità alla  costruzione di un gruppo. In passato il lavoro è stato più facile fino a  che le direzioni non si sono rese conto di ciò che si stava creando. I  primi tempi i nostri gruppi erano guardati con ironia e sufficienza,  oggi le cose sono diverse, sono cambiate. Dopo alcune iniziative di  denuncia compiute dalle nostre avanguardie attraverso i giornali ci  guardano con più diffidenza e la repressione è già cominciata.
 I primi a farne le spese sono stati naturalmente i giornali, i giornali  dei gruppi extraparlamentari; ormai in parecchi penali è stato proibito  l’ingresso della stampa rivoluzionaria, di quest’arma formidabile di  formazione e d’informazione e con essa anche i libri che prima entravano  con relativa facilità. Ma il mezzo più usuale che hanno adottato è  quello di spostare continuamente i compagni più attivi, quelli più  preparati. Cè gente che in questi ultimi tempi è stata trasferita 4-5  volte nel giro di pochi mesi da un carcere allaltro, anche di più, mi  dicono. Praticamente non lasciano il tempo di abituarsi a un posto, non  so, di cominciare a stabilire i contatti con i compagni interni ed  esterni, che già è l’ora di ripartire altrove e a lungo andare questi  viaggi diventano pesanti e stancano i compagni. Ogni trasferimento  comporta nuovi problemi e sono poi sempre i carceri peggiori e quelli  più lontani che ci toccano. In altri posti le direzioni mettono in moto  la provocazione per dividerci e isolarci dalla massa. Generalmente ci  mettono contro i locali, che logicamente hanno tutto linteresse a non  essere trasferiti lontano dalle famiglie e spesso si assoggettano a  uningiustizia pur di evitare il trasferimento. Per esempio il  maresciallo Forte di Augusta un giorno ha radunato il gruppo dei  detenuti più vivaci, più ribelli e ha detto loro: Su 300 detenuti,  guardate che 250 sono con me, oltre alle guardie, quindi se volete la  guerra io ve li scaglio contro tutti. Vedete, per la direzione è  sufficiente ridurre lorario dei colloqui e togliere alcune piccole  agevolazioni perché una parte dei detenuti si metta contro di noi. È  quello che succede qui a Lecce negli ultimi tempi. Vengono presi  individualmente e magari diffidati dal passeggiare con noi o dal  parlarci, in breve si cerca di emarginarci. In questo carcere si è  arrivati a far circolare voci calunniose su un nostro compagno proprio  per colpirlo nella sua dignità e metterlo in condizione di non fare più  niente, tanto che è stato costretto a chiedere lui stesso di essere  trasferito. Poi esiste unaltra arma che viene spesso adoperata, quella  di frenare la corrispondenza, di annullarla fra carcere e carcere, coi  compagni esterni, quindi tutto il lavoro subisce un rallentamento, una  sosta e bisogna allora ricorrere a sostanziali modifiche espressive,  proprio per evitare che sia cestinata. Pensate poi che quaggiù sono i  preti a censurare le lettere. Col tempo prevedo che questo stato di cose  potrà peggiorare e non sappiamo ancora quali sviluppi possa avere.  Comunque abbiamo messo in moto una macchina che non sarà più possibile  fermare. Ormai in quasi tutte le carceri possiamo contare su piccoli  gruppi che operano e quindi fra poco anche la tecnica dei trasferimenti  improvvisi non sarà più valida e per ora noi che la subiamo ladoperiamo  per incontrare nuovi compagni, per scambiarci le opinioni e le  esperienze.
 Di gran lunga più difficile il lavoro politico nelle carceri del sud,  dove lassenza di una tradizione operaia si riflette pure allinterno del  carcere, ma più grave è la psicosi del fascismo. Al nord, anche il più  qualunquista e meno impegnato quando sente parlare di fascismo arriccia  il naso, qui invece è diventato il pensiero delirante, specie fra le  guardie di custodia; e anche tra qualche detenuto, ma questi ultimi è  più facile farli tacere! Un sottufficiale delle guardie di custodia,  proprio qui a Lecce, tempo fa ha minacciato: Se il 7 maggio vinciamo, vi  facciamo un culo così a voi comunisti! Chi l’ha sentito mi ha  assicurato che era convinto di ciò che diceva. Malgrado tutte le  difficoltà molti di noi hanno preso coscienza e abbiamo capito che  ognuno di noi da solo non è niente, che noi tutti non siamo pazzi, o  tarati o anormali, siamo solo dei ribelli che abbiamo perduto a volte la  strada, sbagliato strada, ma in quanto sfruttati e oppressi. Noi siamo  il prodotto inevitabile di questo tipo di società. Non si tratta di  eliminare noi o il reato individuale: è impossibile; si tratta invece di  cambiare le condizioni sociali che determinano questo stato di cose per  cui tutti noi dobbiamo unirci a tutti gli oppressi e agli sfruttati per  creare un mondo migliore senza badare se la nostra sorte personale ci  permetterà poi di godere i frutti del nostro lavoro. Questo è possibile  anche nel carcere, dove cè tanta gente psicologicamente e moralmente  repressa, regredita, a causa delle condizioni di vita precedenti e  successive all’arresto.
L’evasione impossibile – Sante Notarnicola, edizione Scribd
Il brano: “Fu il primo segno di risveglio. E ci chiamarono teppisti”
“… Cominciai a lavorare sul serio, al mattino mi alzavo alle 5 per il primo turno; oppure rientravo a casa a mezzanotte quando facevo il secondo stanco morto, abbattuto. Al circolo continuavano a rompermi le scatole perché facessi attività di partito. Il Capra ingenuamente arrivava perfino al ricattino involontario: ‘Come, noi ti abbiamo aiutato a trovare un posto, ora datti un po’ da fare’. Così cominciai a lavorare per la cellula, il sindacato, la commissione interna. Ma in modo svogliato. Poi vennero i fatti di Piazza Statuto.
Fu il primo segno del risveglio. Nell’estate del 1962, per la prima volta la base rivoluzionaria scavalcò apertamente il partito, mandò affanculo i vecchi tromboni. La battaglia durò tre giorni e l’Unità ci chiamò teppisti allineandosi coi borghesi. Fu il crollo per molti compagni delle ultime illusioni di un ravvedimento rivoluzionario del Pci. Mi ricordo di Pajetta: era con noi, non sapeva cosa fare, il grande dirigente non era più davanti a un folla entusiasta, ma in mezzo a gente esasperata che gli stava mangiando il piedistallo eretto in tanti anni sul suo passato di combattente. Quando gli arrivò una pietrata, allora si risvegliò mettendosi a sbraitare contro i padroni e gli sbirri, spingendoci all’attacco. Il suo passato di partigiano riemergeva dall’inconscio. Poi, a mente fredda, il giorno dopo, sull’Unità ci chiamò fascisti! Demmo tante botte in quei giorni e ne prendemmo. Alcuni compagni del gruppo come ‘Piero il tranviere’ erano addirittura arrivati con le pistole. Mi ricordo bene di Adriano in quei giorni, si batteva contro tre o quattro poliziotti per volta.
La delusione più grossa l’avemmo l’ultimo pomeriggio; la polizia,  quelle carogne fasciste del battaglione Padova avevano arrestato uno dei  nostri più cari compagni della Fgci, Garino. Si era rimasti in pochi,  eravamo alla fine; durante una delle ultime cariche Garino si era  buttato avanti da solo, contro i plotoni che avanzavano compatti. Lo  chiusero in mezzo pestandolo selvaggiamente, cercammo di strapparlo ai  poliziotti, ma erano in troppi, ci ritirammo tutti pesti. Poi, la sera,  andammo alla festa dell’Unità rionale: cercammo di fare una colletta per  Garino e per gli altri. I dirigenti ci aggredirono con aspre critiche  dicendo che ci eravamo lasciati trascinare dai fascisti e dai teppisti  provocatori. Ricordo quella scena con rabbia e con dolore. C’era la  tavolta solita, di ‘capoccia’. Le bottiglie di barbera, gli agnolotti, i  salamini caldi: la classica tavola piemontese a cui si riduceva ormai  tutta la prassi rivoluzionaria di un partito che aveva innalzato un  tempo su tutta la merda fascista e
 borghese la bandiera rossa della speranza e della rivolta. Tra un  agnolotto e l’altro cu rimproverarono con disprezzo, loro che non si  erano mossi dalla botte del vino per tutto il giorno. ‘Se quelli che si  sono battuti contro la polizia sono fascisti’, gridammo, ‘siamo
 fascisti pure noi!’ ‘Certo che quasi quasi vi siete comportati da  teppisti’. Fu la rottura. Prendemmo un tavolo con salamini e vino e  bagna cauda e lo sbattemmo in faccia ai dirigenti. E quella sera, per la  prima volta fra compagni, finì con altre botte.
Questo episodio mi riempì di disgusto. Per qualche tempo avevo cercato di reinserirmi nell’attività politica e pensavo che la fabbrica me l’avrebbe permesso; forse, pensavo, era stata la mia condizioni di artigiano a farmi vedere le cose in modo estremista e anarcoide. Ma mi accorsi che ormai c’era dappertutto al tendenza al riformismo, al compromesso, anche nella fabbrica; fu un’esperienza nuova, certo, ma alla fine si trasformò in un rafforzamento della convinzone che fosse necessaria veramente l’azione individuale. Dopo piazza Statuto riuscimmo a ritrovarci tutti e tre per una messa a punto delle rispettive intenzioni e dei progetti per il futuro”.
Oggi: “Fu la rottura con il Pci. Noi volevamo la rivoluzione”
“I  progetti per il futuro furono che mettemmo su una banda che ebbe una  vita molto attiva, ma anche delle grosse contraddizioni. Questa è una  storia, ma l’aspetto più importante è che ho sempre ritenuto che il ’68  non fosse altro che una lunga incubazione nata da piazza
 Statuto”. Perchè “la rottura con il Pci nasce sicuramente in piazza  Statuto nel 1962. Per un casino di militanti a Torino: noi tre poi  abbiamo fatto altre cose, ma c’erano molti compagni che rosicavano da  anni. L’attacco era soprattutto alla dirigenza, perchè non era chiara.  In parte l’avevano anche detto, con l’ottavo Congresso e con la via  italiana al socialismo. Però non ci stava bene, soprattutto per la una  generazione come la nostra che veniva subito dopo la Resistenza e che ha  sempre avuto come riferimento la Resistenza, più che tutto il resto. E  com’era finita quella storia, con tutta una serie di atti politici…  Insomma ‘Noi vogliamo fare come in Russia’, era la parola d’ordine,  ‘vogliamo fare la rivoluzione’. Noi pensavamo che ci fossero tutti gli  ingredienti giusti perlomeno per far lievitare un dibattito di quel  genere. Ma avevano deciso altro, e la minoranza fu schiacciata”.
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